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Maria nel dialogo tra le Chiese

di Mons. Francesco Pio Tamburrino OSB
Arcivescovo di Foggia

“Questione mariana”

Maria, la madre di Gesù, nell’inno di lode che rivolge a Dio, suo Signore e Salvatore, esprime il presagio di una ininterrotta benedizione da parte di tutte le generazioni dell’umanità: «D’ora in poi tutte le generazioni mi diranno beata» (Lc 1,48). Nel Nuovo Testamento il verbo makarìzein e suoi derivati sì riferiscono alla «singolare gioia religiosa che viene all’uomo dalla partecipazione alla salvezza del regno di Dio» (1). La lode, per Maria, sarà sempre lo stupore umano di fronte alla grandezza di ciò che il Potente ha compiuto in lei, compiacendosi della umiltà (tapeinosis) della sua serva.

«Questa direzione verticale della sua lode non impedisce a Maria di definire la sua esatta posizione nel piano di Dio: - ella è la serva del Signore (cfr Lc 1,38), in una situazione di bassezza (tapeinosis); - tuttavia sarà riconosciuta beata (makariousin me) d’ora in poi da tutte le generazioni» (2).

A partire dalla autocoscienza che Maria manifesta nel Magnificat , sono possibili due accentuazioni differenti e complementari: la «direzione verticale», che esalta il Nome santo di Dio e la sua fedeltà; la «direzione orizzontale», che prende in considerazione Maria nel piano di Dio, la salvezza (ta megàla) operata in lei in favore di Israele e di tutte le generazioni umane.

Oggi la cristianità è divisa. La stessa lode di Maria nelle Chiese non riflette soltanto il legittimo pluralismo, cui il Magnificat fa da preludio e il Nuovo Testamento documenta più ampiamente, ma assume termini antitetici e alternativi.

Va detto subito che la divisione nelle mariologie delle Chiese non è nella persona di Maria, né in ciò che il Nuovo Testamento testimonia di lei. Da parte sua c’è stata solo la volontà di servire il Signore nel singolare compito di generare al mondo il Salvatore e di accompagnarlo nella sua missione mediante la fede e la sottomissione. Maria, nella sua funzione voluta da Dio e nel suo servizio, non è fonte di divisione, bensì di benedizione e di unità. Eppure ella, nella storia delle Chiese cristiane, soprattutto degli ultimi quattro secoli, è divenuta parte del contenzioso teologico, per cui oggi si parla di «questione» e di «problema» mariano. Anzi, il tema mariano sembra essere - nel dialogo ecumenico - uno degli argomenti che suscitano le reazioni e le emozioni più vivaci, capace di coinvolgere altri valori legati all’essenza della fede cristiana. Kenneth S. Kantzer, ad esempio, confessa la sua perplessità nel constatare come questa figura di donna venga sempre più «gonfiata», fino ad assumere aspetti di intollerabile idolatria. «Agli occhi dei protestanti la Chiesa cattolica promuove una pietà mariana che può essere solo definita idolatra» (3). D’altra parte, ortodossi e cattolici rimproverano ai protestanti di ignorare Maria, di non riconoscerle il posto che le compete e, dal punto di vista teologico, il compito unico che ha svolto nella storia della salvezza. Non è assurdo che, pur facendo parte in forza del battesimo di una unica Chiesa e pur essendo tutti credenti in Cristo, proprio sua madre ci divida (4)?

La divisione su Maria si situa sul versante delle teologie, che le Chiese hanno sviluppato nel corso della storia cristiana, delle esegesi bibliche che hanno prodotto, delle ecclesiologie differenti che contraddistinguono le loro coscienze. Sta di fatto che oggi le Chiese divise non sono in grado di proferire «con una sola voce» la lode che Maria presagiva nel popolo dei credenti.

Nel movimento ecumenico ufficiale il tema mariano non è stato ancora affrontato, forse perché finora è stato ritenuto marginale rispetto ad altri argomenti più urgenti e radicali. Solo singoli teologi o gruppi ristretti di ricercatori ne hanno fatto l’oggetto di colloqui interconfessionali (5).

Il tema mariano potrebbe essere studiato illustrando le posizioni delle varie Chiese al riguardo (6). Questa via, per sé legittima, sembra improduttiva, perché «un ecumenismo spaziale tende, direi, per sua natura, verso l’integrismo, verso la riaffermazione delle rispettive posizioni che, pur ripetute, ad un dato momento si scontrano» (7).

Preferisco situare il problema nella sua essenzialità, seguendo un taglio sistematico-teologico dei diversi livelli in cui si pone la «questione mariana».

Il punto di partenza: la Scrittura

La persona di Maria, nella sua essenza, nella sua funzione e missione, è tutta nelle Sacre Scritture e nella storia di salvezza, che hanno come punto centrale la persona e la missione di Gesù. Maria vi appare con discrezione e umiltà, ma anche in un ruolo unico di Vergine che genera miracolosamente il Salvatore del mondo, di credente, di serva del Signore, di povera per eccellenza, sempre disponibile a cogliere e servire i desideri di Dio e degli uomini. Un aspetto profondamente biblico, che ricollega Maria ad Abramo e ai grandi personaggi della storia della salvezza, messo in luce particolarmente dalla esegesi protestante, è la fede tentata di Maria.

«La lettura attenta delle Scritture ci dà una immagine succinta, ma impregnata di una fede semplice, turbata ma trionfante, nella persona di Maria. Dall’Annunciazione alla Natività, attraverso l’infanzia e la maturità di Gesù, fino alla sua crocifissione e alla risurrezione, e anche nella prima comunità cristiana, Maria è un esempio e uno stimolo della fede in Gesù il Cristo» (8).

René Laurentin ha osservato che, mentre al secolo XVI la discrezione del Nuovo Testamento su Maria indusse i protestanti a rinunciare ad ogni mariologia e i cattolici a sviluppare una mariologia parascritturistica, oggi «i protestanti ritrovano Maria mediante la Scrittura, mentre i cattolici ritrovano Maria nella Scrittura» (9).

Il confronto ecumenico sui testi biblici relativi a Maria è, senza dubbio, il primo e fondamentale passo verso una convergenza teologica. Tuttavia non va sottovalutato il fatto inevitabile che anche nell’esegesi è difficile liberarsi dalla forma mentis e dalla conoscenza precedente (Vorveständnis) confessionale, che si rivela nella preferenza e nell’insistenza su determinati temi e testi, piuttosto che su altri.

A questo si aggiunge, come per altre differenze nelle tradizioni confessionali (10), che lo stesso Nuovo Testamento non presenta la Madre di Gesù in modo uniforme e armonioso: la diversità di accentuazioni è già presente negli scritti neotestamentari. Giustamente in una ricerca interconfessionale, condotta negli Stati Uniti tra cattolici e luterani, si osserva: «Se le Chiese oggi non sono d’accordo nel valutare Maria, non è soltanto perché hanno tratto differenti conclusioni intorno agli sviluppi postneotestamentari, ma anche perché hanno dato enfasi differente ai diversi elementi che si trovano nello stesso Nuovo Testamento» (11).

Anche per la dottrina mariana, anzi per essa in modo del tutto speciale - affermata l’autorità sovrana della Scrittura come «norma non normata» della fede cristiana - si pone il problema del rapporto tra Scrittura-Tradizione-Chiesa. Il tradizionale dissenso sulle fonti della rivelazione («sola Scrittura» per i protestanti, Scrittura-Tradizione per gli ortodossi e i cattolici) si va smorzando ed è stato riformulato così dalla (Conferenza ecumenica di Fede e Costituzione a Montreal nel 1963:

«Il nostro punto di partenza è il fatto che viviamo tutti in una tradizione che si rifà al nostro Signore, e affonda le sue radici nell’Antico Testamento, e siamo tutti in debito con quella tradizione nella misura in cui abbiamo ricevuto, attraverso la sua trasmissione da una generazione all’altra, la verità rivelata, il Vangelo. Per questo possiamo dire che esistiamo, come cristiani, per mezzo della Tradizione del Vangelo (la paradosis del kerygma) testimoniata nelle Scritture, trasmessa dentro e per mezzo della Chiesa mediante la potenza dello Spirito Santo. La Tradizione presa in questo senso si realizza nella predicazione della Parola, nell’amministrazione dei sacramenti, nel culto, nell’insegnamento, nella teologia, nella missione e nella testimonianza a Cristo attraverso la vita dei membri della Chiesa.

Ciò che viene trasmesso nel processo della tradizione è la fede cristiana, non soltanto come una somma di principi, ma come una realtà vivente trasmessa attraverso l’opera dello Spirito Santo. Possiamo parlare della Tradizione (con la «T» maiuscola) cristiana, il cui contenuto è la rivelazione di Dio e il suo donarsi in Cristo, presente nella vita della Chiesa.

Ma questa Tradizione, che è l’opera dello Spirito Santo, è incorporata nelle tradizioni (nei due sensi della parola, intendendo sia la diversità nelle forme di espressione, sia le tradizioni confessionali). Le tradizioni nella storia cristiana, sono distinte dalla Tradizione, eppure ad essa collegate. Esse sono le espressioni e le manifestazioni in forme storiche diverse, dell’unica verità e realtà che è Cristo» (12).

Nel caso specifico della mariologia si evidenzia in maniera emblematica il modo diverso di concepire il rapporto fra Scrittura e Tradizione nelle Chiese. Per i cristiani della riforma, per i quali «la Tradizione coincide con la rivelazione in Cristo e la predicazione della Parola, affidata alla Chiesa ed è espressa in diversi gradi di fedeltà, in varie forme condizionate dalla storia, cioè dalle tradizioni» (13), il circolo resta più chiuso e le possibilità di sviluppo dottrinale non oltrepassano di molto il compito della esegesi biblica. Si spiegano allora le perplessità, nel mondo protestante attuale, di ritenere legittimo il titolo di Teotòcos (in latino deipara, colei che ha generato Dio).

«L’espressione «Madre di Dio» si è rivelata particolarmente inaccettabile dai protestanti. Come può, si afferma, una donna di carattere finito essere madre di una persona di carattere infinito?» (14).

Situato nel contesto storico in cui tale titolo è stato formulato (Concilio di Efeso del 431), esso non è un titolo mariano, ma cristologico, inteso ad affermare la qualità di Figlio di Dio inseparabilmente unito alla natura umana dal momento del suo concepimento nel seno di sua madre.

«Maria, nella tradizione cristiana, garantisce l’umanità di Gesù, la realtà della sua vita sulla terra, l’autenticità del dubbio e delle tentazioni che egli ha conosciuto» (15).

Il Nuovo Testamento riporta sulla bocca di Elisabetta il titolo di Maria come «Madre del Signore». L’esegeta minimalista vi scorge solo una lode alla madre del Messia. L’espressione, per quanto poderosa, non sarebbe da intendere nel senso di una confessione di fede nel figlio di Maria come Figlio di Dio (16). È legittimo tuttavia chiedersi se l’intuizione di Elisabetta, «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41) non sia sconfinata oltre il semplice riconoscimento del Messia. «Per Luca solo lo Spirito può operare la conoscenza di Gesù come Figlio di Dio» (17). A questo si aggiunge la probabilità che l’evangelista-redattore abbia caricato di un colore post-pasquale e della fede della comunità primitiva l’appellativo di Gesù come Signore (Kyrios).

Il Concilio di Efeso ha inteso collocarsi in continuità con la fede della Chiesa apostolica quando, in una situazione dottrinale diversa da Luca, intende dare lo stesso contenuto dogmatico alle due espressioni della maternità di Maria: «la madre del Signore» di Elisabetta è «la madre di Dio», madre umana del Cristo, vero Dio e vero uomo secondo l’assemblea efesina (18).

C’è poi un altro settore che la riflessione biblica su Maria deve tenere presente ed è quello che René Laurentin chiama «un complesso di suggerimenti» (19) che emergono dal rapporto vivente tra i testi mariani neotestamentari fra di loro e con il resto della Scrittura (20). I riferimenti all’Antico Testamento nei detti e fatti di Maria, espliciti o in filigrana, fanno parte integrante della figura biblica della Madre di Cristo.

Il punto di arrivo: Maria nelle Chiese

A venti secoli di distanza da «Maria nella storia» i cristiani si trovano divisi su «Maria nella fede». Come in altri settori della teologia (sacramenti, ministero ordinato, Scrittura-Tradizione, culto dei santi), si sono formati durante i secoli due poli di concentrazione: da una parte si ritrovano in sostanziale accordo le Chiese orientali (precalcedonesi e ortodosse) e la Chiesa cattolica; dall’altra le Chiese e Confessioni nate o ispirate dalla Riforma del secolo XVI.

Nelle Chiese orientali e cattolica, soprattutto a partire dai grandi dibattiti cristologici dei primi secoli, la comprensione teologica di Maria venne trasferita nel culto liturgico e nella pietà. Si può affermare che, tuttora, se si vuole cogliere il significato più completo e vitale di Maria nel ministero di Cristo e della Chiesa, per la cristianità orientale e cattolica, si deve far ricorso alla liturgia.

Nel contesto cultuale, la madre del Signore vi appare nella sua esatta posizione storico-salvifica: il centro del culto è Dio uni-trino; il sacerdote della nuova alleanza e unico mediatore è Cristo; colui che rende efficace e attuale il memoriale delle opere salvifiche di Dio è lo Spirito. Alla celebrazione della storia della salvezza sono presenti tutti i personaggi dell’Antico e Nuovo Testamento e della Chiesa, da Abele il giusto fino all’ultimo battezzato, che Dio ha voluto associare alla sua opera. Maria vi è presente in prima fila.

Nella concezione del culto ci imbattiamo nella questione che divide i riformati dai cattolici e ortodossi, se, cioè, Maria e i santi debbano entrare e in che modo nella preghiera cristiana.

La norma della Chiesa antica (Concilio di Ippona del 393) di rivolgere la preghiera liturgica a Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito è osservata nella liturgia di tutte le Chiese. Nella liturgia romana si trovano pochissimi elementi, in genere di carattere lirico (inni, antifone) diretti a Maria e ai santi (21). La liturgia bizantina (22) e delle Chiese orientali (23) danno maggiore spazio di quella romana alla preghiera diretta a Maria. Spesso hanno forma di saluto (chairetismòs), che riecheggia quello dell’angelo nell’Annunciazione (Lc 1,28). In generale tali elementi sono marginali e non deformano il carattere teocentrico della liturgia. Il problema si pone invece per le forme di pietà mariana extraliturgica, ove Maria sembra tenere il posto centrale della preghiera e della devozione.

Sono presenti gli eletti di sempre [...].Non si tratta della preghiera per i defunti; la Riforma l’ha respinta a causa della mercantilizzazione della soteriologia che era stata favorita dal Medioevo occidentale; si tratta della preghiera con i vivi di dovunque e di sempre» (24)

Prendendo in esame e raffrontando la mariologia cattolica del Vaticano II e quella protestante, W.A.Quanbeck ha osservato che c’è una commemorazione dei santi vera e giusta nella Chiesa antica.

La preghiera biblica ammette che il credente possa far «memoria» a Dio non solo della sua alleanza, ma anche delle promesse e dell’amore dimostrato a Davide (I Re 8; sal 132,1: «Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove»). Il Padre di Gesù Cristo è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (I Re 18,36, ecc.), «un Dio non dei morti ma dei viventi» (Mc 12,27).

Sembra giunto il momento in cui le Chiese si possono fruttuosamente consultare, sul culto, sulla spiritualità e sulle forme espressive della devozione mariana e dei santi, per eliminare quanto è contrario alla fede cristiana, ma anche per discernere e rispettare quelle diversità e accentuazioni confessionali che sono legittime.

Bisogna riconoscere che, da parte cattolica, fanno ancora ostacolo le esagerazioni delle devozioni popolari e anche la tendenza di certi teologi a non considerare la mariologia in stretto nesso con la cristologia e l’ecclesiologia.

Nell’ambito della riflessione teologica, sia nel presentare la propria fede, sia nel valutare quella degli altri, va tenuto presente il criterio della «gerarchia della verità».

Il Concilio Vaticano II ammonisce i teologi cattolici in questi termini: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine e gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana» (26).

Le verità del cristianesimo non possono essere semplicemente giustapposte o allineate nell’orizzonte piatto di una successione.

«Non tutto si presenta sul medesimo piano, tanto nella vita di tutta la Chiesa che nel suo insegnamento; certo, tutte le verità rivelate esigono la stessa adesione di fede; ma, secondo la maggiore o minore relazione prossima che hanno rispetto al fondamento del mistero rivelato, esse stanno in posizioni diverse le une di fronte alle altre e in rapporti differenti tra di loro» (27).

Il legittimo pluralismo può spingersi anche in altre direzioni; e sono «la diversa enunciazione delle dottrine teologiche», «i metodi e i cammini diversi per giungere alla conoscenza e alla confessione delle cose divine», e perfino uno sviluppo dogmatico differente «di alcuni aspetti del mistero rivelato, percepiti in modo più adatto e posti in migliore luce dall’uno che non dall’altro» (28). Questa osservazione del Vaticano Il riguarda direttamente gli Orientali, ma può estendersi anche alle Chiese della riforma.

In molti casi le formule teologiche si rivelano complementari, ma - non bisogna negarlo - talvolta estranee o opposte tra di loro (29). In questa zona si situano i dogmi cattolici della Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria. Nel prossimo futuro sarà compito della Chiesa cattolica rendere conto della fede che è in lei di fronte agli ortodossi e ai protestanti, utilizzando una accurata ermeneutica dei suoi dogmi, tenendo conto dell’apporto della scienza e del linguaggio, della antropologia e delle recenti escatologie (30).

Conclusione

Se esiste dissenso è divisione sulla figura di Maria, essi non sono dovuti alla sua persona, né al suo rapporto con Cristo, di cui è stata madre e serva fedele. Maria non ha creato partiti nella chiesa apostolica e tra i primi discepoli di Gesù (cfr 1Cor 3,4 ss). La divisione è nella storia successiva e nella teologia delle Chiese storiche.

Questo significa che riprendere la questione mariana in ambito ecumenico non può che giovare alla causa dell’unità. Maria, lasciata finora in disparte nei dialoghi ecumenici ufficiali, merita maggiore attenzione, perché il successo dei dialoghi in corso dipende anche dalle soluzioni che si daranno ai problemi posti dalla mariologia. Il serio rinnovamento teologico in atto sui temi della Scrittura-Tradizione, della ecclesiologia e della cooperazione umana alla salvezza permette una sutura delle lacerazioni.

Nella ricerca ecumenica su Maria, come del resto per ogni altro aspetto, bisogna evitare di fermarsi agli enunciati teologici astratti. La teologia sistematica non sempre è in grado di rendere conto del significato ultimo di ciò che afferma. La teologia deve essere riportata alla esperienza di fede nei suoi molteplici aspetti della vita ecclesiale perché si possa esprimere onestamente la fede, che essa è chiamata a servire. Il «vissuto» della fede dà alla teologia la dimensione che, in qualche modo, la completa e la rende più intelligibile. Per esemplificare: nelle Chiese in cui si apprezza la «verginità per il regno» e si pratica la vita monastica come carisma ecclesiale, più facilmente si recepisce nella teologia, il significato della verginità di Maria (31).

Il dialogo interconfessionale su Maria è possibile. Ma deve svolgersi a partire da ciò che unisce e non da ciò che divide. Ciò che unisce le Chiese su Maria non è il relitto superstite da un grande naufragio o il residuo salvato faticosamente dalla dissipazione reciproca delle divisioni. Esso è l’essenziale tenuto al sicuro da Dio, come seme e speranza di ua totale comunione di fede tra le Chiese

Note

(1) F. Hauck, Macàrios in Grande Lessico del Nuovo Testamento a cura di G. Kittel - G. Friedrich, tr. it., VI, Brescia 1970, 990.

(2) Luca, versione, introduzione e note di C. Ghidelli (Nuovissima versione della Bibbia, 35) Roma 1977, 65 -66.

(3) K. S. Kantzer, Maria, la madre di Gesù: c’è un’alternativa fra l’ignoranza e il divinizzarla? in Voce Evangelica 48 (1987n. 4,10).

(4) G. Cereti, Maria nel dialogo ecumenico, in AA. VV., Maria nella comunità ecumenica, Roma 1982, 21.

(5) Un gruppo di 23 teologi ortodossi, anglicani, riformati e cattolici nell’ VIII Congresso mariologico internazionale (ottobre 1979) arrivarono a redigere una dichiarazione sorprendente per la sostanziale convergenza su diverse questioni riguardanti Maria; il testo è pubblicato in Maria nella comunità ecumenica, 111-113. Di grande interesse sono i tre studi dei luterani T. Harjunpaa, P. Meinhold e W. Borowsky curati per il Centro di studi mariologici ecumenici di Superga (Torino) e pubblicati nel volumetto Maria ancora un ostacolo insormontabile all’unione dei cristiani? Torino 1970. Negli anni 1980-81 il Segretariato Attività Ecumeniche di Roma organizzò degli incontri interconfessionali su Maria. Le relazioni e le meditazioni sono contenute nel voI. Maria nella comunità ecumenica (v. nota 4) e rappresentano finora il migliore contributo delle Chiese italiane al dibattito su Maria.

(6) Così procede E. Geremia, Orientamento ecumenico del culto alla Vergine, in Testimoni nel mondo, n. 40, agosto 1981, 25-32.

