«Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea» (v. 11).
Perché l’amore potesse dirsi compiuto (Gerusalemme), Gesù dovette passare dentro-attraversare la Samaria e la Galilea, simboli da sempre di lontananza, ‘non popolo’, di inimicizia, di infedeltà.
Stando al Vangelo di Giovanni (cap. 4), sarà proprio in Samaria a risiedere la sposa infedele che muore di sete, di una sete esistenziale che né l’acqua del pozzo (il possesso delle cose), né la passione grande dell’amore (i sei uomini che l’hanno posseduta), e tanto meno l’adorazione del suo Dio sul monte Garizim (la religione), hanno potuto estinguere. Gesù dovrà proprio passare da lì per unire a sé la propria amata (l’umanità malata d’amore) e mostrarsi finalmente come il ‘settimo’ uomo (numero della pienezza) ossia il compimento del cuore.
Proviamo a tradurre tutto questo in parole semplici: per incontrare il nostro Dio e farne esperienza, l’unico luogo che dobbiamo frequentare, l’unico pellegrinaggio che dobbiamo compiere è risiedere ‘malati d’amore’ là dove siamo in questo momento: il nostro peccato, il nostro limite, la nostra debolezza, la nostra fragilità è il posto che lui sceglie di attraversare, perché possa avere senso il suo ‘andare a Gerusalemme’, ossia il vivere l’Amore. È la nostra lontananza da lui, il luogo dove lui può starci vicino. Sono le nostre zone perdute, i luoghi dove Dio può farci visita.
Gesù, entra in un villaggio – la parte più indecente di me – e «gli vennero incontro dieci lebbrosi» (v. 12), dieci ‘morti viventi’, secondo la religiosità del tempo, le mie zone d’ombra.
Gesù entra e il ‘male’ gli si fa incontro! La misericordia è calamita che attira a sé la miseria!
A questo punto succede un fatto strano: Gesù non li guarisce! Dice loro semplicemente: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (v. 14).
Si tenga presente che secondo l’Antico Testamento, i lebbrosi non possono recarsi dai sacerdoti perché questi risiedono nella città santa, Gerusalemme, la città di Dio. E nella città santa – al Tempio – non possono accedere gli impuri.
Il significato è splendido. Gesù mi dice: non temere, non credere più che non puoi avvicinarti a Dio come sei. Vai, cammina, credici! E vedrai cosa succederà mentre camminerai con la tua verità esistenziale verso la Verità. Abbi fede che così come sei, con la tua storia, con la tua fragilità, con le zone di ombra che ti porti dentro, con le tue continue cadute e con tutti i tuoi sbagli Dio ti sta già attraversando, è già in cerca di te.
«Mentre essi andavano furono purificati» (V. 14b). La guarigione, la nostra ‘ricreazione’ avviene in itinere, durante il lento procedere della nostra storia personale. L’importante è camminare, procedere, non lasciarsi bloccare da inutili e sterili sensi di colpa. “La meta è la via” ricorda la tradizione taoista. Infatti la lebbra di questi dieci malati, scompare proprio durante il loro lento cammino.
Non ci è più chiesto di guarire per poterci avvicinare a Dio, ma siamo guariti perché Dio è già in noi. Perché in ultima analisi la nostra lebbra, il peccato che ci condanna a rimanere fuori dalla vera vita, è la mancanza di fiducia verso Dio immaginato come padre-padrone, giudice e castigatore, verso gli altri considerati nemici, e verso noi stessi considerati sbagliati.
Tutti e dieci son stati purificati, ma uno solo torna indietro a ringraziare (v. 15).
Il contesto in cui inserire questo brano è evidentemente quello eucaristico, di ringraziamento. Gesù domanda: «e gli altri nove dove sono?». Attenzione, questa domanda non è tanto un rimprovero per i nove assenti che non son tornati indietro a ringraziare (Dio non rimprovera nessuno e non vuole sudditi che ringrazino il Dio-sovrano piegandosi per la grazia ricevuta), bensì un richiamo proprio per questo che è tornato a fare eucaristia da solo. Qui risuonano come un’eco le parole che Dio rivolse a Caino in Genesi: «dov’è tuo fratello?». L’unione con Dio, il frequentarlo – anche a livello sacramentale – non può mai esaurirsi in un fatto personale e intimistico. O riconosciamo Dio come Padre perché fratelli, o per noi rimarrà sempre e solo un idolo. Ogni eucaristia celebrata si realizza nella missione vissuta. Ogni eucaristia diventa di per se stessa un mandato ad amare i fratelli, infatti la si definisce anche Messa, da ‘missio’, missione. Se non si parte in missione a recuperare i fratelli nell’amore dopo aver partecipato alla Messa, si perde anche ciò che si è celebrato in Chiesa.
18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».
2 Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Credo che una grande colpa di un certo cristianesimo – di sempre – sia stato quello di tradire la terra in nome del cielo. Pensare che tutto si risolva in un indefinito ‘aldilà’, mentre qui, in questa ‘valle di lacrime’ siamo solo di passaggio, e che per quanto ora possiamo soffrire, ciò che ci sarà riservato in paradiso ci farà dimenticare tutto il male subìto.
Ebbene, no. Questo non è cristianesimo, questo non è vangelo ma soprattutto non è essere uomini e donne di fede. Gesù non ha mai identificato la fede col quieto vivere, non ha mai invitato a tradire la terra in nome del cielo, non ha mai parlato di aldilà come dimora di anime pie, o di premi di consolazione celesti per religiosi frustrati.