(7) R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, in AA.VV., Maria nella comunità ecumenica, 13.

(8) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, in AA.VV. Le dialogué est ouvert, I, Neuchâtel 1965, 175.

(9) R. Laurentin, Compendio di mariologia, Il ed., Roma 1963, 50.

(10) Ad esempio, per l’ecclesiologia v. P. R. Tragan, Pluralismo ecclesiale nel Nuovo Testamento, in Servitium 20 (1986) 13-26.

(11) AA. VV.,Mary in the New Testament, Philadelphia New York 1978, 294.

(12) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 45-47, in La Bibbia. La sua autorità e interpretazione nel movimento ecumenico a cura di E. Flesseman - van Leer; ed. it. a cura di R. Bertalot e I. Gargano, Leumann-Torino 1982-35.

(13) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 57, in La Bibbia. La sua autorità, 39.

(14) K. 5. Kantzer, Maria, la madre di Gesù, 11.

(15) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, 176; cfr. W. Borowsky, incontro delle confessioni in Maria, in Maria ancora un ostacolo, 39- 40; M. Thurian, Maria madre del Signore immagine della Chiesa, tr. it., II ed.,Brescia 1969, 87-93.

(16) K. E. Rengstorf, Il vangelo secondo Luca, tr.it., Brescia 1980, 59. Di diversa opinione è M. Thurian, Maria madre del Signore, 88: «San Luca dà al titolo di Kyrios il suo significato divino. Cristo è Signore, egli è Dio».

(17) K. H. Rengstorf, il vangelo secondo Luca, 59. Ma è proprio Luca a menzionare la presenza illuminante dello Spirito!

(18) Sulla continuità tra la fede biblica e il dogma efesino si vedano i testi di Lutero e Zwingli riportati da M. Thurian, Maria madre del Signore, 90-93.

(19) R. Laurentin, Compendio di mariologia, 50.

(20) L’esegeta e il teologo nella ricognizione di questi aspetti meno evidenti devono usare maggiore prudenza. «Le interpretazioni allegoriche dei testi biblici hanno permesso ai Padri e agli scrittori medioevali di tradurre la loro comprensione della figura di Maria in una forma immaginosa, ma talvolta non forniscono alla riflessione teologica una base rigorosa»: P. Grelot, Marie, in Dict de spirit., 10, Paris 1977, 409. Al libro di M. Thurian, Maria madre del Signore (v. n. 15) in campo protestante si muove l’appunto che «le sue conclusioni sono eccessivamente basate sull’allegoria e non trovano [...] un supporto sufficiente al momento della verifica con i testi del Nuovo Testamento: R. Bertalot, Principali dati dottrinali circa Maria nella tradizione protestante, in Maria nella comunità ecumenica, 108.

(21) Si possono menzionare, a titolo di esempio, il Carmen Paschale II, 63- 38 di Sedulio: Salve, sancta Parens divenuto l’antifona di introito per alcune messe mariane; l’inno Ave, maris stella e le quattro antifone maggiori di compieta. Questi e altri testi devozionali sono arricchiti di melodie gregoriane di grande valore artistico: cfr il capitolo Notre Dame dans I‘art grégorien nel volume Les plus belles mélodies grégoriennes, comtnentées par Dom Gajard, Solesmes 1985, 231- 268.

(22) J. Nasrallah, Marie dans la Sainte et Divine Liturgie Byzantine, Paris 1954, 45-107. Tra i numerosi esempi di preghiere dirette a Maria basti ricordare l’inno acatisto e i numerosi theotokia aggiunti regolarmente alle dossologie.

(23) Il più antico esempio (papiro del III secolo) proveniente dall’ Egitto è il Sub tuum praesidium; cfr F. Mercenier, La plus ancienne prière à la Sainte Vierge, in Questions liturgiques etparoissiales 25 (1940) 33-36. Per la Chiesa copta v. G. Giamberardini, Marie dans la Liturgie Copte, Paris 1958. Nella Chiesa armena si fa uso del cap. 80 del Libro delle Lamentazioni di Gregorio di Narek: Preghiere armene, Milano 1978, 101-107 («supplicazione alla Vergine»): nel rito della messa l’introito per le feste mariane è diretto a Maria Liturgia della Santa Messa, Milano 1976, 19.

(24) J. J. von AIlmen, Celebrare la salvezza. Dottrina e prassi del culto cristiano, tr. it., Leumann-Torino 1986, 178-179.

(25) W. A. Quanbeck, Le pro blème de la mariologie, 175-176.

(26) Decreto Unitatis redintegratio, 11..

(27) Segr, per l’unione dei cristiani, Riflessioni e suggerimenti sul dialogo ecumenico, 4b.

(28) Decr. Unitatis Redintegratio, 17,

(29) Nell’area del dissenso rientrano quei titoli mariani che spettano propriamente a Cristo (mediatrice, corredentrice, ausiliatrice, consolatrice, avvocata, ecc). Per il protestantesimo sono titoli riservati alla Trinità. Per il cattolicesimo e l’ortodossia fanno parte del culto e delle devozioni. Tali titoli sono da intendere in senso molto subalterno e analogico. La prassi devozionale, tuttavia, non deve mai offuscare la centralità e la singolarità di Cristo.

(30) W. Borowsky, Incontro delle confessioni in Maria, si apre una pista di ricerca: i due dogmi mariani appartengono alla «Maria glorificata», che supera di molto la «Maria biblica». Borowsky suggerisce di leggerli come «colore religioso» dato alla figura di Maria, elaborato e cresciuto nel corso della storia, per cui «non toccano necessariamente il rapporto personale con Cristo né lo distruggono». Cfr anche R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, 14-15.

(31) cfr G. Westfal, Vie et foi du protestant, Paris 1966, 131-132. Si può osservare che nelle Chiese riformate ove stanno rinascendo esperienze di tipo monastico, cresce anche l’interesse per Maria. Alcune fondazioni hanno assunto nomi significativi, quali: Congregazione delle figlie di Maria (Danimarca); Sorelle evangeliche di Maria di Darmstadt (Germania); Suore di Maria, madre di Gesù (Svezia).

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Associazione mariologica interdisciplinare italiana
La vergine con i cristiani nel mondo attuale
di Alberto Valentini *

Con l’atto costitutivo dell’associazione nel 1990, si è realizzato il sogno degli studiosi e degli innamorati della Madre del Signore. L’obiettivo è di illuminare la figura della Vergine Maria nel contesto delle scienze teologiche e umane; nello stesso tempo si desidera incentivare sempre più il dialogo ecumenico, talvolta difficile.

L’idea di costituire anche in Italia un’associazione di studi mariologici, sull’esempio di quelle esistenti in altre nazioni, era stata presa in considerazione negli anni cinquanta del secolo scorso, ma per diversi motivi non si era realizzata.

Più di trent’anni dopo, il problema riemerse nell’ambito del Collegamento mariano nazionale: il 12.10.1988, nel corso di una verifica circa le attività svolte dal Collegamento, il direttore Alberto Valentini evidenziava la necessità di un’istituzione italiana di ricerca in campo mariologico.

Cenni storici

Il progetto di una nuova associazione scientifica appariva ambizioso e stimolante, ma comportava non poche difficoltà. Per prima cosa si trattava di sondare il terreno e preparare l’ambiente: con questo intento i monfortani Stefano De Fiores e Alberto Valentini iniziarono degli approcci presso alcuni centri universitari romani.

Incoraggiati dai risultati d itali incontri preliminari, si decise di convocare - con lettera firmata da Salvatore Meo (allora preside del Marianum), De Fiores e Valentini - circa trenta studiosi di teologia, uomini e donne, provenienti da vari centri universitari e istituzioni culturali d’Italia, per studiare insieme il progetto, le finalità e i compiti della nuova associazione.

Nel giro di alcuni mesi si ebbero tre incontri, rispettivamente il 21.12.1989, il 15.2 e il 5.4.1990, sempre a Roma, presso il Santuario di Maria Regina dei Cuori. Nella riunione del 5 aprile si pervenne alla costituzione dell’Ami, Associazione mariologica interdisciplinare italiana, sottoscritta da venticinque soci fondatori. L’atto legale, costitutivo dell’associazione, venne firmato davanti al notaio il 9.5.1990.

Membri e finalità

Attualmente l’associazione (sede: via Cori, 18/A — 00177 Roma, telefono 06.83.39.63.02 [segretario Enrico Vidau], www.mariology.it, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) conta un centinaio di soci tra ordinari, onorari e sostenitori sparsi in tutta Italia. Tra di essi ci sono anche non italiani, per lo più residenti a Roma. Soci ordinari sono coloro che, in possesso di laurea o licenza in mariologia o in scienze teologiche, oppure di laurea in scienze umane, sono attivamente interessati alla ricerca mariologica. Soci onorari sono studiosi di riconosciuta competenza in campo mariologico o che abbiano acquisito particolari benemerenze nel promuovere le finalità dell’associazione. Soci sostenitori sono quanti in diversi modi cooperano alle attività e iniziative dell’Ami.

Dallo statuto dell’associazione emergono alcune note imprescindibili - come la scientificità e l’interdisciplinarità, l’apertura ecclesiale, il dialogo col mondo contemporaneo - che qualificano l’Ami, ne giustificano la ragion d’essere e ne precisano gli obiettivi. L’Associazione mariologica italiana intende inserirsi con umile, ma consapevole determinazione, nel contesto delle scienze teologiche e umane, per illuminare la figura della Vergine Maria all’interno dell’esperienza cristiana e nel cammino del popolo di Dio in mezzo al mondo.

L’associazione, che non ha fine di lucro, si prefigge i seguenti scopi:

1 promuovere la ricerca scientifica concernente la Vergine Maria Madre di Gesù, nel contesto della fede ecclesiale, con apertura alla dimensione ecumenica, in dialogo con le scienze teologiche e umane, e in collaborazione con analoghe associazioni a livello internazionale, specialmente europeo;

2 elaborare adeguati criteri teologici per illuminare la pietà mariana, prestando attenzione agli orientamenti pastorali della Chiesa italiana;

3 favorire lo studio della mariologia nei suoi vari aspetti, specie tra i giovani ricercatori e gli operatori di pastorale, con particolare riferimento alla tradizione italiana.

Per realizzare questi scopi, l’Ami ricorre alle seguenti iniziative:

• organizzare incontri, convegni, giornate di studio;
• pubblicare e diffondere libri e riviste a carattere mariologico;
• elaborare una banca dati riguardanti Maria, a servizio di tutti e in particolare degli studiosi;
• svolgere qualunque altra attività diretta a incentivare la ricerca mariologica e integrare gli ambiti suddetti.

Pubblicazioni

Organo ufficiale dell’associazione è la rivista scientifica semestrale Theotokos. Ricerche interdisciplinari di mariologia, sorta a Roma nel 1993. Dal 1993 al 2000 la rivista, in una serie di ampie monografie interdisciplinari, ha trattato “Maria secondo le Scritture”. Dal 2001 a oggi ha continuato con studi sistematici a studiare “Maria nei Padri e scrittori ecclesiastici dei primi secoli”.

Alla rivista Theotokos è stata affiancata la collana “Biblioteca di Theotokos”, che raccoglie contributi di valore circa gli aspetti più significativi e attuali della figura di Maria, seguendo i vari approcci delle scienze teologiche e umane. Essa raccoglie in particolare gli Atti di incontri svolti in Italia e dei colloqui internazionali di mariologia. Un’ulteriore serie di studi, “Nuovi percorsi di mariologia”, in linea con, gli obiettivi dell’Ami, intende promuovere il rinnovamento della ricerca mariologica, pubblicando gli Atti dei convegni nazionali dell’Ami. Infine l’Associazione mariologica italiana sta realizzando un arduo e affascinante progetto, con l’impegnativa edizione di Monumenta italica mariana. Studi e Testi. Con essa si intende sottrarre all’oblio opere e documenti della millenaria, ricchissima e variegata tradizione mariana presente in Italia.

Come si vede, sono tante le attività e i campi d’interesse dell’Ami: dalla Bibbia alla patristica, alla teologia, alla liturgia, alla catechesi, fino all’arte e alla bellezza estetica, ambiti nei quali la figura della Vergine è presente in maniera puntuale ed esemplare. Proprio alla dimensione della bellezza, alla via pulchritudinis in mariologia, l’Ami ha dedicato gli ultimi quattro convegni annuali, cercando di illuminare e valorizzare questo sentiero poco battuto, ma indubbiamente promettente e imprescindibile. Si tratta di un’indagine, in qualche misura pionieristica, al servizio della mariologia e della riflessione teologica, in sintonia con la ricca e molteplice sensibilità contemporanea.

* presidente Ami, professore di Nuovo Testamento all’Università gregoriana, Roma, e mariologia biblica al Marianum

(da Vita Pastorale, novembre 2006)

Bibliografia

L’Ami opera fondamentalmente su un duplice versante: la ricerca scientifica, mediante un approccio serio e critico alla mariologia, e il servizio alla fede e alla pietà del popolo di Dio. Di questo duplice orientamento sono espressione i volumi indicati, utili a diversi lettori e operatori di pastorale. Marraccii HiIippolyti, Biblioteca mariana. Trascrizione del testo originale edito in Roma nel 1648, Edizioni Ami 2005, Roma, pp. 1024; Langella A. (ed.), Via pulchritudinis e mariologia, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 304; Dall’Aglio W. - Vidau E. (edd.), La Madre di Dio per una cultura di pace, Edizioni monfortane 2001, Roma, pp. 222; Colasanti G. - Borzomati P. - Vidau E. (edd.), Maria e l’impegno sociale dei cristiani, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 240; Scalisi B. - Vidau E. (edd.), Maria e la cultura del nostro tempo a trent’anni dalla Marialis cultus, Edizioni Ami 2005, Roma 2005, pp.183.

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Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (terza parte)
di Alberto Valentini


Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)




1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.

2. La preghiera in At 1,14

2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.

3. La prima comunità

3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;

4. Conclusione breve


3. La prima comunita’

Finora si è parlato della comunità, della sua spirituale coesione e costanza nella preghiera. Indubbiamente At 1,14 sottolinea l'unità dei primi credenti, ma evidenzia - più che altri sommari - l’articolazione della medesima. Il nostro testo, così breve, è il sommario più esplicito circa la composizione della comunità postpasquale. E' un punto di riferimento prezioso per la Chiesa di ogni tempo, che vi può ritrovare le coordinate fondamentali della sua unità e della sua molteplice configurazione. In questo autorevole e programmatico testo, incentrato sugli apostoli, ma aperto ad altre presenze e ai diversi doni dello Spirito, le comunità cristiane potranno sempre ricercare l'armonia e l'equilibrio tra la missione apostolica e i diversi ministeri e carismi di cui lo Spirito dota incessantemente i credenti. Vi potranno riscoprire, con sensibilità e in forme nuove, il compito della donna al servizio del vangelo e, in particolare, quello di Maria, la madre di Gesù.

Va ricordato che siamo di fronte a un testo redazionale, nel quale le intenzioni dell’autore si esprimono in maniera più diretta ed esplicita. Ogni elemento, per conseguenza, dev’essere valutato con grande attenzione. (71) A questo punto ci sembra importante considerare i diversi personaggi che compongono la comunità apostolica, la "cellula germinale" della Chiesa neotestamentaria.

3.1. Gli apostoli

Nell'opera lucana, com'è noto, il gruppo dei Dodici viene identificato con gli apostoli, (72) i quali sono ritenuti a titolo speciale, in certo senso esclusivo, testimoni di Cristo. (73) Negli Atti, essi sono i personaggi principali, garanti della continuità tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. (74)

"Essi 'non sono i primi d' una serie'; essi formano 'un gruppo a parte', svolgente una funzione fondatrice e normativa, insostituibile e non reiterabile. Sulla loro testimonianza la Chiesa è stata fondata una volta per tutte e in questa testimonianza essa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità". (75)

L'identità dei Dodici è caratterizzata da quattro note fondamentali: (76)

- Anzitutto essi sono i testimoni della risurrezione di Gesù (At 1,22): (77) questo è l'oggetto specifico del ministero degli apostoli, dato che a loro - e non a tutto il popolo - Gesù si è manifestato dopo la sua risurrezione (cf 10,40-41; 13,30-31); ad essi "si mostrò vivo, dopo la sua passione, con molte prove convincenti, apparendo (optanómenos) loro durante quaranta giorni" (At 1,3). (78)

- Per essere testimoni si richiede di aver fatto parte del gruppo apostolico per tutto il tempo del ministero di Gesù, cominciando dal suo battesimo fino al giorno in cui fu assunto in cielo (At 1,21-22). L'apostolo deve garantire la continuità tra il Gesù storico e il Signore della gloria, tra Gesù e la "chiesa" radunata nel suo nome.

- Gli apostoli sono coloro che il Signore si è scelto per mezzo dello Spirito santo (At 1,2). Si diventa tali non per una decisione personale, ma per una scelta del Signore. Ciò appare con evidenza nella chiamata dei Dodici secondo la tradizione sinottica (Mc 3,13-19; Mt 10,1-4; Lc 6,12-16), e in occasione dell'elezione di Mattia (At 1,24): in quella circostanza, la comunità prega e getta la sorte per conoscere chi sia colui che il Signore ha scelto.

- Si è costituiti apostoli per la forza dello Spirito. Questa nota non risulta dal racconto dell'elezione di Mattia, ma appare dal contesto in cui il racconto è collocato: tra la promessa dello Spirito fatta agli apostoli (At 1,4-5.8) e la sua effusione nel giorno di Pentecoste (At 2,1-4). E' lo Spirito che abilita a compiere la missione di testimonianza al Risorto.

L'oggetto specifico della testimonianza apostolica è dunque la risurrezione (At 1,22) di Gesù, e più ampiamente l'intero evento pasquale, secondo le Scritture, come viene dichiarato in conclusione al vangelo lucano e riaffermato all'inizio e nel corso degli Atti. In Lc 24,46-47 Gesù precisa i contenuti e l'ambito della missione degli apostoli: "Così sta scritto: il Cristo doveva patire e risorgere dai morti il terzo giorno, e nel suo nome doveva essere predicata a tutte le genti la conversione per il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme". (79) Nel v. 48, Gesù affida loro l'incarico ufficiale: "Voi sarete testimoni di queste cose". La missione, però inizierà soltanto dopo, quando si compirà la promessa del Padre e saranno rivestiti di potenza dall'alto (cf v. 49).

Secondo il testo evangelico, le parole di Gesù, pur avendo di mira gli apostoli, sono pronunciate davanti agli Undici e a "quelli che erano con loro" (Lc 24,33; cf 24,9). La narrazione degli Atti è più precisa: il Risorto si rivolge agli "apostoli che egli per mezzo dello Spirito santo si era scelti" (At 1,2); sono essi, in maniera esplicita e diretta, i destinatari delle istruzioni e delle apparizioni del Signore Gesù: essi devono rendergli testimonianza, e per questo riceveranno lo Spirito (cf 1,8). Nell'attesa, sono riuniti in preghiera nella stanza superiore della casa.

Ma per il momento essi sono soltanto Undici; il loro numero è incompleto e dev’essere reintegrato: è necessario che uno prenda il posto lasciato vuoto da Giuda. Collocando l'episodio dell'elezione di Mattia tra l'ascensione e la Pentecoste, Luca fa intendere di attribuire un' importanza particolare (deì oùn...) alla ricostituzione del gruppo dei Dodici, anche se in seguito il nome di Mattia non ricorre più nel libro degli Atti e i Dodici sono menzionati solo in At 6,2. Possiamo chiederci perché Luca insista sul mumero dodici, riferito agli apostoli-testimoni, e perché gli prema che il numero sia ricomposto prima della Pentecoste. Alla prima domanda si può certo rispondere che i Dodici sono in rapporto con le dodici tribù d'Israele, ma tale ovvia spiegazione esige chiarificazioni ed approfondimenti. La relazione con le dodici tribù infatti può essere intesa in diversi modi: con riferimento al popolo ebraico in prospettiva escatologica, secondo Mt 19,28 (Lc 22,30), (80) oppure soteriologica, nel senso che la salvezza è destinata inizialmente a Israele; con riferimento alla Chiesa, vedendo nei Dodici i rappresentanti del nuovo Israele. (81)

Qualunque senso si voglia dare alla ricostituzione dei Dodici, essa deve avvenire prima di Pentecoste. Ma qual è il motivo di tale necessità? La risposta può essere la seguente: quando lo Spirito sarà effuso su ogni carne, il popolo di Dio - rappresentato dai Dodici - dovrà essere al completo davanti al Signore, come un tempo, ai piedi del monte, nel giorno dell'alleanza (cf Es 24,3-4; Dt 5,22). (82) Esso riceve in tal modo lo Spirito e viene costituito testimone di Cristo davanti a tutti i popoli, rappresentati potenzialmente dai Giudei della diaspora, convenuti a Gerusalemme da ogni nazione che è sotto il cielo (At 2,5). "Per questo inizio dell'attività di testimoni - che deve aver luogo necessariamente a Gerusalemme - bisogna che il numero dodici sia completo; dopo la morte di Giacomo (At 12,2) non ci sarà più bisogno di completare il numero". (83)

Secondo la visione lucana, dunque, gli apostoli occupano una posizione unica nella Chiesa del Nuovo Testamento, in particolare nella comunità di Gerusalemme. Tale centralità emerge con evidenza in At 1,14, considerato in se stesso e alla luce del contesto. Il soggetto esplicito del nostro breve sommario sono gli Undici ("tutti costoro"), collocati all’inizio della frase, in posizione privilegiata e dominante. Gli altri personaggi si aggiungono ad essi, condividendone la situazione e l'esperienza spirituale. Nel verso precedente gli Undici sono stati elencati ad uno ad uno, per nome; (84) con loro Gesù si era intrattenuto per quaranta giorni dopo la sua risurrezione; ad essi aveva promesso la potenza dello Spirito per la missione di testimonianza; di fronte a loro era stato assunto in cielo, avvolto nella nube della gloria divina.

Nel primo sommario di At 1,14, gli apostoli - il cui compito è la testimonianza - sono presentati come uomini dalla preghiera assidua e concorde, per garantire la quale, in seguito (cf At 6,2-4), affideranno ai diaconi il servizio delle mense. Una scena, per certi versi parallela, è quella di 4,24-31, nella quale gli apostoli sono nuovamente in preghiera unanime, implorando di poter annunciare con tutta franchezza la parola di Dio. Ed anche in quel caso si ha un'effusione dello Spirito che li restituisce al loro ministero di testimonianza.

La comunità apostolica manifesta fin dall'inizio una grande unità, ma al tempo stesso una significativa molteplicità e varietà di presenze: gli apostoli sono persone di comunione che associano altri alla loro vita e al loro ministero. Della comunità primitiva fanno parte, senza distinzioni di sorta - da sempre riscontrabili nella vita e nella pietà giudaica - delle donne.

3.2. Alcune donne

La presenza di donne, introdotte senza articolo definito e pertanto in maniera piuttosto generica in At 1,14, pone dei problemi. Chi sono in realtà tali persone, qual è il loro compito, quale il significato della loro presenza nella comunità delle origini? Qualcuno, influenzato dalla loro posizione nella frase, subito dopo gli Undici, e dalla variante del codice D - che aggiunge "e i figli" - ha pensato possa trattarsi delle mogli degli Apostoli. Ma spiegazioni di questo genere appaiono fragili. (85) Il numero indeterminato di donne richiama piuttosto le discepole di Galilea - menzionate dal solo Luca in 8,2s -, le donne ricordate nella storia della passione e le prime testimoni della risurrezione (23,49.55s; 24,10.22-24). La presenza tra gli apostoli di queste persone, che avevano seguito Gesù fino alla sua Pasqua, sono un segno ulteriore di quella continuità che Luca si preoccupa di stabilire tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. La comunità primitiva segue anche in questo l'esempio del Maestro, il quale aveva riservato un posto e compiti particolari alle donne nel servizio al vangelo. Esse, insieme con gli apostoli, sono chiamate a rendere testimonianza al Signore Gesù. Lo Spirito, che fra non molto discenderà su tutti i membri della piccola comunità, radunata nella stanza al piano superiore, non farà alcuna distinzione tra uomini e donne, a differenza di quanto avveniva in rapporto alla Torah. (86) Come spiegherà Pietro, si verifica ormai ciò che era stato annunciato dal profeta Gioele: "Negli ultimi giorni, dice il Signore, / effonderò il mio Spirito su ogni carne / e profeteranno i vostri figli e le vostre figlie..." (At 2,17). L'appartenenza a Cristo, suggellata dal dono dello Spirito, fa cadere ogni discriminazione e realizza il progetto di umanità nuova formulato da Paolo: "non c'è più giudeo né greco, schiavo o libero, uomo o donna: tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). In At 1,14 l'unità si realizza nella preghiera e nella vita di comunione in attesa dello Spirito. C'è già la premessa per una condivisione più ampia, in particolare per la partecipazione delle donne, a vari titoli, al servizio del vangelo, come ripetutamente verrà segnalato nel libro degli Atti. (87)

3.3. Maria, la madre di Gesù (88)

Nel vangelo di Luca, Maria occupa un posto di rilievo, ma la sua posizione è singolare, quasi stralciata dalle altre figure femminili. Perché, ci si domanda, non viene annoverata tra di loro, eventualmente in prima fila, lei che in Luca è benedetta più di tutte le donne? Come mai, inoltre, nei racconti dell'infanzia di Luca ella è in primo piano accanto a Gesù e poi nel vangelo quasi scompare: non viene nominata con le altre donne al seguito di Gesù, non è ricordata nella passione, né tra le testimoni del Risorto? E, analogamente, perché viene presentata in questo primo importante sommario degli Atti - e in maniera singolare, come non avviene per le altre anonime donne - mentre in seguito non sarà più ricordata? Sono interrogativi che lasciano perplessi e inducono non di rado a posizioni contrastanti: ad un'esaltazione perfino eccessiva della madre di Gesù oppure, al contrario, a trascurarla adducendo come motivo la pretesa laconicità della Scrittura.

Certo, non è un caso che Luca parli di Maria nei racconti dell'infanzia e all'inizio degli Atti. I primi capitoli delle due opere di Luca, possono essere considerati rispettivamente come vangelo dell'infanzia di Cristo e della Chiesa. (89) Essi appaiono diversi dalle parti che seguono: sono testi marcatamente teologici, che anticipano agli inizi della vita di Gesù e della Chiesa - con linguaggio di fede esplicita - quanto solo al termine del vangelo e degli Atti si può dire effettivamente realizzato. Si tratta dunque di una riflessione dopo gli eventi, alla luce di Pasqua e sotto l'influsso dello Spirito. Il fatto che la figura di Maria sia in particolare evidenza in questi testi e sottaciuta altrove, significa che la riflessione su di lei è avvenuta lentamente, in maniera progressiva e non uniforme nelle diverse comunità neotestamentarie. In primo luogo, la fede apostolica e l'annuncio kerigmatico si sono concentrati sul mistero pasquale di morte e risurrezione (cf 1Cor 15,3-4); in tale fase, ovviamente, non si parla di Maria, almeno in maniera esplicita. In un secondo tempo, la riflessione si estende al periodo della vita pubblica che va, secondo la testimonianza di At 2,21-22, dal battesimo di Giovanni fino all'Ascensione; in questo periodo, Maria compare o viene nominata, ma occasionalmente (cf Mc 3,31-34; 6,3). Solo in seguito, a proposito della nascita e dell'infanzia di Gesù, la figura e il ruolo della madre sono messi in chiara luce. Questa è un'epoca più tardiva, nella quale la riflessione cristologica si è fatta più ampia e articolata, ed ha convogliato tradizioni ed esperienze ecclesiali diverse; anche la figura di Maria acquista allora densità teologica: ella è la madre del Messia, discendente davidico e Figlio dell’Altissimo (Lc 1,32); concepisce per opera dello Spirito santo (1,35), viene salutata quale madre del Signore (1,43), è benedetta per il frutto del suo grembo e proclamata beata per la sua fede (1,42.45). E' la serva esaltata dall'Onnipotente, colei che tutte le generazioni faranno oggetto di un macarismo senza fine (1,48-49).

Maria rivela una personalità non solo individuale, ma anche “corporativa”, (90) che ingloba in sé, in modo misterioso ma efficace, il popolo dell’alleanza - come già Abramo - a motivo della sua fede ed obbedienza. E’ la figlia di Sion, (91) salutata all’annunciazione con le voci dei profeti (cf Sof 3,14-15; Zc 2,14; 9,9) e che a sua volta canta la splendida salvezza di Dio (cf Lc 1,46-55). Possiamo dire che la sua immagine, senza nulla perdere della sua concretezza e individualità, è plasmata da Luca - e ancor più dalla tradizione giovannea - con categorie teologiche e simboliche.

Ella comunque si stacca dagli altri personaggi e si colloca in un ambito a sé. Questo potrebbe spiegare il fatto che Luca, in un testo conciso ed essenziale come il nostro - che introduce le donne in maniera generica e solo in conclusione ricorda i fratelli di Gesù - trovi il modo di citare Maria col proprio nome e col titolo peculiare di “madre di Gesù”. Si tratta di una presentazione così esplicita che non può essere fortuita, tanto più che si trova in un sommario, in cui ogni particolare ha il suo peso. (92) Non siamo di fronte a una semplice informazione storiografica, che sarebbe fuori luogo in quel contesto, ma ad un'annotazione che rivela indubbia valenza teologica e spirituale. L'autore intende mettere in luce la continuità tra il Gesù storico, nato per opera dello Spirito con la collaborazione di Maria e la nascita della Chiesa per opera del medesimo Spirito, con la presenza di Maria qualificata come madre di Gesù, (93) "primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29). Ella è madre di Colui che la comunità ha accolto nella fede come il Signore della gloria, di quel Gesù che elevato al cielo invia lo Spirito, e al quale bisogna rendere testimonianza fino agli estremi confini della terra.

In seguito, Maria non sarà più nominata, ma il capitolo primo degli Atti è programmatico per tutto il libro e per la vita della Chiesa. Alla luce di questo primo sommario, siamo invitati a contemplare Maria nella comunità dei credenti di ogni tempo. Ella è presente come madre di Gesù dovunque ci siano testimoni del Risorto, in qualunque luogo donne e uomini si radunino, insieme con gli apostoli, in attesa dello Spirito del Signore.

3.4. I fratelli di lui (94)

In contrasto col giudizio negativo, ma ingiustificato, espresso da Charlier nei confronti dei “fratelli” di Gesù, (95) sembra invece "che in seno a questo gruppo, proveniente dalla Galilea, si sviluppasse una forma di cristianesimo molto legato alle tradizioni giudaiche". (96) Per questo motivo Luca sarebbe interessato a mostrarne la presenza a Gerusalemme, insieme con altri discepoli, attorno agli apostoli.

Alla luce, dunque, della situazione della Chiesa di Gerusalemme e in fedeltà al suo assunto di presentare in chiave positiva ed esemplare la comunità delle origini, Luca ha inserito in At 1,14 questo tratto significativo circa i parenti di Gesù.

4. Conclusione breve

At 1,14, pur nella sua laconicità, è un testo di notevole importanza. Certamente viene arricchito e precisato dai sommari successivi, ma contiene già in sé elementi che lo qualificano e caratterizzano nettamente. Esso si segnala per la sua posizione e per i contenuti.

Grazie alla sua collocazione, At 1,14 ha il pregio di essere il primo dei sommari, inserito nella pagina introduttiva degli Atti. Se ogni sommario astrae in qualche misura dagli episodi contingenti e - interrompendo per un istante la narrazione - si sofferma su caratteristiche ed atteggiamenti qualificanti la comunità, ciò è vero in particolare per questo primo brano, che intende presentarci l'immagine della Chiesa ai suoi albori, nella sua identità originaria.

La prima pagina degli Atti, lo ribadiamo, anticipa in qualche misura il messaggio e lo svolgimento del libro; d'altra parte, riprende l'ultimo capitolo del vangelo lucano, vale a dire la sua conclusione.

E' emblematico il fatto che l'ultimo versetto del vangelo (Lc 24,53) - il quale costituisce praticamente un sommario - e il primo quadro di gruppo degli Atti (1,14) ritraggano gli apostoli in preghiera: nel primo caso, nel tempio, (100) nel secondo, radunati nella stanza superiore della casa.

A Luca preme sottolineare la preghiera, più ancora mostrare la comunità in preghiera. Questo motivo è ripreso con insistenza negli Atti, a partire dal sommario successivo (2,42.46s); è riscontrabile nell'esperienza dei vari personaggi, e viene affermato - per quanto concerne gli apostoli - in maniera solenne e inequivocabile: "Noi ci dedicheremo con assiduità alla preghiera (te proseuchè... proskarterésomen)" (At 6,4). (101)

Luca è stato colpito dalla preghiera di Gesù, dal suo dialogo costante con il Padre. Gli apostoli presentano il medesimo atteggiamento: prima di ogni altra cosa, essi sono una comunità in preghiera. Nella Pentecoste, in cui ricevono il battesimo per mezzo dello Spirito (cf At 1,5) e l'investitura ufficiale per la missione di testimonianza (cf At 1,8), essi rivivono l'esperienza del Maestro: come Gesù (baptisthéntos kaì proseuchoménou) (Lc 3,21), essi vengono battezzati, mentre sono in orazione (cf At 1,14).

Gli Undici formano dunque una comunità in preghiera, ma non sono soli, come non erano soli a Gerusalemme, dopo la risurrezione di Gesù (cf Lc 24,33). Evidentemente essi occupano una posizione di privilegio nella comunità delle origini, ma con loro ci sono altre persone che ne condividono in misura e forme diverse i doni e il ministero. Questi personaggi non sono stati nominati antecedentemente, in quel che concerneva il compito apostolico di testimoni ufficiali del Risorto, ma vengono presentati qui - con la loro particolare fisionomia - nella "chiesa" in preghiera, della quale fanno parte insieme con gli apostoli.

I sommari seguenti e lo sviluppo del libro degli Atti riveleranno altri importanti aspetti della vita dei credenti, ma in questo primo brano, concernente la comunità apostolica - cellula germinale della Chiesa del Nuovo Testamento - a Luca premeva sottolineare la preghiera, meglio, mostrare la comunità in unanime, perseverante preghiera. Si tratta, ovviamente, di una testimonianza fondamentale con la quale, in ogni tempo, la Chiesa è chiamata a confrontarsi.

(fine)


Note

(71) Gli autori rilevano giustamente la grande differenza tra l’accuratezza del testo di At 1,13-14, nel presentare gli apostoli, le donne, Maria la madre di Gesù e i fratelli di lui, e la genericità del v. 15b, che si limita ad affermare, come per inciso: “la moltitudine di coloro che erano riuniti era di circa 120 persone".

(72) Il concetto di apostolo, riservato ad essi, appare già in Lc 6,13, al momento dell'elezione: "...ne scelse dodici, che chiamò anche apostoli", precisazione assente in Mc 3,14. Questa identificazione è affermata con coerenza da Luca: cf Lc 9,1.10; 17,5; 22,14 (diverso da Mc 14,17); 24,10; At 1,2.26; 2,37.42.43; 4,33.35.36.37; 5,12.18.29.40; 6,6; 8,1.14.18; 9,27; 11,1. Quando nel gruppo non vengono inclusi, rispettivamente, Giuda o Pietro (Lc 24,9.33; At 1,26; 2,14), si parla degli "Undici".

E' vero che in At 14,4.14 vengono chiamati apostoli anche Paolo e Barnaba; in questi casi - senza parlare di distrazioni dell'autore - bisogna dire che Luca utilizza il termine "apostolo" in un'accezione più ampia. Si noti tuttavia che, secondo testo occidentale, nel v. 14, è assente la qualifica "gli apostoli", che pertanto potrebbe non essere originale.

Si deve però osservare che, in base ai sinottici, non si può sostenere che Gesù, prima di Pasqua, abbia conferito ai Dodici - in forma esclusiva - il titolo di apostoli; ciò, quindi, vale anche per Luca (cf J. Dupont, Le nom d'Apôtres a-t-il été donné aux Douze par Jésus?, Bruges-Louvain 1956, 46s).

La stessa equazione: Dodici=apostoli non è propria di Luca: si trova anche in Ap 21,14. "Essa riflette senza dubbio le idee dell'epoca successiva alla scomparsa dei Dodici e corrisponde naturalmente a una certa tendenza a idealizzarli, tendenza di cui la redazione del terzo vangelo offre più d'un esempio significativo" (J. Dupont, I ministeri della Chiesa nascente, in Id., Nuovi studi, 131-132).

(73) Solo eccezionalmente altri, diversi dai Dodici, vengono qualificati come testimoni: in At 22,15 e 26,16 è detto "testimone" Paolo e in At 22,20 Stefano. Per quanto riguarda Paolo, in particolare, bisogna dire che egli merita questo titolo, dal momento che i Dodici "hanno attuato solo l'inizio del programma che era stato assegnato alla loro attività di testimoni, mentre il resto è stato svolto da Paolo...:egli è testimone come loro, anche se non esattamente allo stesso titolo" (J. Dupont, L'apostolo come intermediario della salvezza, in Id., Nuovi studi, 116). Per Luca "il vangelo non è più anzitutto un escatologico agire di Dio in virtù della risurrezione di Gesù, ma una trasmissione che deve risalire al Gesù terreno, dalla cui completezza e validità dipende tutto. Per lui, dunque, gli apostoli possono essere testimoni della risurrezione soltanto quando sono in grado di garantire anche la trasmissione su tutto l'operato terreno di Gesù (1,21)" (J. Roloff, Apostolat/Verkündigung/Kirche. Ursprung, Inhalt und Funktion des kirchlichen Apostelamtes nach Paulus, Lukas und den Pastoralbriefen, Gütersloh 1965, 36). Il concetto di apostolo, nella visione di Luca, è caratterizzato "dal legame con la vita di Gesù, e dunque dalla sua unicità storica" (H. Conzelmann, Die Mitte der Zeit, Tübingen 51964, 201s, nota 2).

(74) "Questi testimoni sono gli intermediari obbligati tra il Cristo vivo e gli uomini destinati ad aver parte alla salvezza realizzata dalla vita, morte e risurrezione di Gesù" (Ph.-H. Menoud, Jésus et ses témoins. Remarques sur l'unité de l'oeuvre de Luc, in Id., Jésus-Crist et la Foi. Recherches néotestamentaires, Neuchâtel-Paris 1977, 106).

(75) J. Dupont, a.c., 121.

(76) Ivi, 129s.

(77) A puntuale conferma giungono le parole di Pietro - insieme con gli Undici! (2,24) - nel giorno di Pentecoste: "Dio ha risuscitato questo Gesù, e di ciò noi tutti siamo testimoni" (2,32).

(78) Essi hanno mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti (At 10,41; cf Lc 24,30s); lo hanno visto e toccato, constatando che il Risorto ha "carne ed ossa" e non è un fantasma (cf Lc 24,39).

(79) In 24,47 l'ordine della testimonianza è invertito: "...a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme"; in At 1,8 viene ristabilita la successione logica e reale, distinguendo anche le tappe della testimonianza apostolica, e cambiando la formula "tutte le genti" con "fino all'estremità della terra", espressione profetica (Is 49,6) ripetuta in At 13,47.

(80) "Quando il Figlio dell'uomo siederà sul suo trono di gloria, siederete anche voi su dodici troni per giudicare le dodici tribù d'Israele" (Mt 19,28).

(81) Cf J. Dupont, Il dodicesimo apostolo (Atti 1,15-26). A proposito d'una spiegazione recente, in Id., Nuovi saggi, 171.

(82) In Es 24,3-4 si parla di "tutto il popolo" e delle "dodici stele per le dodici tribù d'Israele".

(83) G. Schneider, o.c., 316.

(84) All'inizio degli Atti, Luca ripete l'elenco degli apostoli - già presentato nel vangelo (Lc 6,14-16), anche se con differenze nell'ordine dei nomi - non tanto perché, come afferma Haenchen (o.c., 159), il suo secondo libro sarebbe apparso separatamente, ma piuttosto per introdurre ufficialmente i garanti della tradizione su Gesù e i testimoni autorevoli della sua risurrezione.

Circa l'ordine seguito e le trasposizioni nell'elenco degli apostoli, si veda in particolare J.-P. Charlier, L'Evangile de l'enfance de l'Eglise. Commentaire de Actes 1-2, Bruxelles-Paris 1966, 77-81.

(85) Cf J. Dupont, Il dodicesimo apostolo, a.c., 171. L'aggiunta "e i figli" del codice D potrebbe riprendere un motivo presente nella tradizione biblica e giudaica antica. Secondo Dt 29,9-11 tutto il popolo sta davanti al Signore per rinnovare l'alleanza: "tutti gli israeliti, i vostri bambini, le vostre mogli..." (cf anche Dt 31,11-12); Giuseppe Flavio racconta che “gli israeliti insieme con le mogli e i figli”attendevano con gioia la Torah(Ant. Giud., III, 5.1-2). Mosè, sceso dal monte, radunò tutta l'assemblea: "il popolo con le mogli e i figli, per ascoltare il Signore che avrebbe parlato loro" (ivi, III, 5.4).

A proposito del passaggio del mare, inoltre, il targum e il midrash - rileggendo il salmo 68,25-28 applicato all'evento della liberazione - affermano che gli israeliti proruppero nel canto insieme con le donne e i bambini, anche quelli ancora in seno alle madri.

Questo sfondo potrebbe essere significativo per spiegare l’aggiunta “i figli” - dopo le donne - nel nostro testo. Nella Pentecoste, al momento di ricevere lo Spirito, come un tempo ai piedi del Sinai, tutti senza distinzione, comprese le donne con i loro figli, sarebbero chiamati a ricevere la Legge e a far parte dell'alleanza (cf A. Serra, Dimensioni mariane del mistero pasquale, Milano 1995, 88-91; cf Id., E c'era la madre di Gesù..., 444-447.

(86) Nell' Alleanza nuova, tutti conosceranno il Signore, dal più piccolo al più grande (cf Ger 31,34).

(87) Cf At 12,12; 16,1 (cf 1Tm 1,5; 3,14-17); 16,14-15; 21,9).

(88) Alla figura di Maria riserviamo un’attenzione particolare: sembra che ciò risponda alle intenzioni di Luca. Egli che aveva posto in notevole rilievo la madre di Gesù nei racconti dell'infanzia e poi l'aveva lasciata quasi in ombra nel resto del vangelo, la presenta nuovamente qui in posizione privilegiata, accanto agli apostoli, e in seguito non la nomina più. Ciò può apparire sconcertante. A noi invece sembra che la figura di Maria esca in qualche modo dal contingente per assumere una dimensione teologica e simbolica, che la colloca nel cuore del mistero della salvezza e della comunità ecclesiale, accanto agli apostoli primi testimoni della risurrezione di Gesù.