Dovremmo inserire nei nostri catechismi una virtù in più, ovvero la ‘fede nell’umanità’. Forse, prima di credere in Dio, sarebbe necessario cominciare a credere nell’uomo: «la fede nella possibilità che l’uomo ha di liberarsi del suo male è una qualità straordinaria. La fede nell’uomo è la fede nell’impossibile, è la fede, per esempio per chi lotta perché il mondo sia fatto da uomini eguali fra loro e senza violenza» (Balducci).
Ci portiamo dentro l’idea che l’uomo – per la sua innata debolezza – da solo non ce la può fare, che ci voglia comunque un dio che lo sollevi, che gli dia una mano, che lo aiuti con la sua santa ‘grazia’. Ma il Vangelo di oggi è chiarissimo: ‘solo dopo che hai fatto tutto ciò che dovevi fare, solo dopo aver vissuto da uomo, fino all’estremo, sino alla morte, solo dopo potrai dire “sono un servo inutile”’. Ma non prima. Non ti è dato disertare la storia, sino a quando non sarai venuto alla luce della tua squisita umanità, fino a quando non diventerai finalmente vivo. Anche perché ‘alla fine’ a risorgere saranno solo i vivi, non i morti.
L’uomo religioso invece ha l’insana abitudine di dire già in corso d’opera: ‘sono inutile’, e ‘ho bisogno di un dio come stampella delle mie insufficienze, tappabuchi della mia inconsistenza’.
La fede nell’umano occorrerebbe mettere in campo nel nostro vivere quotidiano. Fede come fiducia nella capacità di bene insita in noi stessi, nella nostra retta coscienza, nella nostra profondissima capacità di amare. Si sposterebbero così montagne di odio e di violenza, d’intolleranza e d’ignoranza.
Oggi, ancora qualcuno crede in Dio, ma chi crede ancora nella bontà dell’uomo?
«Abbiamo avuto uomini che hanno saputo morire per il futuro dell’umanità, hanno dato voce alla specie umana e sono morti per questo. Che importa se dicevano che in cielo non c’è nessuno? In cielo ci sono tanti idoli. Ce li abbiamo messi noi. Forse è una via necessaria anche quella di spopolarlo, visto che molta sostanza di umanità è stata proiettata e come alienata nel cielo delle immaginazioni. Quel che conta è la fede nel futuro dell’umanità. Dobbiamo essere intransigenti contro i rassegnati. I veri nemici del futuro non sono i cattivi, i terroristi, ma i rassegnati.
C’è una serenità illegittima, come quella di certe comunità di fede che si riuniscono e poi si nutrono di Alleluia in un mondo pieno di armi. La fede seria è quella che ci mette di fronte all’Epulone e al Lazzaro e ci chiede di pronunciarci» (Balducci).
«Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Oggi, ancora qualcuno crede in Dio, ma chi crede ancora nella bontà dell’uomo?
Il cristianesimo non è questione di adeguamento, ma di compimento.
Non siamo chiamati ad imitare Cristo, ma a dargli compimento in noi, concedere spazio al principio divino che ci portiamo dentro, entrarci in contatto sino ad esserne trasformati.
La nostra vita dunque non consisterà nell’adeguarsi a verità estrinseche a noi (la legge), ma nel portare alle estreme conseguenze la verità che siamo, il nostro essere umani.
Il Vangelo di oggi ci dona anche il segreto perché tutto questo possa compiersi: abbandonare tane, nidi e padri. Traducendo, potremmo affermare che è necessaria la ferma decisione di rompere anzitutto con l’immagine della madre; tane e nidi sono simbolo dell’utero materno, il mondo dei bisogni e delle sicurezze. Gesù invita a rompere con tutto ciò che ha a che fare con i nostri sogni, le nostre fiducie e certezze, di qualsiasi genere materiali, immaginifiche, religiose siano.
Ora, questa rottura non va letta come rinuncia fine a se stessa, bensì come possibilità per un’autentica libertà. È nel vuoto e nell’abbandono – ossia ciò che la mistica chiama puro silenzio – che il divino può finalmente compiersi in noi. L’io deve essere liberato non tanto da qualcuno o da qualcosa, bensì ‘per’ qualcuno, perché Lui possa compiersi in pienezza. Attenzione tane e nidi possono includere anche le nostre immagini di Dio, il nostro presunto rapporto con lui nel quale siamo soliti trovare protezione, comprensione, rifugio, aiuto. È interessante notare che solo nel momento in cui Gesù sulla croce grida: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46; Mc 15, 34), sperimenta anche l’unione massima col Padre, il compimento del suo essere umano, la risurrezione.
Gesù invita a rompere altresì con l’immagine del padre (v. 60), ossia col mondo di quegli affetti, di quei doveri, di quei rapporti che hanno il potere di determinarci, esercitare un forte impatto su noi, dominandoci. Proviamo a chiederci: quanto potere abbiamo concesso alle ‘personalità forti’ nella nostra vita, impedendoci di fatto di vivere in pienezza?
Occorre insomma abbandonare i morti (cfr. 60), slegarci da quei fantasmi che presumiamo essere capaci di donarci vita dall’esterno. No, l’essenziale per vivere abita in noi. Occorre solo crederci fino in fondo, prenderne consapevolezza e poi concedergli spazio e farlo crescere, fino alla nostra piena trasformazione.