(89) Cf J.-P. Charlier, o.c., 138-14. Charlier stabilisce un parallelismo piuttosto elaborato, ma in fondo convincente tra At 1,1-2,13 e Lc 1-2. La funzione di questi "racconti dell'infanzia" nei confronti del resto del vangelo e rispettivamente degli Atti, è molto simile. Lc 1-2 rappresenta una specie di microevangelo, una miniatura dove si trovano in abbozzo le grandi linee e i temi maggiori del vangelo, ma in maniera velata e sottile. La stessa cosa si può dire per il "vangelo dell'infanzia della Chiesa". Luca vi ha enunciato, in una cinquantina di frasi, con grande varietà, le coordinate della sua ecclesiologia e le articolazioni principali della sua seconda opera (cf ivi, 139-140).

(90) Cf R. Kugelman, The Hebrew Concept of Corporate Personality and Mary, the Type of the Church, in Pont.Acad.MAr.Intern., Maria in Sacra Scriptura, Romae 1967, 179-184.

(91) Cf Lumen Gentium, 55. S. Lyonnet, ChaireKecharitoméne, (Lc 1,28), Bib 20 (1939)131-141; H. Sahlin, Jungfru Maria, Dottern Sion, in Ny Kyrklig Tidskrift 8 (1949) 102-124; N. Lemmo, Maria "figlia di Sion", a partire da Lc 1,26-29. Bilancio esegetico dal 1939 al 1982, in Marianum 45 (1983) 175-258.

(92) “Ella è reclamata, si direbbe, dal ruolo di primo piano svolto nel vangelo dell’infanzia. Nell’ora in cui nasce la Chiesa...era necessario che Maria fosse citata con il titolo per il quale dev’essere ricordata” (J.-P. Charlier, o.c., 76).

(93) Si osservino i significativi contatti tra Lc 1,35: "Lo Spirito santo verrà su di te / e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” e

At 1,8: “riceverete potenza dallo Spirito che verrà su di voi”. Tra i due testi così disposti è possibile scorgere anche un’ideale figura chiastica, che rafforza ulteriormente il parallelismo. Non è pertanto da escludere una “intenzionale rispondenza tra le due espressioni” (cf G. Schneider, o.c., 279, nota 37).

Nella presenza di "Maria, la madre di Gesù" a Pentecoste, nel momento in cui - secondo Luca - viene effuso lo Spirito e nasce la Chiesa, si potrebbe scorgere un certo parallelismo con la scena del Calvario di Gv 19,25-27.30 ove "la madre" di Gesù - nell' ora in cui egli "spirò" (v. 30) - fu proclamata madre del discepolo amato. Resta comunque vero che lo spirito "trasmesso" (parédoken) da Gesù, quando "tutto è compiuto" (v. 30) è solo preludio all'effusione dello Spirito da parte del Risorto (Gv 20,22; cf 7,39; 14,26; 16,17.8).

(94) Secondo Mc 6,3 (cf Mt 13,55), i “fratelli” di Gesù sarebbero: Giacomo, Josè, Giuda e Simone. Mc 3,31 e par. citano, insieme con la madre di Gesù, anche “i suoi fratelli”, con l’articolo, ma senza nominarli, appunto come in At 1,14.

(95) Il fatto che essi siano menzionati dopo le donne, insinuerebbe il dubbio - secondo Charlier - che Luca o la Chiesa abbia voluto emarginare, in qualche misura, i parenti del Signore (cf J.-P. Charlier, o.c., 76-77). Ma il testo non sembra autorizzare tali sospetti.

(96) C.M. Martini, Atti degli Apostoli, Roma 51979, 62, nota 14.

(97) Si pensi, in particolare, alla figura di Giacomo, "fratello del Signore" che presiede la stessa comunità (cf At 12,17; 21,18). Si tenga presente inoltre che - fatto non meno significativo - a Giacomo succede Simeone, "cugino del Signore" (cf Eusebio, Stor. Eccl.,IV, 22, 4): "La Chiesa di Gerusalemme annette dunque un'importanza decisiva ai legami del sangue; in assenza del "Signore" è al suo parente più stretto che spetta l'autorità...Ma il punto di vista di Luca è diverso. Egli mira a collegare Giacomo a Pietro. La menzione ch'egli fa del personaggio in 12,17 ha solo lo scopo di preparare il ruolo ch'egli svolgerà nel "concilio" di Gerusalemme" (cf J. Dupont, I ministeri della Chiesa nascente, a.c., 148).

(98) Per l'aspetto edificante del libro degli Atti, cf E. Haenchen, o.c., 114-120.

(99) Cf ivi, 161.

(100) "...ed erano continuamente nel tempio, lodando Dio".

(101) Alla preghiera, il testo aggiunge la diaconia della parola, ribadendo l'elemento tipico del ministero apostolico: rendere testimonianza alla risurrezione del Signore (cf At 1,22).

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Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (seconda parte)

di Alberto Valentini

Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)




1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.

2. La preghiera in At 1,14

2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.

3. La prima comunità

3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;

4. Conclusione breve



2. La preghiera in At 1,14

Il sommario di At 1,14 mette in primo piano la preghiera della comunità raccolta intorno agli apostoli. Si tratta di una preghiera sine glossa, senza le aggiunte o specificazioni, del resto preziose, che troviamo in altri testi.

Tale preghiera può includere diverse forme ed espressioni, come viene precisato, per es. nel sommario 2,42-47; ed è naturale che la comunità di At 1,14 spezzasse il pane in casa, frequentasse il tempio, celebrasse il Signore con salmi, inni e cantici spirituali (cf Col 3,16; Ef 5,19). (36)

La preghiera della comunità di At 1,14 poteva essere molto varia, ma ciò non viene detto. C’è tuttavia un elemento fondamentale di tale preghiera che non può essere messo in dubbio né trascurato: l’attesa dello Spirito. Tutto il contesto orienta in tale direzione: il sommario di 1,14 si colloca al centro del primo capitolo, a metà strada tra la promessa dello Spirito e la sua venuta; gli annunci sono espliciti: “comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere la promessa del Padre... voi sarete battezzati in Spirito santo fra non molti giorni” (1,4-5); riceverete la forza dello Spirito che verrà su di voi e sarete miei testimoni... “ (1,8). Il ritorno a Gerusalemme dal monte degli ulivi e il radunarsi in attesa, nella stanza superiore, si spiegano in base al comando del Signore e alla sua promessa.

Lo Spirito sarà donato in vista della testimonianza da rendere a Gesù (cf 1,8): la preghiera della comunità, pertanto, è anche in preparazione al futuro ministero affidato agli apostoli. Luca ama associare la preghiera al dono dello Spirito (37) e all'annuncio del vangelo, due realtà del resto inscindibili. Tale connessione è verificabile nella supplica unanime degli apostoli (4,24-31), nella preghiera per i diaconi (At 6,6), nell'orazione di Saulo (9,11) e di Pietro (10,9), nella preghiera comunitaria per Barnaba e Saulo in partenza per la missione (13,3): l'effetto della preghiera è lo Spirito che non solo permette di annunciare, (38) ma sceglie, invia (cf At 13,2.4) e orienta il cammino degli evangelizzatori (cf 16,6.7). Il legame tra Spirito e testimonianza, proclamato all'inizio degli Atti (1,8), è legge fondamentale di ogni apostolato.

At 1,14 non è un testo fra gli altri: è il primo dei sommari, inserito in un capitolo introduttivo e programmatico. La preghiera unanime ed assidua per ottenere lo Spirito non caratterizza solo gli apostoli e quanti sono radunati con loro nella stanza superiore, ma tutti i credenti, quanti sono chiamati a rendere testimonianza al Signore Gesù.

La preghiera della comunità delle origini dev'essere vista in analogia con Lc 3,21, dove si ha un significativo riferimento cristologico. Come Gesù nel battesimo, mentre era in preghiera, ricevette lo Spirito, e quindi iniziò il suo ministero (Lc 3,23), (39) così il primo nucleo della Chiesa neotestamentaria è in preghiera prima di ricevere lo Spirito che l'abiliterà alla sua missione di testimonianza. (40) A Pentecoste, soprattutto - in risposta alla preghiera dei discepoli per il Regno (cf Lc 11,2) - il Padre celeste effonde come dono il suo Spirito. (41)

2.1. Preghiera unanime

L'unione degli animi, dei cuori, è una delle note fondamentali della preghiera nella comunità primitiva. E' un elemento che emerge con particolare evidenza in At 1,14.

L'unanimità suppone ovviamente che la preghiera sia comunitaria. La nota comunitaria è il primo passo e la condizione indispensabile per una preghiera unanime. Appare utile pertanto riflettere prima sulla preghiera in comune dei credenti e poi sull'unità dei cuori di coloro che pregano insieme. (42)

Questa distinzione è suggerita dalla formulazione stessa del nostro sommario che inizia con "tutti costoro", (43) soggetto riferito agli Undici appena nominati, e aperto agli altri personaggi elencati successivamente: le donne, la madre di Gesù e i "fratelli" di lui.

La preghiera comunitaria, come si è detto, costituisce una novità degli Atti nei confronti del vangelo di Luca. Parecchi testi la mettono chiaramente in luce: "e pregando dicevano..." (1,24) ; "erano perseveranti...nelle preghiere" (2,42); "una preghiera insistente saliva dalla Chiesa verso Dio..." (12,5); "vi erano molti radunati e in preghiera" (12,12); "dopo aver digiunato e pregato e imposte loro le mani, li lasciarono partire" (13,3); "inginocchiatosi con tutti loro, pregò" (20,36); "inginocchiatici sulla spiaggia, pregammo..." 21,5).

Il segreto di questo cambiamento rispetto al vangelo - la sottolineatura della preghiera comunitaria - dipende dal fatto che i credenti ormai sperimentano di essere "chiesa": una comunità raccolta dallo Spirito e radunata, con gli apostoli, nel nome del Signore Gesù. (44)

La preghiera comunitaria, quando è autentica, è espressione e fonte di quella unione dei cuori che negli Atti viene ribadita con evidente intenzionalità.

Tale disposizione interiore, che è l'anima di ogni preghiera in comune e che la giustifica come tale, è espressa in At 1,14 dall'avverbio homothymadón,che caratterizza non solo il soggetto hoútoi pántes, ma l'intera proposizione: sono unanimi non solo gli Undici, ma tutte le persone elencate insieme con loro. Potremmo dire che attraverso quell'avverbio si realizza l'unità di coloro che vengono presentati come persone e gruppi distinti; (45) e tale unità si esprime nella preghiera. Non si tratta di una comunione passeggera ovvero occasionale: l'unanimità è perseverante, come perseverante è la preghiera che la sostiene. L'avverbio homothymadón, derivato dai LXX, (46) è un termine caratteristico degli Atti; (47) applicato alla comunità cristiana, esprime una forte connotazione religiosa. In tale “accezione forte ed intensamente religiosa” (48) ricorre non solo nel nostro testo, ma anche nei sommari successivi, i quali proiettano ulteriore luce sul senso del termine e sulla preziosa annotazione di At 1,14. In 2,46 si conferma: “ogni giorno unanimi erano assidui nel frequentare il tempio”; in 5,12: "tutti stavano unanimemente nel portico di Salomone”. Il medesimo avverbio ricorre nell’introduzione alla preghiera, in 4,24: “Essi unanimemente alzarono la voce a Dio...”. L’illustrazione più efficace di homothymadón si ha in 4,32 ove si afferma che “la moltitudine dei credenti era un cuor solo ed un’anima sola”. Homothymadón è divenuto, per così dire, un termine tecnico, addirittura un’"espressione stereotipa della comunità". (49) In tale avverbio è condensato quanto Paolo richiede a tutti i credenti: di acquisire una mentalità comune, affinché "unanimi (homothymadón),con una sola bocca" glorifichino Dio (cf Rm 15,6). La concordia dev’essere così intensa da tendere a realizzare e manifestare l’unità voluta da Cristo (cf Gv 17,22). Ciò si compie, anzitutto nella preghiera. (50)

La voce homothymadón non è stata scelta a caso: essa evoca una ricca tradizione a livello di riletture bibliche e giudaiche. La comunità del Nuovo Testamento che attende unanime il dono dello Spirito - la Legge della nuova Alleanza (cf Ger 31,31.33) - riprende e porta a compimento un’esperienza antica fondamentale: quella del popolo di Dio che ai piedi del Sinai, homothymadón (yahdâw) (Es 19,8), (51)accoglie il dono della legge e dell’alleanza. Tale esperienza, che ha segnato profondamente la storia d'Israele, rimane un punto di riferimento ideale per le generazioni successive. La tradizione giudaica ne fa oggetto di riflessioni edificanti. Secondo il midrash tale unanimità era frutto di un intervento diretto di Dio. In Egitto infatti gli israeliti erano caduti nei lacci dell'idolatria ed avevano contratto inimicizie; anche la loro partenza e le tappe del cammino nel deserto erano state segnate da divisioni e discordie. Giunti al Sinai, Dio operò un radicale rinnovamento del popolo, guarendolo da infermità e discordie: (52) il giorno dell'alleanza "erano tutti un cuor solo per accettare con gioia il Regno di Dio". (53) Luca si inserisce in questa tradizione interpretativa. Per lui la comunità di Pentecoste è il compimento definitivo di quell'assemblea del Sinai, posta alle origini della storia d'Israele, nella quale si era intravisto il disegno di Dio sul popolo dell'alleanza. La Pentecoste si presenta pertanto come nuovo Sinai e la comunità, in quel giorno radunata, come l'Israele dei tempi futuri. La Pentecoste cristiana non è tuttavia una semplice riproposizione dell'alleanza sinaitica, ma anche il suo superamento: è l'alleanza nuova, vaticinata dai profeti, (54) come proclamerà Pietro, dopo la venuta dello Spirito, citando Gioele (cf At, 2,17-21). L'unanimità è il segno evidente della salvezza operata dal Signore; è la caratteristica del popolo redento che finalmente può accogliere la Legge dello Spirito in cuori riconciliati per testimoniarla con coerenza e fedeltà.

2.2. Preghiera perseverante

L’altra nota fondamentale della preghiera della primitiva comunità, secondo At 1,14, è la perseveranza. L’assiduità, come l’unanimità, non ricorre soltanto nel nostro testo, ma anche in altri sommari: essa caratterizza la preghiera e la vita dei discepoli del Signore.

E’ noto il topos lucano della preghiera insistente e continua, (55) ma, in maniera più ampia, la perseveranza è uno dei tratti caratteristici della spiritualità lucana. Questo atteggiamento viene espresso in particolare con il verbo proskarteréo, cheetimologicamente significa "attaccarsi con forza a qualcosa", (56) e manifesta per conseguenza il senso di "essere costante, perseverante". (57) Su complessive dieci frequenze nel Nuovo Testamento, ben sei si trovano negli Atti, tre delle quali nei sommari. Solitamente il verbo ricorre in contesto liturgico, di preghiera e in genere religioso, come appare dai seguenti testi:

At 2,42: "erano perseveranti (58) nell'insegnamento degli Apostoli, nella koinonía,nello spezzare il pane e nelle preghiere".

2,46: "Ogni giorno, assidui frequentavano insieme il tempio...".

6,4 : "Noi saremo assidui alla preghiera e alla diaconia della parola".

Nella letteratura paolina il verbo ricorre solo tre volte e il sostantivo una volta sola, ma sempre - eccetto in Rm 13,6 - in contesto di preghiera:

Rm 12,12: "...pazienti nella tribolazione, costanti nella preghiera".

Col 4,2: "Perseverate nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie".

Di particolare significato e solennità è la finale della lettera agli Efesini in cui troviamo il sostantivo proskartéresis (che è un hapax biblico): "Pregando con ogni preghiera e supplica nello Spirito, in ogni tempo, e vigilando a questo scopo con ogni perseveranza (proskarterései) e supplica per tutti i santi..." (Ef 6,18).

"Dato il gusto della koiné per i composti e la tendenza ad intensificare l'espressività delle parole, si può pensare che proskarteréo non differisca affatto dal semplice karteréo...Tuttavia, il suo impiego (il più delle volte con il dativo) rivela nuove accezioni, sia che si tratti di rimanere fedele a qualcuno, di dedicarsi esclusivamente a qualche cosa, o di consacrarvisi instancabilmente". (59) Per comprendere adeguatamente i brani del Nuovo Testamento, dove si parla di perseveranza nella preghiera, è necessario aver presente tale densità semantica. Se poi si riflette che il verbo proskarteréo applicato alla preghiera non si trova mai nella lingua profana né nei LXX, bisogna concludere che siamo di fronte a una creazione ad opera degli autori del Nuovo Testamento "e la sua frequenza rivela non solo uno stato di fatto nella chiesa primitiva, ma anche un'esigenza apostolica...trattasi della traduzione apostolica del precetto del Maestro" (60) di pregare, sempre senza perdersi d'animo (cf Lc 18,1; 1Ts 5,17).

Il sostantivo proskartéresis, data la sua unicità, dev'essere inteso alla stregua del verbo, con la medesima ricchezza di senso nei confronti della preghiera neotestamentaria.

Tale costanza-assiduità è espressa ovviamente anche con altre formule: è necessario pregare pántote, vale a dire, sempre, (61) en pantì kairói, in ogni tempo, (62) adialeíptos, senza sosta, in maniera ininterrotta. (63) "E' questo un atteggiamento e un modo di pregare diverso da quello del giudaismo del tempo, tutto basato su tempi fissi e rigide formule di preghiera": (64) esso si fonda sul rapporto personalissimo e costante che Gesù aveva col Padre e che aveva trasmesso ai discepoli insegnando loro a pregare.

Questa perseveranza, frutto dell'esempio e dell'insegnamento del Maestro, è illustrata da diverse pericopi evangeliche. Rinunciando ad altri brani, ci limitiamo a due testi di carattere escatologico, nei quali Luca insiste sulla necessità di una preghiera continua e insistente.

Ci riferiamo anzitutto alla parabola del giudice iniquo e della povera vedova (18,1-8), presente solo in Luca e raccontata per mostrare la necessità (tò deín) di pregare sempre, senza perdersi d'animo (cf 18,1): questo dev'essere l'atteggiamento di coloro che aspettano "il giorno del Figlio dell'uomo", non sapendo quando egli verrà. A conferma di ciò, il v. 7 afferma che i suoi eletti "gridano giorno e notte verso di lui": si tratta di coloro che - come la povera vedova - hanno subito persecuzioni e violenze, ed invocano Dio perché, con la sua venuta, renda loro giustizia. Si noti che le tribolazioni sostenute dagli "eletti" - i quali in realtà sono stati immolati - si spiegano a causa della parola di Dio e della "testimonianza" (65) (cf Ap 6,9; Lc 21,13). Essi attendono l'intervento divino con costanza e con preghiera insistente, sapendo che la loro liberazione è vicina (cf Lc 21,28). Il v. 8, che attualmente conclude la parabola, e all'origine doveva essere un detto indipendente, (66) accenna a un motivo classico dell'apocalittica: l'apostasia che deve manifestarsi alla fine dei tempi (cf 2Ts 2,3; Mt 24,11-12. 24); essa è una "seduzione" e rappresenta la "contro-testimonianza".

Il secondo testo da noi scelto è la conclusione della cosiddetta "apocalisse sinottica" (Mc 13; Mt 24-25; Lc 21), che in Luca presenta prospettive particolari.

A differenza di Marco che sottolinea l'ignoranza di "quando" il Figlio dell'uomo verrà (13,32-37), ed esorta a "stare attenti" (13,33) e a "vegliare" (13,33.35.37), Luca inizia con l'avvertimento: "Badate bene che i vostri cuori non si appesantiscano in crapule, ubriachezze e affanni della vita..." (21,34). (67) E mentre Matteo mette in guardia da comportamenti iniqui ed irresponsabili (Mt 24,48-49), Luca chiede di vegliare pregando in ogni tempo (Lc 21,36). (68) Diversamente dagli altri due sinottici, che concludono la pericope ribadendo l'imprevedibilità del ritorno finale - e in particolare da Matteo che prospetta il severo giudizio del Figlio dell'uomo (Mt 24,51) - Luca annuncia la possibilità di sfuggire agli eventi minacciosi che devono accadere, grazie proprio alla vigilanza e alla preghiera incessante. Egli introduce la consolante prospettiva di stare in piedi, con fiduciosa sicurezza, davanti al Figlio dell'uomo; (69) atteggiamento che riprende e prolunga quello del non lontano v. 28: "Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi in piedi e levate il capo, perché si avvicina la vostra redenzione".

Non solo la prospettiva lucana di vigilanza e di preghiera è differente, specie da quella di Matteo, ma il terzo evangelista aggiunge anche una cornice conclusiva al discorso escatologico. Si tratta di una specie di sommario circa il comportamento di Gesù, immediatamente prima della sua passione: "Di giorno era ad insegnare (forma perifrastica, come nei sommari degli Atti) nel tempio; di notte, uscendo, pernottava sul monte detto degli ulivi; e dall'aurora tutto il popolo andava da lui, nel tempio, per ascoltarlo" (Lc 21,37-38). Anche qui è rilevabile l'intervento lucano nel presentare Gesù, che di giorno "dimora" nel tempio, casa del Padre suo (cf Lc 2,49) e di notte si ritira sul monte degli ulivi, ovviamente in orazione. In questo atteggiamento di prolungata veglia in preghiera (Lc 21,37), prima della passione, Gesù attua in maniera singolare l'esortazione che l'evangelista, nel v. 36 - immediatamente prima - rivolgeva a tutti: "Vegliate, pregando in ogni tempo...".

Come si vede, Luca è stato colpito anzitutto dal comportamento di Gesù in preghiera, dal suo costante dialogo col Padre. La comunità apostolica non farà che seguire l'esempio del Maestro: (70) lo testimonia fin dall'inizio il sommario di At 1,14.

(continua)


Note

(36) E' da ritenere che nella comunità apostolica ci fosse un'autentica vita liturgica: la preghiera in quanto tale è solo una componente della liturgia, la quale è ben più ampia e coinvolgente.

(37) Al dire di H. Lampe, "in tutti i casi nei quali menziona la preghiera, il libro degli Atti afferma o suggerisce un legame strettissimo tra questo atto dell'uomo, che è la preghiera, e l'atto col quale Dio comunica lo Spirito...Essendo la preghiera il mezzo per l'uomo di sottomettersi all'efficace influsso dello Spirito, sembra naturale a Luca considerare il dono dello Spirito come la risposta principale di Dio alla preghiera dell'uomo" (G.W.H. Lampe, The Holy Spirit in the Writings of St. Luke, in Studies in the Gospels: Essays in Memory of Lightfoot, Oxford 1955, 168).

(38) Ciò è messo in particolare evidenza nella Pentecoste ("Tutti furono riempiti di Spirito santo, e cominciarono a parlare..." [At 2,4]) e al termine della preghiera degli apostoli nella persecuzione ("Tutti furono riempiti di Spirito santo, e proclamavano la parola di Dio con parresia" [At 4,31]).

(39) Non solo gli inizi, ma tutta l'azione salvifica di Gesù è dipende dalla sua unzione di Spirito santo e di potenza (cf At 10,38).

(40) "Con ciò Luca inequivocabilmente ritorna con il pensiero al battesimo di Gesù...Nel tempo dell'attività terrena di Gesù, lo Spirito santo è il dono messianico che contrassegna Gesù, che rende possibile e fruttuosa l'intera sua attività, mentre dopo la sua esaltazione lo stesso dono viene fatto all'intera comunità cristiana e trasforma il tempo della Chiesa in un tempo dello Spirito (cf Lc 11,13; 12,12; Act. Da un capo all'altro)" (R. Schnackenburg, Cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium salutis, V, Brescia 21971, 379).

(41) "Secondo l'interpretazione teologica offerta da Luca, dove è lo Spirito è già presente il Regno. Infatti il Regno escatologico di Dio, di cui Gesù è il messaggero per eccellenza, si realizza per mezzo dello Spirito, la cui presenza è caratteristica di tale Regno" ( S.S. Smalley, Spirit, Kingdom and Prayer in Luke-Acts, NT 15 [1973] 13). Si noti che in Lc 11,2 alcuni manoscritti - invece di "venga il tuo Regno" - riferiscono: "venga il tuo santo Spirito su di noi e ci purifichi" (cf Nestle - Aland, Novum Testamentum Graece, Stuttgart 271993).

(42) Evidentemente la preghiera comunitaria autentica, animata dallo Spirito, è di per sé unanime, ma il fatto che alcuni testi, specie nei sommari, sottolineino con termini forti ed espliciti l'unanimità degli oranti, ci porta a questa distinzione, che non intende certo contrapporre comunitario ad unanime, ma vuole semplicemente ribadire l'intensità della comunione che quei testi esprimono.

(43) Con quel pántes, tuttavia, si va probabilmente oltre la scena singola, per esprimere un giudizio più generale sulla comunità delle origini (cf B. Prete, a.c., 70). Si sarebbe potuto dire semplicemente "costoro", senza aggiungere l'aggettivo "tutti"; ma questa amplificazione del linguaggio fa parte dello stile dell'autore, come si può constatare in particolare nei sommari, dove ricorrono numerose espressioni generalizzanti. Ne presentiamo un inventario: molti prodigi e segni (2,43); tutti i credenti...avevano tutte le cose comuni (2,44); ne facevano parte a tutti (2,45); presso tutto il popolo (2,47); la moltitudine di coloro che avevano creduto (4,32); con grande potenza...grande benevolenza verso tutti loro (4,33); ci fu un timore grande per l'intera chiesa e per tutti quelli che ascoltavano queste cose" (5,11); molti segni e prodigi...tutti stavano insieme (5,12); la moltitudine di uomini e di donne (5,14); la folla delle città intorno a Gerusalemme...ed erano tutti guariti (5,16).

(44) Si noti che in Lc 11,2ss la preghiera insegnata da Gesù ai discepoli è già comunitaria, ma essi non sono ancora chiesa. Ciò avverrà negli Atti, come appare, in maniera particolarmente efficace, in 12,5: "una preghiera incessante saliva dalla Chiesa a Dio...". Bisogna però dire, che nello stadio iniziale, la comunità - così com'è descritta in At 2,42-47 - non viene ancora chiamata chiesa: ciò avverrà a partire da At 8,1.

(45) I gruppi che compongono la comunità delle origini non solo si trovano nello stesso luogo, ma, quel che più conta, sono uniti da profonda comunione, avendo un solo spirito, frutto dello Spirito che invocano.

(46) Nella Bibbia alessandrina il termine ricorre 36x ed è usato in particolare nel libro di Giobbe (14x) e in quello di Giuditta (6x), per tradurre l’ebraico yahad, yahdâw. Esso significa “insieme”, quando si tratta di una folla, di una massa di gente (cf At 7,57); in base all’etimologia, il termine non indica soltanto un’aggregazione di persone, ma sottolinea il loro accordo, l'unanimità; in particolare esprime la comunione fraterna dei credenti raccolti in preghiera: è questo il senso particolare che il termine riveste negli Atti, un significato noto ai LXX e al giudaismo (cf Gdt 4,12; Sap 10,20; Filone, vit. Mos. 1,72.

(47) Vi ricorre 10x (includendo anche At 18,12); nel resto del NT si trova soltanto in Rm 16,6, sempre in contesto religioso. Per il nostro studio interessa ovviamente sottolineare la connotazione positiva di tale avverbio, che viene usato anche in senso negativo per esprimere il coalizzarsi degli avversari; “Mit homothymadón schildert Lukas in Apg 1,14; 2,46; 4,24; 5,12; 8,6 die vorbildliche Einigkeit der Gemeinde, dagegen in 7,57; 18,12; 19,29 die Einigkeit einer christenfeindlichen Menge” (E. Haenchen, o.c.,159, nota 4).

(48) Cf B. Prete, o.c., 71.

VIII, 521.

(50) Cf C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, II, Brescia 1994, 254ss.

Conosciamo, tuttavia, il carattere edificante dei racconti degli Atti, in particolare dei sommari, né ci sono ignoti i conflitti e le tensioni presenti nelle comunità, ma l'unione degli spiriti non si fonda sulla simpatia reciproca dei membri o su affinità culturali, bensì su “un evento esterno al gruppo che viene ad interessarlo...provocando la sua reazione globale”. Nel nostro caso è “la risposta dei credenti a ciò che Dio ha operato per mezzo di Cristo, nel mondo e nella comunità...l’unanimità è un dono di Dio per la lode del Signore” (H.W. Heidland, a.c., 522).

(51) C'è qui un ulteriore motivo per connettere At 2,1 con 1,13-14 e non con 1,15-26. L'espressione "tutti insieme nello stesso luogo" di 2,1 esprime di per sé una vicinanza locale, "ma a giudicare dal vocabolario di Luca e dal legame che la unisce a 1,13-14, essa sembra esprimere contemporaneamente l'unanimità...Essi sono insieme non soltanto perché si trovano nel luogo, ma anche per l'unione dei cuori" (J. Dupont, La prima Pentecoste cristiana, a.c., 828s).

Si noti la risposta corale di tutta l'assemblea in Es 19,8 (cf Es 24,3.7): "Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo!" (Es 19,8; cf 24,3.7). Dio stesso se ne compiace con Mosè: "Ho udito le parole che questo popolo ti ha rivolte...Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e osservare tutti i miei comandi, per essere felici loro e i loro figli per sempre!" (Dt 5,28s).

(52) Cf A. Serra, E c'era la Madre di Gesù..., Milano-Roma 1989, 292s.

(53) Mekiltà Ex19,2; cf 19,8; 20,2. Cf anche Tg Ps-Jon a Es 19,2.

(54) Cf Ger 31,31-34; Ez 36,25-28; Gl 3,1-5 (LXX).

(55) Cf Lc 6,12; 18,1; 22,44; At 12,5.

(56) Nei LXX, con significato fondamentalmente analogo, si trova in Gb 2,9; Sir 2,2; 12,15; Is 42,14; 2Mac 7,17 e in particolare in 4Mac, dove, insieme col verbo, ricorrono anche il corrispondente sostantivo, aggettivo e avverbio. Il composto proskarteréo, ben più raro nei LXX, è presente in Nm 13,20; Tb 5,8 (S); Sus 6 (TH).

Nel NT karteréo si trova solo in Eb 11,27, a proposito della fede di Mosè. Più frequente invece è proskarteréo che viene usato 10x , per lo più negli Atti. Il sostantivo proskartéresis è usato solo in Ef 6,18.

(57) Questo significato viene marcato ulteriormente quando - come in At 1,14 - il verbo è in forma perifrastica (ésan proskarteroúntes). Tale modalità, nel nostro contesto, ricorre piuttosto frequentemente: cf At 1,13: ésan kataménontes; 2,2: ésan kathémenoi; 2,5: ésan ...katoikoúntes; 2,42: ésan proskarteroúntes.

La coniugazione perifrastica con l'ausiliare essere e il participio presente - che nella lingua ellenistica viene usata in maniera molto limitata - nel NT ricorre per lo più in Luca e nella prima parte degli Atti (1-13), ma anche nel vangelo di Marco. Tale formulazione, com'è noto, intende sottolineare la durata, la continuità dell'azione. Questo senso viene ulteriormente rafforzato quando, come nel nostro caso, l'ausiliare è all'imperfetto, tempo che di per sé presenta tale caratteristica. L'espressione intende dunque attirare l'attenzione sullo stile di vita della comunità delle origini. Circa l'uso della coniugazione perifrastica in Luca, cf E. Haenchen, o.c., 155s, n. 7; Blass-Debrunner, § 353.

(58) Tale formula presenta “un’intensa colorazione religiosa, che caratterizza in forma incisiva la vita di questo gruppo” (B. Prete, a.c., 70).

(59) C. Spicq, o.c., 472.

(60) Ivi, 474s.

(61) Cf Lc 18,1; 1Ts 1,2; 2Ts 1,3.11; Rm 1,10; Ef 5,20.

(62) Cf Lc 21,36; Ef 6,18.

(63) Cf 1Ts 2,13; 5,17; Rm 1,9.

(64) W. Grundmann, proskarteréo, GLNT, V, 227. Cf anche Strack-Billerbeck, II, 237s.

(65) La testimonianza - affidata anzitutto agli apostoli - è un tema essenziale per Luca ("testimonianza" si identifica con "martirio", ovviamente non solo per l'etimologia); essa suppone la potenza dello Spirito (At 1,8; 2,4; 4,31) e una preghiera costante, specie nella prova (At 4,24-30).

(66) Le parabole infatti non finiscono con interrogativi, come in questo caso.

(67) L'appesantimento del cuore è dovuto, secondo Luca, ad eccessi nel mangiare e nel bere e agli affanni della vita: le prime due indicazioni fanno pensare alla descrizione del ricco insensato (cf Lc 12,19) e di colui che "tutti i giorni banchettava lautamente" (16,19); gli affanni della vita ricordano coloro che ascoltano la parola, ma si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita (Lc 8,14). "Non può esserci dubbio alcuno: l'appesantimento del cuore contro cui Lc 21,34 mette in guardia, è esattamente, nel suo contesto lucano, quello che minaccia direttamente i ricchi ed è automaticamente legato al possesso dei beni della vita presente. L'avvertimento di questo versetto si iscrive nella linea di una preoccupazione che si manifesta lungo tutto il terzo vangelo e che costituisce l'altra faccia della sollecitudine di cui Luca dà prova nei riguardi dei poveri" (J. Dupont, Le tre apocalissi sinottiche, Bologna 1987, 148).

(68) "Prima di tutto egli intende precisare cosa significhi per lui l'immagine di non abbandonarsi al sonno: ...Il cristiano non può dormire perché non deve mai cessare di pregare: la vigilanza cristiana è quella della preghiera" (ivi). A conferma di ciò, Dupont cita proprio Lc 18,1. Tale modo di intendere l'attesa quale "atteggiamento attivo di preghiera" caratterizzava già la pietà giudaica, come appare dalle parole di Paolo davanti al re Agrippa (cf At 26,6-7), e nel vangelo, dalla descrizione della profetessa Anna, la quale "non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (Lc 2,37), e pertanto era in grado di parlare del Bambino "a tutti coloro che aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (2,38) (cf ivi, 148s).

(69) Cf ivi, 149s.

(70) "Ed avvenne che mentre egli era in un luogo a pregare, come ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare..." (Lc 11,1): episodio che solo Luca riferisce.

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Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (prima parte)

di Alberto Valentini

Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)




1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.

2. La preghiera in At 1,14

2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.

3. La prima comunità

3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;

4. Conclusione breve


1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo

La densa e concisa annotazione di At 1,14 non può essere compresa, anche dal punto di vista sintattico, senza i vv. 12-13 che la introducono ed inquadrano. Il lettore è invitato pertanto a considerare la breve pericope di At 1,12-14. Posta al centro del capitolo primo degli Atti, essa presenta molteplici motivi di interesse e funge da raccordo tra quanto si è detto nei vv. 4-8 e l'evento di Pentecoste che sarà narrato nel capitolo secondo.

Se ogni testo dev'essere letto alla luce del contesto immediato e remoto, questa esigenza vale in particolare per At 1,12-14, che presenta un'ampia rete di relazioni e contatti.

Il v. 12: "Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli ulivi..." collega il testo non solo con la scena dell'ascensione (9-11) appena descritta, ma anche con il v. 4, nel quale il Risorto comanda agli apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme. (1)

La formula perifrastica hoù ésan kataménontes del v. 13 richiama il verbo della medesima radice (periménein)del v. 4, che rivela anche il senso di quell'attesa, finalizzata alla "epangelía" del Padre, esplicitata nel v. 5 come "battesimo per mezzo dello Spirito". (2)

I legami non si limitano a quanto precede, ma si estendono anche ai brani seguenti: la necessaria ricostituzione del gruppo dei Dodici (vv. 15-26), (3) dopo l'elenco degli Undici fatto nel v. 13, e soprattutto la venuta dello Spirito nel capitolo secondo. Il v. 2,1: "Al compiersi del giorno di Pentecoste erano tutti insieme nello stesso luogo" richiama certamente l'annuncio "fra non molti giorni" del v. 1,5, ma suppone il ritorno degli Undici a Gerusalemme, la salita alla stanza superiore e la preghiera unanime e assidua della comunità (vv. 12-14). I legami della nostra pericope con i vv. 2,1-4 appaiono piuttosto evidenti. Esiste anzitutto il rapporto di fondo: attesa-compimento, ma anche una chiara continuità tra le due scene che presentano gli stessi personaggi, nello stesso luogo, con il medesimo atteggiamento. (4)

I vv. 1,12-14 costituiscono in qualche modo un crocevia nell'articolazione del capitolo primo degli Atti e in rapporto all'evento di Pentecoste. Essi si giustificano a partire da un comando e da una promessa: comando di restare a Gerusalemme (v. 4) e promessa dello Spirito (v. 8), in vista della testimonianza da rendere al Signore Gesù. La nostra pericope è inscindibilmente legata a quanto precede e direttamente finalizzata al dono dello Spirito santo.

I collegamenti, tuttavia, vanno oltre il contesto immediato, proiettandosi in un ambito ben più vasto. Com'è noto, il capitolo primo degli Atti si presenta quale introduzione, che opera il raccordo tra il "tempo di Gesù" e il "tempo della Chiesa". Esso garantisce la continuità tra il primo e il secondo libro di Luca - come lo stesso autore afferma (vv. 1-2) (5) - ma al tempo stesso anticipa il programma di tutto il racconto degli Atti (v. 8). (6)

Se in chiave prospettica, il capitolo primo introduce il contenuto ed anticipa lo sviluppo degli Atti, retrospettivamente ripropone la conclusione del primo libro di Luca. (7) La parte finale del vangelo e quella iniziale degli Atti si presentano come pannelli di un dittico: si spiegano e si illuminano a vicenda. (8) Si confrontino Lc 24,44-53 e At 1,3-14: in tutt'e due le sezioni si possono distinguere tre elementi paralleli:

- una "catechesi" del Risorto (9) agli apostoli (10) (Lc 24,44.46-47; (11) At 1,3-8), seguita da un incarico di testimonianza (Lc 24,48; At 1,8) e dall'annuncio dell'invio della "promessa del Padre"- la "forza dall'alto" (Lc 24,49; At 4,4.5.8), in attesa della quale devono restare in città (Lc 24,49; At 1,4);

- il racconto dell'ascensione (Lc 24,50-52a; At 1,9-11).

- il ritorno a Gerusalemme e la vita della comunità (Lc 24,52b-53; At 1,12-14). (12)

La seconda parte del capitolo primo degli Atti (vv. 15-26), anche se legata alla prima, appare molto diversa: (13) mentre At 1,3-14 ripete, con delle variazioni, quanto è stato detto alla fine del vangelo, la seconda parte (vv. 15-26) ha come oggetto la definizione del ministero apostolico (1,21-22), che giunge al termine del discorso di Pietro ai fratelli, e prepara l'aggregazione di Mattia al collegio degli apostoli.

Nei vv. 12-14 troviamo un gruppo ristretto di persone insieme con gli Undici, nella scena successiva, invece, si parla di circa 120 persone, una comunità ben più vasta, interpellata per la scelta del dodicesimo apostolo. Ciò fa pensare che il gruppo descritto in 12-14 sia il nucleo originario e fondamentale della primitiva comunità, al quale si sono aggiunti poi altri discepoli. Esso si trova in una posizione particolare nella chiesa delle origini. Di questo primo nucleo ecclesiale si occupa la breve, ma preziosa annotazione del v. 14, oggetto della nostra riflessione.

1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16

In base allo stile e alla terminologia impiegata, At 1,14 appare un brano redazionale. Nonostante la sua marcata brevità, esso va annoverato tra quei testi ricorrenti negli Atti - specie nella prima parte - chiamati convenzionalmente "sommari". (14) Collocato al centro della pagina iniziale degli Atti, può essere considerato come il primo breve sommario: "un bilancio teologico e spirituale", dopo la presentazione degli avvenimenti successivi alla risurrezione di Gesù e in attesa del dono dello Spirito; (15) "un sommario sulla vita di preghiera della comunità e sulla sua costituzione". (16)

Secondo P. Benoit, i sommari sono "quadri d'insieme che dipingono in maniera generale dei tratti o atteggiamenti della comunità, di cui i racconti adiacenti forniscono illustrazioni particolari...sono veri quadri ricapitolativi circa la vita della prima comunità". (17) Essi costituiscono un campo privilegiato di ricerca delle intenzioni e della teologia dell'autore. E' necessario pertanto metterne in rilievo ogni dettaglio, alla luce del contesto e nel confronto con i sommari paralleli. Nell'ambito del presente studio, ci limiteremo ad accennare ad alcuni rapporti che intercorrono tra il nostro testo e i sommari successivi, caratterizzanti la vita della comunità gerosolimitana delle origini. E' nota la parentela esistente tra questi brani, che presentano fenomeni letterari e teologici quasi identici, espressi con formule simili e complementari. (18)

All'interno di questa consonanza di fondo, i singoli testi contengono delle peculiarità, che è importante mettere in luce per poterli adeguatamente qualificare. (19)

Il testo di At 1,14 presenta con ogni evidenza due caratteristiche che lo segnalano nettamente: anzitutto la preghiera (20) unanime e perseverante, e poi l'indicazione dei membri che compongono la comunità primitiva. (21)

La prima nota, la preghiera, si trova - in forma più articolata e insieme con altri fondamentali elementi - nel sommario seguente (2, 42-47), (22) mentre non viene esplicitata ugualmente nei sommari successivi, i quali mettono in evidenza altri aspetti della comunità. Possiamo affermare che, partendo dal primo sommario e procedendo verso gli altri - nei primi cinque capitoli degli Atti - si assiste a un movimento che va dalla vita interna della comunità primitiva alle manifestazioni più esterne e visibili di essa. (23) “L’interesse del primo sommario è interamente rivolto alla vita religiosa ed interna dei primi credenti nella comunità ecclesiale”. (24) At 2,42-47, pur sottolineando la dimensione religiosa, (25) inserisce altre note, quali l’attività taumaturgica degli apostoli, la comunione dei credenti, la condivisione dei beni, la stima da parte del popolo e l’adesione quotidiana di nuovi membri alla fede.

Il brano di 4,32-35 segnala elementi simili: la comunione dei cuori e dei beni, la forte testimonianza resa dagli apostoli al Risorto, la stima di cui tutti sono circondati.

L’ultimo dei sommari presi in considerazione (5,12-16) si colloca sulla stessa linea, mettendo in luce i prodigi operati dagli apostoli, lo stare insieme, l'approvazione del popolo, l'aumento costante dei credenti, le numerose guarigioni.

In tutti questi brani è evidente una nota caratteristica - la comunione degli animi - anche se espressa in modi diversi: con l’avverbio homothymadón (1,14; 2,46; 5,12); con la formula un cuore ed un’anima sola (4,32); con l’espressione epì tò autó, che solitamente significa “insieme”, “ma che sembra avere un senso molto forte in 2,44 e 2,47”. (26) E, fatto degno di nota, tale unità di spirito è connessa, anche se non sempre esplicitamente, con la preghiera. Per quanto concerne l’avverbio homothymadón il legame è diretto, non solo nei tre testi citati, ma anche in 4,24, nell’introduzione alla preghiera degli apostoli: “Essi unanimemente alzarono la voce a Dio e dissero...”.

La preghiera sta alla base della comunione: questa infatti è frutto dello Spirito, il dono che il Padre celeste concede a quelli che lo pregano (cf Lc 11,13).

La seconda nota - la presentazione dei membri della comunità apostolica - è una peculiarità del nostro testo, che, per quanto breve, appare singolarmente articolato. Gli altri sommari parlano in maniera generale della moltitudine dei credenti, della vita interna della comunità e dei rapporti con l'esterno; si soffermano in particolare sugli apostoli, i quali hanno la presidenza della comunità, esercitano il ministero della parola (2,42), operano guarigioni e prodigi (2,43; 5,12), rendono testimonianza al Signore Gesù (4,33)...; ma quei brani non informano circa le diverse categorie di persone che compongono la comunità delle origini. At 1,14, invece, accanto agli apostoli, pone delle donne, Maria la madre di Gesù e i suoi "fratelli". Questi personaggi, non saranno più menzionati nel corso degli Atti, ma ormai sappiamo che fanno parte della comunità apostolica. Essi sono stati inseriti nel primo sommario con un duplice intento: mostrare la continuità degli Atti con la narrazione evangelica, e ricordare al lettore che essi hanno un ruolo non secondario nella comunità dei discepoli del Signore.

Dopo il breve confronto con i sommari, s'impone una riflessione sulla preghiera in Luca e in At 1,14; e, in un secondo momento, sulla comunità apostolica e i personaggi che la compongono.

1.3. La preghiera in Luca

all'ora dell'incenso" (Lc 1,10), (28) e si conclude con le scene della presentazione e del ritrovamento, inquadrate nel contesto di riti e celebrazioni liturgiche.

Insieme col culto ufficiale, viene sottolineata la pietà dei diversi personaggi, per alcuni tratti simile a quella che troviamo nelle prime pagine degli Atti. A Zaccaria viene rivelato che la sua preghiera è stata esaudita (1,13); Simeone è presentato come "giusto e pio...e lo Spirito santo era su di lui" (2,25); Anna "non si allontanava dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (2,37); Maria, la madre di Gesù, per due volte (2,19.51b) viene presentata in atteggiamento sapienziale: intenta a conservare e confrontare nel suo cuore (29) tutte le parole e gli eventi concernenti il Figlio.

La preghiera nei racconti dell'infanzia si esprime in maniera privilegiata nel canto, fatto di lode, ringraziamento, benedizione, esaltazione di Dio e della salvezza manifestata in Cristo. Ricordiamo il cantico di Maria (1,46-55), di Zaccaria (1,68-79), degli angeli (2,14) e di Simeone (2,29-32); le lodi dei pastori (2,20), di Elisabetta (1,42-45) e di Anna (2,38). In Lc 1-2 si respira effettivamente un clima che richiama quello delle comunità degli Atti, imbevuto di profonda spiritualità e di lode divina. (30)

Il vangelo lucano, che si apre nel tempio con i racconti dell'infanzia, si conclude nel medesimo luogo, in contesto liturgico, con la lode di Dio (cf Lc 24,53). La preghiera, posta all'inizio e alla fine, forma come una grande inclusione e sottende tutto l'arco del terzo vangelo. All'interno di esso, Luca ama evidenziare la preghiera di Gesù: (31) lo fa con maggior insistenza e con sottolineature proprie nei confronti degli altri sinottici. A differenza di Marco e Matteo, che rispettivamente presentano tre volte Gesù in orazione, (32) Luca segnala il fatto ben otto volte e in contesti particolari, nei quali l'atteggiamento del Maestro emerge con maggiore rilievo. Cinque menzioni di Luca non hanno dunque paralleli in ambito sinottico: (33) Gesù è in preghiera nel battesimo (3,21); in occasione dell’elezione dei Dodici, passa tutta la notte in orazione (6,12); nella trasfigurazione, sale sulla montagna per pregare (9,28.29); dopo averlo visto pregare, uno dei discepoli gli chiede di insegnare loro a fare altrettanto (11, 1); (34) nell’ultima cena, solo Luca riferisce le parole di Gesù rivolte a Pietro che stava per rinnegarlo: “Ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno” (22,32).

In questi casi è evidente l'apporto redazionale di Luca; ma anche nei passi in cui segue la tradizione sinottica, egli presenta sfumature e rilievi, che emergono dal semplice confronto con i testi paralleli.

Gli Atti degli Apostoli non si limitano a mettere la preghiera in primo piano nelle sintesi stilizzate ed edificanti dei sommari, ma la mostrano nell’esperienza quotidiana delle comunità e dei singoli. Si prega in occasione dell’elezione di Mattia (1,24); quando gli apostoli, dopo l’interrogatorio da parte del Sinedrio, vengono rimessi in libertà (4,24-30); prima dell’imposizione delle mani ai sette (6,6); mentre Pietro è in prigione (12,5); e in diversi altri momenti. Utilizzando una formula di Gl 2,5, i cristiani si qualificano come “coloro che invocano il nome del Signore” (cf At 9,14.21), con riferimento al Cristo glorioso.

Da tutto ciò si può comprendere come l’invito di Gesù a pregare sempre, in ogni tempo, sia stato attuato fedelmente nella comunità primitiva. Edotta dallo Spirito e radunata intorno al Signore risorto, la Chiesa si presenta anzitutto come comunità di preghiera.

La preghiera, negli Atti - come del resto nelle lettere paoline - è caratterizzata da due note fondamentali: la perseveranza, elemento già sottolineato dal terzo vangelo, e la comunione, (35) aspetto che Luca - a differenza di Matteo (cf 5,23s; 18,19s) - non evidenzia nel vangelo. Su queste due note ci soffermeremo in seguito.


(continua)

Note

(1) Il cammino di un sabato (v. 12), che è di circa 2000 cubiti (880 metri), non costituisce un cambiamento di luogo: non è un allontanarsi da Gerusalemme.

(2) Questo è anche il senso della parallela locuzione perifrastica del v. 14: ésan proskarteroúntes...

(3) Si noti il deì oùn...del v. 21: è una scelta che si impone perché già operata dal Signore ( cf v. 24).

(4) Colpiscono le espressioni parallele:

1,14: "tutti costoro erano perseveranti homothymadòn.../ 2,1: "erano tutti homoú nello stesso luogo";

1,13: la stanza superiore hoù ésan kataménontes / 2,2: la casa hoù ésan kathémenoi.

At 2,1 sembra dunque in rapporto con 1,13-14 piuttosto che con 1,15. In At 2,1.2b Luca ripete, variando parzialmente i termini, la notizia di 1,13-14, che pare sia stata redatta per servire d'introduzione alla storia della Pentecoste. "In realtà, la lista di 1,13-14 costituiva la normale introduzione al racconto della Pentecoste; Luca l'ha separata, volendo riferire le circostanze dell'elezione del dodicesimo apostolo; ma questo episodio rappresenta soltanto una parentesi e, in esso, la notazione delle 120 persone è, a sua volta, un'ulteriore parentesi" (J. Dupont, La prima Pentecoste cristiana (Atti 2,1-11), in Id., Studi sugli Atti degli apostoli, Roma 1973, 828).

(5) At 1,1-2 richiama in maniera estremamente concisa ed efficace tutto il contenuto del vangelo, dall'inizio dell'attività di Gesù fino alla sua ascensione.

(6) Il capitolo primo, con il suo prologo, rappresenta l'introduzione a una storia, quella degli Atti, che inizia con l'evento della Pentecoste e con il grande discorso inaugurale di Pietro.

(7) At 1,3-11 ricorda quel che Gesù fece e disse dalla risurrezione all'ascensione, riproponendo il contenuto delle ultime pericopi di Lc 24.

(8) "Dividendo la sua opera in due libri, Luca sa che deve accuratamente evitare di fare di questa divisione un'interruzione del racconto. Il procedimento raccomandato in questo caso è quello del cosiddetto 'intreccio delle estremità': la finale del primo libro anticipa gli eventi del secondo, e l'inizio del secondo ritorna su ciò che era già stato riferito nel primo" (J. Dupont, La missione di Paolo secondo Atti 26,16-23 e la missione degli apostoli secondo Luca 24,44-49 e Atti 1,8, in Id., Nuovi studi sugli Atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo 1985, 406).

(9) La catechesi riguarda il passato e il futuro. In Lc 24,44 Gesù riprende, attualizzandole, le parole rivolte loro prima del suo "esodo", secondo le quali è necessario (deí) che si compiano tutte le cose scritte di Lui nella legge, nei profeti e nei salmi. Apre quindi la loro mente alla comprensione delle Scritture: si noti il parallelismo con l'episodio dei discepoli di Emmaus (vv. 25-27) ai quali apre non la mente, ma le Scritture (v. 32). Nel v. 46 viene riproposto in maniera esplicita il messaggio degli annunci della passione (Lc 9,22; 18,31-33), che adesso è divenuto Kerygma pasquale (cf 1Cor 15,3-4), ma con un'aggiunta significativa nel v. 47: che nel suo nome sia proclamata a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati (cf Mc 13,10; At 26,23). Questi tre elementi: la passione, la risurrezione e la missione di proclamare la salvezza alle genti fanno parte degli annunci profetici concernenti il Messia (cf Is 49,6 ripreso in Lc 2,31s; At 13,47; 26,23; 28,28).

(10) Secondo il vangelo, l'istruzione si svolge alla presenza degli "Undici e quelli che erano con loro" (Lc 24,33; cf 24,9). In At 1,2 si parla in maniera chiara degli "apostoli che egli si era scelti per mezzo dello Spirito santo".

(11) In realtà, Lc 24,44-49 - come osserva giustamente Dupont - "non si presenta come un unico discorso, ma come due discorsi", introdotti rispettivamente dalla formula "E disse loro", e separati dalla notizia narrativa del v. 45 (cf J. Dupont, a.c., 406).

(12) Il ritorno a Gerusalemme è presentato con la medesima formula: hypéstrepsan eis Ierousalém. Lc 24,52 sottolinea la nota di gioia: metà charàs megàles, che forma inclusione con la grande gioia diLc 2,10, annunciata alla nascita di Gesù. Atti 1,12 non mette in rilievo la gioia; essa però si trova, in At 2,46s, ove abbiamo anche una sintesi della vita liturgica della comunità primitiva.

(13) Cf G. Schneider, Gli Atti degli Apostoli, I, Brescia 1985, 272, nota 2. I vv. 1,15-26 costituiscono un "intermezzo": l'evento di Pentecoste si aggancia ai vv. 1,12-14.

(14) I principali e più noti sono At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16, con i quali il nostro testo presenta evidenti contatti.

C. Ghidelli distingue tra sommari (quelli appena indicati), "notizie redazionali", in cui colloca il nostro brano, e "ritornelli", comprendenti brevi testi che intercalano la narrazione e "lasciano intravedere una strutturale unità di tutto il libro degli Atti" (C. Ghidelli, I tratti riassuntivi degli Atti degli Apostoli, in Il Messaggio della salvezza, V, Torino-Leumann 1968, 140).

(15) Cf R. Fabris, La presenza della Vergine al Cenacolo (At 1,14), in Marianum 50 (1988), 404s.

(16) G. Schneider, o.c., 273. Altrove Schneider annovera At 1,14 tra "le notizie minori in forma di sommario", come At 6,7; 9,31; 12,24; 16,5; 19,20; 28,30s (cf ivi, 147, nota 10).

(17) P. Benoit, Remarques sur les "Sommaires" des Actes II, IV et V, in Exégèse et Théologie, II, Paris 1961, 181.

(18) Non entriamo qui nella problematica circa la formazione e la redazione definitiva di questi brani, che rivelano molteplici contatti, secondo alcuni rimaneggiamenti e concordismi anche maldestri. Per tali questioni rimandiamo in particolare a P. Benoit, a.c, 181-192; H. Zimmermann, Die Sammelberichte der Apostelgeschichte, BZ 5 (1961), 71-82; H.J. Degenhardt, Lukas, Evangelist der Armen, Stuttgart 1965;
E. Haenchen, Die Apostelgeschichte, Göttingen 71977, 194-197; 228-231; 238-241; E. Rasco, Actus Apostolorum. Introductio et exempla exegetica, PUG, Romae 1968, 271-330.
Alle ricostruzioni parzialmente discutibili di Benoit, Zimmermann, Degenhardt e di altri studiosi, fa da contrasto la posizione di Haenchen, il quale attribuisce tutto all'attività redazionale di Luca. Su questa linea si colloca anche Schneider (o.c., 147s. 396. 527). Più prudente e possibilista appare Rasco, il quale rinuncia alla identificazione precisa dei materiali tradizionali e redazionali.

(19) Queste composizioni costituiscono "un prezioso e ricco polittico - di cui ogni singolo sommario rappresenta un pannello di particolare interesse - con il quale Luca ha delineato i vari aspetti della vita e della religiosità della chiesa primitiva” (B. Prete, Il sommario di Atti 1,13-14 e suo apporto per la conoscenza della Chiesa delle origini, SacDoct 18[1973]90).

(20) “La prière est la première action de l’Eglise au lendemain de l’Ascension (Actes 1,14). Elle précède tout autre souci” (Ph.-H. Menoud, La vie de l’Eglise naissante, Neuchâtel 21969, 88).

(21) L'elenco dei membri della comunità radunata intorno agli Undici si trova solo nel nostro sommario: negli altri tre si parla di: "tutti i credenti" (2,44), "moltitudine dei credenti" (4,32), "tutti" (5,12).

(22) E' da sottolineare l'importanza del v. 42, sia in se stesso sia in rapporto ad At 1,14. Collocato in posizione privilegiata - subito dopo il grande discorso di Pietro e l'adesione alla fede di quasi tremila persone - il v. 42 presenta una sintesi fondamentale della vita della comunità primitiva; sintesi che viene commentata nei vv. seguenti (43-47), e che costituisce un punto di riferimento decisivo per la Chiesa di ogni tempo.
Il v. 42 si trova, per così dire, in parallelismo con 1,14: questo è inserito prima dell'evento di Pentecoste, quello in conclusione; tutti e due iniziano con la formula perifrastica ésan proskarteroúntes; ambedue si concentrano sulla vita interna della comunità. Mentre però At 1,14 si limita a sottolineare la preghiera in preparazione al dono dello Spirito, At 2,42 presenta un quadro più completo della comunità radunata in conseguenza della della Pentecoste. Secondo At 2,42 la comunità - posta sotto il segno della "perseveranza" (cf anche l' "ogni giorno" del v. 46) - è caratterizzata da quattro note fondamentali, raggruppate a due a due: l'insegnamento degli apostoli e la koinonia, la frazione del pane e le preghiere. In base a questi tratti, i primi credenti si rivelano, in maniera privilegiata, quale comunità di preghiera, anzi comunità liturgica, e non solo per le ultime due note. La liturgia non si limita infatti alle preghiere e neppure alla celebrazione propriamente detta, ma inizia con la proclamazione della Parola (la didachè degli apostoli) e - in conseguenza della celebrazione del "mistero" - si conclude con l'impegno di vita dei credenti animato dalla carità (la koinonia).

(23) Fermo restando quanto si è detto - nella nota 22 - circa At 2,42.

(24) Cf B. Prete, a.c., 91.

(25) Anzi, vi ritorna ripetutamente (2,42.46.47), distinguendo le varie esperienze di preghiera e di liturgia sia in casa che al tempio.

(26) J. Dupont, L’unione tra i primi cristiani, in Id., Nuovi studi..., 284; cf 287ss.

(27) Qui e nella comunità di Gerusalemme, più che altrove, "l'esprit de la prière chrétienne est d'abord celui de la prière des pieux israélites qui maintiennent vivante en leur coeur la grande tradition biblique" (J. Dupont, Le discours de Milet, Paris 1962, 349).

(28) Si noti il caratteristico linguaggio, che ritroviamo nei sommari degli Atti: la locuzione ridondante "tutta la moltitudine del popolo" (cf At 2,44.47; 4,32; 5,12.14), e la forma perifrastica en... proseuchómenon (cf At 1,13.14; 2,42.46).

(29) Un atteggiamento simile si può ravvisare in Lc 1,66, riferito a tutti coloro che udivano le cose straordinarie legate alla nascita di Giovanni.

(30) E' significativo in tal senso, per es., il verbo ainéo che ricorre in Lc 2,13.20, a proposito della schiera celeste e dei pastori, e in At 2,47, con riferimento alla comunità che celebra le lodi di Dio.

(31) Negli Atti, l'autore insisterà sulla preghiera degli apostoli e dei credenti, i quali continuano quanto ha fatto e insegnato il Maestro.

(32) In Marco: dopo la giornata di Cafarnao (1,35); dopo la prima moltiplicazione dei pani (6,46); nel giardino degli ulivi (14,32-39). In Matteo: dopo la prima moltiplicazione dei pani (14,23); prima dell' arresto (26,36-44); in un testo peculiare del primo evangelista, secondo il quale i fanciulli vengono presentati a Gesù, non perché egli li tocchi ( Mc 10,13; Lc 18,15), ma perché imponga loro le mani e preghi per essi" (Mt 19,13).

(33) Nel quarto vangelo non si danno testi paralleli.

(34) Si noti il contesto totalmente diverso nel quale Matteo inserisce il Padre nostro (Mt 6,9-13).

(35) "Il s'agit alors de souligner l'application à la prière des Apôtres (6,4), des chrétiens (2,42-46), ainsi que l'unité réalisée par cette communauté en prière: qu'elle soit réunie dans le Temple, dans la "chambre haute", ou dans quelque maison privée" (L. Monloubou, La prière selon saint Luc [Lectio Divina 89], Paris 1976, 38).

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Sabato, 03 Giugno 2006 21:25

L'Immacolata Concezione (Giordano Frosini)

L'Immacolata Concezione
di Giordano Frosini

Il 150° anniversario della definizione del dogma è un'occasione propizia per riprendere il discorso su Maria. Sulla sua importanza nella vita del cristiano e della Chiesa si nota un certo silenzio. E tempo di parlarne nei termini che ci ha consegnato il concilio Vaticano Il.

Il cammino del dogma dell'immaco­lata concezione di Maria è lungo e anche alquanto accidentato. La defi­nizione del 1854 non è certo giunta impreparata, ma ha dovuto percorre­re un tragitto tutt'altro che agevole ed è ancora segno di contraddizione con le altre comunità cristiane, in partico­lare con il protestantesimo, che nella fede in Maria vede quasi il riassunto di tutte le storture bibliche e teologi­che della Chiesa. Quanto è successo si presta a considerazioni di ordine spe­culativo che rimettiamo a più tardi, dopo aver dato uno sguardo somma­rio alla storia che ha preceduto l'in­tervento infallibile del papa Pio IX. Ri­cordiamo anzitutto che immacolata concezione non è da confondersi, co­me spesso ancora succede, con il par­to verginale di Gesù da parte di Ma­ria: si tratta di un avvenimento prece­dente, che riguarda esattamente la con­cezione di Maria nel grembo della sua madre Anna. Concezione immacolata significa propriamente. che Maria, a differenza di tutti gli altri uomini, è sta­ta concepita, e quindi è nata, senza pec­cato originale.

Questo 150° anniversario della de­finizione del dogma è un'occasione quanto mai propizia per riprendere il discorso su Maria, sulla cui figura e la sua importanza nella vita del cristiano e della Chiesa si nota un certo silen­zio, dopo gli eccessi ,e le esagerazioni del nostro passato. E il tempo di ri­parlare della Madre di Gesù nei ter­mini che ci ha consegnato il concilio Vaticano Il.

UNA LUNGA STORIA DI SECOLI

La storia del dogma comincia ad­dirittura con un libro apocrifo, il Pro­tovangelo di Giacomo, databile nel se­condo secolo, il quale racconta che Ma­ria è stata concepita senza l'interven­to del padre terreno Gioacchino. La concezione che Maria sia la "Tutta­santa" (Panaghìa per gli orientali) è già presente nei primi secoli e ha una par­ticolare diffusione nel popolo cristia­no. Sant'Agostino, che pure è contra­rio alla verità della immacolata con­cezione, riconosce il substrato popola­re di questa devozione. Nel secolo set­timo si registra la festa liturgica rela­tiva in oriente e, dal secolo dodicesi­mo, in occidente.

Nel secolo successivo Eadmero, di­scepolo di sant' Anselmo scrive un Trat­tato sulla concezione della beata Maria vergine, dove contrappone la devozio­ne dei semplici e degli umili alla sa­pienza dei dotti e degli addetti ai la­vori. Lui si dichiara a favore dei primi. E su questa stessa linea che nel 1435, durante il concilio di Basilea, Giovan­ni di Romiroy chiede che si ponga li­mite alla discussione venendo incontro alla sensibilità del popolo cristiano, che si scandalizza quando sente dire che Maria è nata col peccato originale.

Melchior Cano ripete le stesse con­vinzioni nel secolo sedicesimo. Quan­do il popolo ode parlare del peccato originale presente anche in Maria, si sente "turbato, percosso, torturato". Pensieri espressi sempre più diffusa­mente da altri qualificati testimoni della fede della Chiesa, specialmen­te nell'ambito della Spagna. Nel se­colo diciassettesimo sorge un movi­mento promozionale che parte dalle università, comprendente addirittura un giuramento, per difendere la ve­rità dell'immacolata concezione fino all'effusione del sangue. Questo vo­tum sanguinis si diffuse fra gli ordi­ni religiosi, le confraternite e i fede­li. All'opposizione di Ludovico An­tonio Muratori fa da contrappeso il pensiero di sant' Alfonso de Liguori, che si appella al consenso dei fedeli e alla celebrazione universale della festa liturgica .

Un movimento che si prosegue e si intensifica col passare del tempo, fino a che "Pio IX chiede ai vescovi di appurare nelle loro diocesi «i senti­menti del clero e del popolo». Le ri­sposte positive suggerirono allo stes­so papa di affermare nella bolla lnef­fabilis Deus, con la quale l'otto di­cembre 1854 definiva il dogma, che egli con tale gesto intendeva «soddi­sfare ai piissimi desideri del mondo cattolico». .

L'opinione contraria dei dotti con­tiene il fior fiore del pensiero teolo­gico medioevale composto da Ansel­mo d'Aosta, Bernardo di Chiara val­le, Alessandro di Hales, Alberto Ma­gno, Tommaso d'Aquino, Bonaventu­ra. La ragione dell'opposizione na­scevadalla volontà di difendere la generale trasmissione del peccato ori­ginale in tutti i nati di donna e la uni­versale redenzione operata dal Figlio di Dio fattosi uomo. Fra i favorevoli rifulge la presenza di Duns Scoto con il suo argomento potuit, decuit, fecit e con l'affermazione che Maria era stata preservata dal peccato origina­le per merito della redenzione ope­rata dal Figlio.

Di tutto questo tiene conto papa Pio IX nella sua definizione, dove af­ferma: «La beata Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale». Si noteranno due cose: Maria è sta­ta concepita senza il peccato origi­nale, però anch'essa è stata graziata e salvata dalla redenzione operata dal Figlio.

Siamo al di fuori della rivelazione vera e propria, ma non possiamo di­menticare che quattro anni dopo la de­finizione del dogma, il 25 marzo del 1858, la Madonna stessa sembrò con­fermare l'intervento pontificio presen­tandosi a Bernadette Subirous con le parole: Qué soy éra lmmaculada Coun­ceptiou. Proprio cosÌ, sorprendente­mente usando l'astratto: «lo sono l'Im­macolata Concezione». Bernadette non si rese nemmeno conto dell'im­portanza di queste parole.

UNA STORIA SINGOLARE

Una storia singolare che va fedel­mente ricordata che la Chiesa celebra in quest'anno e in questi giorni. Una storia singolare anche per le scarse e insufficienti affermazioni reperibili nella sacra Scrittura. Il richiamo al protovangelo (Gen 3, 15), alle diver­se figure bibliche, agli scritti dei pro­feti, al saluto dell'angelo e a quello di Elisabetta, alla dottrina della nuova creazione e della presenza divina nel segno del tempio difficilmente posso­no essere presi come testi esplicita­mente e chiaramente probanti il fat­to che noi stiamo ricordando. Ci sono però in questi testi delle suggestioni e delle indicazioni che possono essere sviluppate ed esplicitate in questo sen­so. Si ricorda soprattutto il saluto del­l'angelo, con la misteriosa parola ke­charitomene, tradotta dalla Bibbia di Gerusalemme "tu che sei stata e ri­mani colmata del favore divino" e dal­la Bibbia interconfessionale "egli ti ha colmato di grazia". Nella Fulgens co­rona del 1953 Pio XII parla di un "fon­damento" del dogma nella stessa Sa­cra Scrittura.

E a questo punto che comincia la riflessione teologica attuale su que­sto singolare avvenimento, che fa an­cora gridare allo scandalo il mondo protestante.

E in questione anzitutto la con­cezione della Bibbia in rapporto al­la tradizione..Sola scriptura, dicono i protestanti. I cattolici si esprimono nella Dei verbum con qtìeste parole:

"La Chiesa attinge la certezza su tut­te le cose rivelate non dalla sola Scrit­tura" (DV 9), ma anche dalla sacra Tradizione. Non perché la Scrittura non sia completa, ma perché essa non esprime tutta la rivelazione chiara­mente ed esplicitamente.

La Tradizione interviene per chia­rificare ed esplicitare quanto da Dio è stato rivelato.

Una chiarificazione ed esplicita­zione che cresce nel tempo perché «la Chiesa, nel corso dei secoli, tende in­cessantemente alla pienezza della ve­rità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (DV 8). Un cammino aperto teoricamente fino alla fine dei tempi. In questo con­testo non è solo la Tradizione antica che conta, ma anche quella che si manifesta nel corso del tempo. La Chie­sa è un organismo vivente e, come ta­le, aperto al processo della crescita. Non cresce la rivelazione, ma la com­prensione di essa. E il progresso può avvenire attraverso tre possibilità: la riflessione e lo studio dei credenti, l'esperienza data da una più profon­da intelligenza delle cose spirituali, la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevu­to un carisma sicuro della verità (cf. DV ivi).

Dalla breve storia del dogma pri­ma tracciata risulta che il progresso è avvenuto soprattutto attraverso il pri­mo mezzo, cioè la riflessione e lo stu­dio dei credenti, anzi attraverso la sen­sibilità e la coscienza del popolo cri­stiano, in qualche modo quasi con­trapposto alle convinzioni di non po­chi grandi teologi.

IL SENSO DELLA FEDE DEL POPOLO CRISTIANO

E qui si innesta una seconda ri­flessione teologica su cui ha insistito un testo alquanto dimenticato del conci­lio Vaticano II. Nel n. 12 della Lumen gentium si afferma: «L'universalità dei fedeli che tengono l'unzione dello Spi­rito Santo, non può sbagliarsi nel cre­dere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso del­la fede di tutto il popolo, quando "dai vescovi agli ultimi fedeli laici" mostra l'universale suo consenso in cose di fe­de e di morale».

La verità della immacolata con­cezione è un caso particolare, forse il più singolare, dell'applicazione di questo "sensus fidei" di cui il popolo cristiano è in possesso perché tutto quanto pervaso dallo Spirito Santo. I teologi parlano di un influsso priori­tario della fede popolare. Una fede che si è espressa non tanto con scrit­ti quanto con fatti e iniziative di or­dine cultuale e artistico (Stefano De Fiores). Quasi una conquista della te­nacia e della perseveranza del popo­lo cristiano. Questo potrebbe anche spiegare perché la festa dell'Immaco­lata sia la solennità mariana più cara al popolo cristiano. Un caso certa­mente interessante da un punto di vi­sta teologico. Un'occasione di rifles­sione su uno dei convincimenti tutt'al­tro che secondari del concilio Vatica­no II, che potrebbe anche avere altre applicazioni.

Il ritorno del dogma dell'immaco­lata concezione è anche un'occasione quanto mai opportuna per riflettere su quella verità del peccato originale di cui si parla molto poco e anche male ai nostri giorni. Un punto di dottrina sul quale, più che su tanti altri, è ne­cessario un processo di aggiornamen­to, richiesto diversi anni fa da Paolo VI, preoccupato del silenzio che cir­condava questo importante capitolo di fede cristiana. Il discorso non è affat­to semplice, ma si possono ricordare gli elementi più necessari pèr questa revisione.

IL PECCATO ORIGINALE

Mettiamo in disparte i doni pre­ternaturali che non hanno nessun fon­damento biblico. L'unico dono che Dio aveva fatto all'uomo ai primordi del­la sua esistenza era il dono sopranna­turale della grazia o dello Spirito San­to, attraverso il quale l'uomo era ele­vato alla dignità di figlio di Dio, fra­tello di Cristo, membro divinizzato della famiglia trinitaria. Il peccato era tale soltanto per coloro che l'hanno commesso (Adamo-Eva, il primo uo­mo e la prima donna, la prima comu­nità arrivata all'uso della ragione e della libertà); per tutti i discendenti il peccato è soltanto analogico, cioè non un vero peccato, ma lo stato che con­segue il peccato. E non sarebbe affat­to male smettere di chiamarlo pecca­to per non fare confusione. Sui di­scendenti grava soltanto la conse­guenza di quell'atto di ribellione com­piuto all'inizio dell'umanità: cioè la privazione della grazia, della vita di­vina, dello Spirito Santo. I progenito­ri dovevano trasmettere uno stato e non ce l'hanno potuto trasmettere per­ché lo persero per se stessi. Come un fiume che è stato bloccato alle sue ori­gini: l'acqua per forza di cose non scor­re più. Sulle conseguenze del peccato in noi dobbiamo fare un'operazione di pulizia. Il peccato non ha cambiato le leggi naturali della biologia e della fisica, ma soltanto il nostro stato inte­riore, che reagisce in modo diverso al­le sollecitazioni dell'esterno. Il para­diso terrestre non era il paradiso fi­nale: un luogo e uno stato in cui era­no presenti la morte, il dolore, la sof­ferenza, l'ignoranza e tutti i limiti del­l'esistenza umana, aggravati certa­mente dallo stato primordiale in cuj si trovava l'umanità. Era diverso il mo­do di reagire a essi. L'aggravarsi del-­la concupiscenza può essere anche spiegato con il peccato del mondo, cioè con la massa di peccati che l'uomo ha compiuto dopo e anche in conse­guenza del peccato originale. La giu­stizia di Dio è fuori questione perchéla consapevolezza del peccato e dello stato da esso determinato è contem­poranea alla promessa di salvezza at­traverso la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Le due cose avvengono in perfet­ta sincronia.

Tutta l'umanità ne è partecipe nel momento primo della vita, che è il momen­to della concezione, con una ecceZIOne: questo propriamente significa che Maria è nata senza il peccato originale. Si può dire, come si è sempre det­to, che il dono è sta­to fatto a colei che era destinata a diven­tare madre del Signo­re. Ma si può allarga­re la nostra conside­razione, dicendo che Dio voleva rico­minciare da capo. La parentesi del peccato è come saltata, si ritorna alla purezza delle origini, l'umanità si tro­va all'aurora di un nuovo giorno. Il lavoro di Dio continuerà nella nasci­ta verginale di Gesù, per rendere no­to a tutti che il mondo nuovo non è opera dell'uomo (in particolare non è opera dell'orgoglioso maschio, umi­liato perché reso inutile), ma soltan­to opera di Dio. Di Dio e di questa umile ragazza appartenente a un po­polo senza gloria e senza storia che, nonostante tutto, ha portato avanti nei secoli il segreto del lieto annunzio del­la salvezza.

LA VERA DEVOZIONE A MARIA

Vorrei discutere in ultimo il fatto che l'esenzione dal peccato originale è presentata nei documenti ufficiali co­me un privilegio singolare (altrettanto non sarà fatto per il dogma dell' As­sunzione, almeno se si sta al testo del­la definizione di Pio XII). Qualcosa che appartiene, dunque, solamente a Ma­ria. Si tocca qui uno dei passaggi più fecondi che si registrano oggi nella sen­sibilità della Chiesa, anzi delle Chiese: il passaggio dalla mariologia dell'esal­tazione alla mariologia dell'imitazio­ne. La prima ha certamente prodotto i suoi frutti, ma anche distaccato Ma­ria dal popolo cristiano che qualche volta, è innegabile, è perfino arrivato a esagerazioni e perfino fanatismi. Cer­tamente ha relegato Maria in un mon­do lontano che la rendono grande sì, ma quasi inimitabile, perché appunto arricchita di doni che appartengono soltanto a lei.

Fra vecchio massimalismo e mini­malismo, il concilio Vaticano II ha aperto un'altra strada: Maria riporta­ta all'interno della Chiesa, che diventa il modello e l'esempio di ogni esistenza cri­stiana e anche della Chiesa nel suo com­plesso. Una via bat­tuta anche dai papi post -conciliari, per i quali si può dire che la vera devozione a Maria comincia dalla sua imitazione. In questa linea si leggo­no la Marialis cultus di Paolo VI e la Re­demptoris mater di Giovanni Paolo IL Non si dimenticano le glorie, ma si sottoli­nea la necessità del­l'imitazione. Maria modello del popolo cristiano è diven­tato il titolo più ecumenico della Ma­dre di Dio.

Anche la liturgia della solennità dell'Immacolata ci porta alla stessa conclusione, ed è esattamente quello che fa Giovanni Paolo II nella sua en­ciclica. La terza lettura è incentrata sul­la "piena di grazia", annunciata sullo sfondo della prima lettura dedicata al peccato originale; la seconda, tolta dal­la lettere agli Efesini, ci ricorda che anche noi, pure in forme diverse dal­le sue, siamo "scelti prima della crea­zione del mondo, per essere santi e immacolati (immaculati è il termine usato dalla Volgata conservato dalla versione della CEI: la Bibbia inter­confessionale traduce più precisamen­te "senza difetti") al suo cospetto nel­la carità". Quello che è successo a lei prima avviene per noi dopo, ma il ri­sultato è lo stesso. Maria è perfetta­mente imitabile in tutte le sue ric­chezze, cominciando dalla fede per la quale, secondo sant' Agostino, ella con­cepì prima nell'anima che nel corpo. E la cosa è ancora più coinvolgente se pensiamo che Maria è più grande per la sua fede che per la stessa maternità divina.

La nostra meditazione termina co­sì con un atto di umiltà e con la fer­ma convinzione che il cammino di Ma­ria può essere anche il nostro cammi­no. Oltre il suo esempio, essa non ha altra cosa da dirci se non le parole pro­nunciate alle nozze di Cana: "Fate quel­lo che egli vi dirà". Ella rimane la Ver­gine del silenzio. Un augurio e un pro­gramma di vita.

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Giovedì, 27 Aprile 2006 01:30

La madre del mio Signore (Alberto Valentini)

La madre del mio Signore
di Alberto Valentini


A prima vista la visitazione sembra secondaria rispetto all’annunciazione tanto più se ci si limita, come nel nostro caso, ai soli versetti Lc 1, 39-45.

Le cose, in realtà, non stanno così, sia dal punto di vista narrativo e strutturale, sia a livello tematico

Sul piano della narrazione, se è vero che la visitazione non si spiega senza l'annunciazione, è vero in qualche misura anche il contrario: senza l'incontro con Elisabetta l'annuncio a Maria resta quasi sospeso e incompiuto.

Dal punto di vista della struttura la visitazione conclude il dittico degli annunci, a Zaccaria (1,5-25) e a Maria (1,26-38), ed opera la transizione a quello delle nascite di Giovanni (1,57-79) e di Gesù (2,1-21).

Sotto il profilo tematico la visita ad Elisabetta conferma ed esplicita la ricchezza dell'annuncio a Maria, che non di rado - proprio a motivo della sua importanza - viene estrapolato dal contesto, con la conseguenza di mortificarne gli sviluppi e il dinamismo salvifico, nonché gli echi nella comunità ecclesiale.

La visitazione, che nella tradizione esegetica non ha mai goduto del favore riservato all'annunciazione, a uno studio attento rivela notevole densità ed aspetti solitamente trascurati se non addirittura ignorati e misconosciuti.

Ovviamente, come ogni altro testo, la pericope va studiata non solo in se stessa, ma alla luce del contesto immediato e remoto. Nel nostro caso, il contesto immediatamente precedente e quello successivo acquistano importanza particolare, dal momento che la visita di Maria occupa una posizione e una funzione strategica nell'economia dei racconti dell'infanzia di Luca.

Intendiamo pertanto esaminare il brano alla luce di quanto precede e di quel che segue: retrospettivamente, con riferimento a Le 1,26-38 (ed anche a 1,5-25); in chiave prospettica, quale anticipazione della sezione delle nascite.

La struttura di fondo che lega i brani delle annunciazioni e quello delle nascite è costituita dal rapporto: annuncio-compimento. Al punto di incontro di questi due eventi, quale importante cerniera, si pone la pericope della visita di Maria ad Elisabetta

1. CONTINUITÀ CON GLI ANNUNCI

La visitazione è del tutto incomprensibile prescindendo dalla sezione degli annunci, con la quale è in rapporto di continuità e di sviluppo. Lo stesso contesto spazio-temporale, che forma la cornice della visita ad Elisabetta, rivela tale stretta connessione. L'inizio del viaggio (v. 39) e il ritorno "a casa sua" (v. 56) di Maria ha come punto di partenza e di arrivo - non nominato, ma evidente - Nazaret, che conosciamo grazie alla narrazione precedente (v. 26). Anche il contesto temporale, indicato a conclusione dell'intera pericope - "Maria rimase con lei circa tre mesi" (v. 56) - si giustifica sulla base dell'annotazione - "Nel sesto mese" - fornita dalla narrazione precedente (v. 26). La scena dunque si sposta da Nazaret, luogo dell'annuncio a Maria, a una città di Giuda, in casa di Zaccaria.

Col cambiamento di scena si assiste anche ad alcuni mutamenti di personaggi e di ruoli.

Finita la sua missione, è scomparso l'angelo (v. 38), ed è uscito di scena, almeno per il momento - proprio in casa sua! (v. 40) -, Zaccaria: entrambi precedentemente protagonisti.

Elisabetta, che nell' annuncio della nascita del Precursore compariva soltanto al termine e si teneva nascosta (vv. 23-25), appare qui in primo piano accanto alla madre di Gesù.

Anche il ruolo di Maria è invertito: mentre nell'annunciazione l'angelo prende l'iniziativa ed ella risponde, qui è lei che parla per prima recando il lieto annuncio della salvezza, cui Elisabetta risponde - a differenza del marito (v. 20) - con fede entusiasta. Mirabile protagonismo femminile! Si direbbe che in questa scena, in cui due donne a gara proclamano l'evento salvifico, si anticipi la missione affidata alle donne il mattino di Pasqua.

A Maria ed Elisabetta è attribuito un ruolo primario nella scena. Nonostante il rilievo dato alla madre del Precursore, il posto centrale è riservato alla madre di Gesù. I veri protagonisti, tuttavia, non sono le madri, ma i bambini: il figlio della Vergine e quello della sterile, i quali benché ancora non parlino, sono oggetto dell'annuncio, il primo, e autore della reazione gioiosa, il secondo. Protagonista ancor più misterioso e decisivo è lo Spirito santo: annunciato e promesso dal messaggio dell'angelo (v. 35) e disceso nel cuore e nella carne della Vergine per la generazione del Figlio di Dio, Egli spinge Maria al "santo viaggio" (cf Sal 84,6), mette sulle sue labbra il saluto messianico e suscita la risposta gioiosa e la confessione di fede di Elisabetta. Lo Spirito che ha operato in Maria l'evento salvifico è all'origine della sua proclamazione, che per il momento avviene in casa di Zaccaria e nella comunità lucana, ma dovrà esser diffuso fino ai confini della terra (cf At 1,8).

2. ANTICIPAZIONE DELLE NASCITE

La scena della visitazione è in continuità con gli annunci, ma segna anche uno sviluppo nei loro confronti e già introduce la sezione delle nascite. L'annuncio a Zaccaria - nonostante la sua incredulità - e quello a Maria grazie alla sua fede - si stanno infatti realizzando: ne sono segno evidente l'incontro delle due madri, donne in attesa del compimento del mistero in esse iniziato. La maternità di Elisabetta, già nota per la parola dell'evangelista (cf vv. 24-25) e dell'angelo (v. 36), appare qui nella sua concretezza e fisicità attraverso il sobbalzo del bambino (vv. 41.44); la maternità della Vergine, finora avvolta nel mistero, viene riconosciuta e proclamata a gran voce (vv. 42-43).

Tra l'annunciazione e la visitazione corre un parallelismo progressivo. Oltre che dai contenuti, il progresso è evidente dal punto di vista formale: mentre il racconto dell'annuncio a Maria poggia su una serie di verbi al futuro: "concepirai... darai alla luce... lo chiamerai... lo Spirito Santo verrà su dite... Colui che nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio", il brano della visita ad Elisabetta è caratterizzato da forme verbali al presente e al passato e da esperienze in atto: "benedetta... beata... colei che ha creduto... la madre del mio Signore".

Nei vv. 39-45 c'è già un inizio di compimento che sarà definitivo solo al momento delle nascite. Gli annunci dell'angelo hanno già rivelato la loro efficacia; ormai la tensione del racconto preme decisamente e in maniera irreversibile verso la conclusione.

I riferimenti alla maternità, rispettivamente di Maria e di Elisabetta, sono infatti molteplici: il primo segno viene dal sussulto del bambino di quest'ultima; tale movimento gioioso del piccolo nel grembo materno è la reazione suscitata dallo Spirito per la presenza di un altro bambino della quale Maria di Nazaret è portatrice. I due non sono ancora nati, ma già agiscono come se lo fossero, anticipando la foro futura missione: il Figlio di Dio in grembo alla Vergine fa già irruzione nella storia riempiendola di gioia messianica; il Precursore, dal seno di Elisabetta, è il primo ad avvertirne e a proclamarne la presenza. Il bambino reagisce di fronte al bambino, la madre al cospetto della madre. Elisabetta, illuminata dallo Spirito e scossa dal sussulto del suo bambino, dichiara a gran voce la maternità in atto della Vergine; non solo la proclama benedetta per il frutto del suo grembo, ma la saluta con stupore, quale madre del Signore (v43). È come se ella avesse già generato il Figlio, cui già si attribuisce il titolo di Signore! La funzione prolettica del brano è indubbiamente notevole.

Le parole di Elisabetta non solo rivelano e celebrano la maternità messianico-divina della Vergine, ma ne sottolineano anche la componente di fede e beatitudine, tipica della riflessione lucana. La fede della Vergine, posta a suggello dell'annunciazione (v. 38), non solo è ribadita alla luce del compimento, ma viene anche celebrata mediante un macarismo (v. 45), che sarà ripreso subito dopo (v. 48) e, più tardi, nel corso del vangelo di Luca (11,28). Con la sottolineatura della fede di Maria e con il macarismo conseguente si va ben al di là di una generazione umana, per quanto straordinaria: se ne proclama la dimensione dall'Alto, ad opera dello Spirito; e si evidenzia già una qualche forma di incipiente venerazione della madre del Signore da parte della comunità lucana di cui Elisabetta è testimone e portavoce.

3. IL MOTIVO DELLA VISITA DI MARIA

L'unico motivo esplicitamente indicato dal testo è quello del "segno" dato dall'angelo alla Vergine (v. 37), a conferma dell'efficacia della sua parola. A differenza di Zaccaria (v. 18) e di molti personaggi biblici, Maria non ha chiesto un segno, né ha preteso garanzie. Ella, tuttavia, va prontamente a constatare l'opera del Signore in Elisabetta con lo stesso atteggiamento col quale ha accolto l'azione di Dio nella propria vita.

La maternità straordinaria di Elisabetta addita e prepara un evento ancor più radicale: la maternità verginale con cui, secondo la promessa isaiana (Is 7,14), il Signore offre al mondo il segno definitivo: l'Emmanuele, Dio-con-noi, salvatore del suo popolo.

Il motivo della solidarietà - pur non essendo esplicito nel racconto lucano - è addotto molto spesso nella storia dell'interpretazione del testo, fino ai nostri giorni. Indubbiamente tale motivazione sottolinea un valore antropologico ed evangelico - al quale è molto sensibile il nostro tempo -, ma non sembra la ragione vera, dal punto di vista esegetico, del viaggio della Vergine.

Molto più convincente, e in linea con la concezione biblica e lucana, appare la dimensione "missionaria" del viaggio, in connessione e quale conseguenza della vocazione ricevuta. L'annuncio a Maria e la visita ad Elisabetta si presentano come due pannelli di un unico quadro: la vocazione si realizza nella missione. Maria, destinataria della chiamata e del messaggio dell'angelo, è inviata quale annunciatrice della salvezza di Cristo. Ella che nell'annunciazione ha accolto il Messia Figlio di Dio è la prima Teofora e testimone della salvezza.

È questo il motivo del sussulto di gioia di Giovanni nel grembo della madre, espressione del giubilo della creazione alla presenza del suo Signore; ciò spiega bene anche lo stupore gioioso di Elisabetta (v. 43). Tale interpretazione si pone sulla scia di un celebre testo isaiano, che potrebbe essere lo sfondo di questo viaggio frettoloso e del messaggio della visitazione: "Come sono belli sui monti / i piedi del messaggero di lieti annunzi / che annunzia la pace, / messaggero di bene / che annunzia la salvezza, / che dice a Sion: "Regna il tuo Dio". / ... Prorompete insieme in canti di gioia, / rovine di Gerusalemme, / perché il Signore ha consolato il suo popolo" (Is 52,7.9).

La visitazione presenta dunque reminiscenze di vaticini e di gioie antiche che in Cristo acquistano piena espressione e significato; d'altra parte, annuncia ed anticipa eventi futuri, legati in particolare alla Pentecoste lucana. Ricevuto lo Spirito del Signore e sospinti dal suo incontenibile dinamismo come Maria - gli Apostoli percorreranno le strade del mondo per annunciare la salvezza di Dio; e dovunque essi giungano esplode la festa di quanti accolgono la Parola.

Il viaggio di Maria appare dunque un frettoloso cammino di missione. Quanto nell'annunciazione era rimasto nel segreto del suo animo, adesso viene comunicato ad Elisabetta e da lei proclamato a piena voce per la gioia di tutti i credenti.

4. INDIZI DI VENERAZIONE DELLA MADRE DEL SIGNORE

Concludiamo queste riflessioni sulla visitazione sottolineando un aspetto - solitamente trascurato - che costituisce, a nostro avviso, una nota particolare della pericope lucana. Il brano presenta indizi, certo embrionali ma significativi, di venerazione della Vergine da parte della comunità lucana. Tale nota emerge anzitutto dal quadro generale del racconto che rispecchia nelle grandi linee la "celebrazione" di Giuditta da parte dei personaggi più rappresentativi e da tutto il popolo (Gdt 13-16): Giuditta giunge in fretta in città ad annunciare la salvezza; a quelle parole la comunità reagisce con grida di gioia, benedicendo Dio e colei che ha cooperato con Lui; la scena si conclude con un grandioso canto di lode e di ringraziamento a Dio salvatore che trova il suo pendant nel Magnificat. La struttura generale è confermata dalla benedizione rivolta a Maria (v. 42) che riproduce quasi alla lettera Gdt 13,10:

Gdt 13,1 O: "Benedetta sei tu, figlia, ... più di tutte le donne... e benedetto il Signore Dio";

Lc 1,42: "Benedetta tu più di tutte le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo".

Come si vede, la differenza decisiva consiste nel fatto che "il Signore Dio" è divenuto "il frutto del grembo" di Maria. Se Giuditta è benedetta e onorata per aver collaborato con il Dio altissimo, quanto più è degna di tale omaggio la Vergine che porta in grembo il Dio Salvatore!

Il contesto, chiaramente celebrativo, non teme alcuna confusione tra Dio, operatore della salvezza, e la creatura che vi ha collaborato. Alla lode e glorificazione di Dio è associata, con naturalezza, la sua serva.

I segni della venerazione della madre del Signore vanno tuttavia ben al di là del confronto con la figura di Giuditta. È impressionante nella scena della visitazione la serie e la qualità di titoli ed elogi rivolti alla madre di Gesù. Ella è dichiarata eulogh menh più di tutte le donne (v. 42), h mh h tr tou kuriou (v. 43), makaria (v. 45), h pisteusasa (v. 45); ella stessa, infine, con voce profetica annuncia: mi proclameranno beata tutte le generazioni (v. 48b). Le parole di Elisabetta esprimono l'atteggiamento della comunità lucana; anzi inaugurano la venerazione di tutte le generazioni nei confronti dell'umile serva, madre del Signore.

Il primo motivo della venerazione è senza dubbio la maternità per la quale Maria è benedetta più di tutte le donne. Che si tratti di una maternità unica - verginale e divina - appare da molteplici elementi presenti nel testo: il "saluto" della Vergine che riprende quello dell'angelo (vv. 27ss) e manifesta l'evento straordinario in lei operato; il sussulto del Precursore, riempito dallo Spirito fin dal seno materno (cf 1,15); la parola ispirata di Elisabetta che proclama il mistero di quella maternità; il riconoscimento e accoglienza di Maria come madre del Signore.

Il racconto della visitazione, per quanto denso, deve essere integrato con quello dell'annunciazione. Alla luce di questo brano il motivo della maternità si arricchisce di altri importanti connotati che giustificano e rafforzano la venerazione della madre di Dio.

Si tratta di una maternità verginale: il primo titolo attribuito alla fanciulla di Nazaret è quello di vergine, ripetuto due volte all'inizio del racconto (v. 27) e richiamato indirettamente, in seguito, mediante l'espressione "non conosco uomo" (v. 34). È una maternità regale, in riferimento al discendente davidico (vv. 32-33; cf 2Sam 7; Is 7,14), e divina, a motivo dell'opera dello Spirito (v. 35).

È maternità nella carne, ma anzitutto nella fede: Elisabetta che ha dichiarato Maria eulogh menh per il frutto del grembo (v. 42), svela la radice di tale mistero, proclamandola makaria per la fede (v. 45). L'umile adesione alla parola di Dio - secondo Luca - è l'atteggiamento caratteristico della Vergine: tutto è posto sotto il segno di quel iniziale che orienta e spiega l'intera sua vita.

La fede è posta a suggello della scena dell'annunciazione (v. 38) e dunque dell'accettazione della maternità messianico-divina; la medesima fede conclude la serie delle lodi e delle parole ispirate di Elisabetta (v. 45). Quanto l'angelo ha annunciato e la madre del Precursore ha constatato porta il sigillo della fede di Maria.

Tutto questo però è opera dello Spirito. A Lui si deve la maternità della Vergine e il di fedeltà sgorgato da un cuore nuovo, secondo gli annunci profetici concernenti la Nuova Alleanza (cf Ger 31,31-34; Ez 36,25-28; GI 3, l-5). Lo Spirito, che è all'origine delle "grandi cose" (Lc 1,49) operate in Maria, è anche l'autore della lode e venerazione che Elisabetta, la comunità lucana (cf Lc 11,28) e infine tutte le generazioni renderanno alla madre del Signore (1,48) per la sua fede e per la sua maternità.

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Giovedì, 29 Dicembre 2005 00:02

Bibliografia essenziale su Maria (Alberto Valentini)

Bibliografia essenziale su Maria
di
Alberto Valentini

R. E. BROWN – J. A. DONFRIED – FITZMYER – J. REUMANN, Maria nel Nuovo Testamento, Cittadella, Assisi 1985, pp.341.

Il libro è frutto di un prolungato lavoro collegiale da parte di studiosi cattolici, protestanti e anglicani. Il risultato è un sostanziale accordo circa le posizioni dei cristiani dei primi due secoli nei confronti della madre di Gesù. L’opera costituisce una buona base per il dialogo ecumenico.


RANIERO CANTALAMESSA, Maria uno specchio per la Chiesa, Ancona, Milano 1992, pp.270.

Non si tratta di un libro di esegesi tecnica, ma di teologia e di spiritualità biblica. Le pericopi del Nuovo Testamento concernenti la Vergine, come si sa, non sono numerose, ma piene di densità e di ricchezza solo parzialmente esplorate. L’autore sottolinea la presenza di Maria nei tre momenti costitutivi del mistero cristiano: Incarnazione, Pasqua, Pentecoste. Sullo sfondo di tali eventi della vita nuova in Cristo, in continuità con l’esperienza vissuta dalla madre del Signore.


RENÉ LAURENTIN, I Vangeli dell’infanzia di Cristo, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, pp.713.

Lavoro che corona un trentennio di ricerche da parte dell’autore sui vangeli dell’infanzia. La novità di quest’opera risiede soprattutto nell’applicazione del metodo strutturale e della semiotica – insieme con altri metodi ormai collaudati – a tale particolare lettura. Il tutto allo scopo di scoprire la ricchezza e il realismo della fede cristiana tanto studiate, eppur sempre avvolte di fascino e di mistero.


E. G. MORI, Figlia di Sion e Serva del Signore, Dehoniane, Bologna 1987, pp. 392.

Questo lavoro, che attinge a una documentazione esemplare, costituisce un saggio stimolante di mariologia biblica, arricchito dalle interpretazioni patristiche e da quanto meglio la ricerca teologica ha elaborato.


IGNACE DE LA POTTERIE, Maria nel mistero dell’alleanza, Marietti, Genova 1988, pp. 281.

«Ciò che vorremmo fare in questo libro – così l’autore stesso presenta il lavoro – è di mostrare il ruolo unico che Maria, la “Figlia di Sion”, ha svolto nella storia della salvezza e nel mistero dell’Alleanza. Questo “mistero di Maria” illumina tutta la Chiesa, quindi anche la vita di ciascuno di noi...».


GIANFRANCO RAVASI, L’albero di Maria. Trentun «icone» bibliche mariane, Paoline, Cinisello Balsamo 1993, pp. 331.

L’autore presenta trentuno quadri biblico-mariani, tratti dalle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, fresca rivisitazione di un patrimonio biblico-patristico, ma anche letterario e di arte che ha accompagnato – anche se talora in sordina – la fede e la devozione del popolo di Dio.


ARISTIDE SERRA, Maria secondo il Vangelo, Queriniana, Brescia 1987, pp. 177.

La riflessione su la madre di Gesù deve essere anzitutto biblica: essa fa parte della «buona notizia» di Gesù nato dalla vergine Maria per la nostra salvezza. È quanto si propongono questi saggi sui vangeli – sintesi di ricerche ben più ampie del noto studioso – alla luce della tradizione biblica giudaica e patristica, con puntuali riferimenti all’attuale situazione della chiesa e del credente.


ARISTIDE SERRA, Maria di Nazareth. Una fede in cammino, Paoline, Milano 1993, pp. 107.

Agile volumetto, nel quale l’autore concentra – in sette densi capitoli – le sue vaste e documentate indagini sui passi mariologici del Nuovo Testamento, dall’Annunciazione – inizio del dialogo di fede con Dio – fino alla glorificazione di Maria: «tutte le generazioni mi proclameranno beata» (Lc 1,48b).


ORTENZIO DA SPINETOLI, Maria nella Bibbia, Dehoniane, Bologna 1988.

Nuova edizione di un libro comparso per la prima volta nel 1963, anticipando diverse posizioni che il concilio avrebbe poi ufficializzato. Reinserire Maria nella tradizione biblica è la prima preoccupazione dell’autore. L’opera è introdotta da un capitolo su la «Progressiva rivelazione del mistero di Maria», e si conclude con una interessante riflessione sul mistero dell’Assunta, che impreziosiscono ulteriormente la trattazione. Un libro che si legge sempre con profitto.


MAX THURIAN, Maria madre del Signore, immagine della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1964-1987, pp. 269.

Un libro che fu accolto con grande favore fin dal suo apparire nel 1964 e ancor oggi è oggetto di attenzione, come testimonia la riedizione del 1987,. Tra i pregi dell’opera vanno sottolineati anzittuo il denso sostrato biblico e la sensibilità ecumenica, ma anche la solidità e concretezza del dettato, che recupera il meglio della grande tradizione cristiana.


ALBERTO VALENTINI, Il Magnificat. Genere letterario, struttura, esegesi, Dehoniane, Bologna 1987, pp. 301.

Vasta ricerca sul cantico della Vergine condotta a livello letterario ed esegetico, nel confronto con la poesia antico o iter-testamentaria. Con abbondante documentazione bibliografica ed ampi excursus su questioni di particolare interesse.


AA. VV., La Madre del Signore, Parole, Spirito e vita, n. 6, 1982, pp. 254.

Quaderno monografico su la Vergine Maria alla luce degli annunci anticotestamentari, secondo le pericopi del Nuovo Testamento, e nel contesto dell’ampia e differenziata tradizione cristiana.

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Magnificat
Il Dio cantato da Maria,
serva del Signore
(prima parte)
di Alberto Valentini



Premessa

La “verità” sul Dio dell’alleanza

Il Magnificat, al quale la riflessione - non solo esegetico-teologica - ha riservato un’attenzione particolare negli ultimi decenni, è stato oggetto di interesse ripetuto anche da parte del Magistero. Al canto della Vergine, Paolo VI, nell’Esortazione apostolica  Marialis Cultus, aveva già dedicato parole ispirate:

… il Magnificat (cf Lc 1,46-55), la preghiera per eccellenza di Maria, il canto dei tempi messianici nel quale confluiscono l’esultanza dell’antico e del nuovo Israele, poiché – come sembra suggerire sant’Ireneo – nel cantico di Maria confluì il tripudio di Abramo che presentiva il Messia (cf Gv 8,56) e risuonò, profeticamente anticipata, la voce della Chiesa…(1).

Al Magnificat, Giovanni Paolo II attribuisce notevole importanza ed ampia considerazione – oltre che in numerosi documenti e catechesi - nell’Enciclica Redemptoris Mater (nn. 35-37), in cui lo presenta come il canto, l’inno ufficiale della Chiesa in cammino sui sentieri della storia che attinge ormai il terzo millennio: “Sgorgato dal profondo della fede di Maria… non cessa nei secoli di vibrare nel cuore della Chiesa” (2).

Questo canto non solo traccia un programma di coraggioso impegno evangelico al servizio del mondo, ma prima ancora rivela l’autentico volto di Dio.

Dalla profondità della fede della Vergine… (la Chiesa) attinge la verità sul Dio dell’alleanza… Nel Magnificat essa vede vinto alla radice il peccato posto all’inizio della storia… Contro il “sospetto” che “il padre della menzogna” ha fatto sorgere nel cuore di Eva, la prima donna, Maria, che la tradizione usa chiamare “nuova Eva” e vera “madre dei viventi” proclama con forza la non offuscata verità su Dio… Maria è la prima testimone di questa meravigliosa verità, che si attuerà pienamente mediante le opere e le parole (cf At 1,1) del suo Figlio e definitivamente mediante la sua croce e risurrezione.

La Chiesa che… non cessa di ripetere con Maria le parole del Magnificat, “si sostiene” con la potenza della verità su Dio… e con questa verità su Dio desidera illuminare le difficili e a volte intricate vie dell’esistenza terrena (3).

Le parole citate di Giovanni Paolo II sembrano rispondere al voto espresso alcuni anni prima da J. Dupont, a conclusione di un eccellente studio sul cantico della Vergine, considerato come discorso su Dio (4). Al termine del suo lavoro e dopo aver indicato feconde piste di sviluppo alla riflessione teologica, così egli si esprimeva:

Il Magnificat non definisce Dio… esso “situa” il mistero di Dio salvatore e ne offre le coordinate. Dopo aver fatto questa constatazione, l’esegeta deve fermarsi e passare la mano: noi saremmo felici se questo studio del Magnificat come discorso su Dio ispirasse a un collega dogmatico un discorso su Dio alla luce del Magnificat. Non è forse del Dio salvatore, cantato in questo brano, che noi dobbiamo essere testimoni oggi nel mondo? (5).

Abbiamo l’impressione che l’invito di Dupont sia stato raccolto, come egli stesso forse non osava sperare.

- Il Magnificat costituisce, dunque, una privilegiata riflessione sul Dio della salvezza, ma non offre una definizione astratta della sua identità. Su questo punto, noi di tradizione greca e formazione scolastica dobbiamo operare una profonda e mai del tutto compiuta metànoia.

Alla tentazione di concettualizzare l’immagine di Dio hanno ceduto illustri studiosi, in particolare gli autori di note teologie bibliche (6), legate a concetti ampi e a loro avviso onnicomprensivi, quali: salvezza, elezione, patto, rivelazione, redenzione, soteriologia, escatologia…

Con questi concetti nominali ci si allontanò dal linguaggio dell’Antico Testamento che è prevalentemente verbale e, inoltre, andò perduta la molteplicità di forme che l’Antico Testamento usa nel parlare di Dio (7).

Un discorso biblico su Dio deve privilegiare le forme verbali legate al dinamismo della Parola rivelata e delle azioni salvifiche, sempre aperte ad ulteriore riflessione ed approccio esistenziale. Non si danno forme precostituite capaci di presentare in maniera univoca ed esaustiva l’evento della parola e degli interventi divini.  

Il Dio del Magnificat non è definito secondo categorie astratte, ma narrato, cantato e celebrato sulla base di gesta salvifiche sulle quali si fondano la fede e il culto del popolo di Dio.

Esiste infatti un rapporto vitale e imprescindibile tra salmi, cantici ed eventi di salvezza. Non si danno canti senza l’esperienza di una storia che coinvolga il cantore rendendolo contemporaneo di quanti l’hanno vissuta. I salmi – nonostante la loro diversità e le molteplici classificazioni proposte in particolare da H. Gunkel (8) - si possono distinguere in due categorie fondamentali, costituite secondo C. Westermann da Flehen und Loben (9), divisione che ripropone in sostanza le classificazioni maggiori dello stesso Gunkel, gli inni e le lamentazioni.

- L’io dei salmi può essere personale o collettivo, talora generale, presentando una situazione indeterminata dell’esistenza umana, ma rivela sempre una dimensione dialettica spesso drammatica tra orante/i e il Signore, cui si grida dall’angoscia o al quale si rivolge il canto di lode per la salvezza conseguita.

Nel Magnificat l’orante parla al singolare: è una figura ben determinata, la douú,lh, che con tutto il suo essere celebra il Signore e si rallegra della salvezza. Tale figura, tuttavia, è portavoce di molti altri personaggi, di tutti coloro che come lei sono stati raggiunti da straordinari interventi salvifici. A conclusione del canto, la serva cede addirittura il posto ad Israele servo del Signore, popolo cui ella appartiene e del quale è testimone privilegiato.

Maria giunge al termine, al vertice di un’infinita schiera di oranti, di uno sterminato corteo di servi e serve del Signore, a partire dai Padri e dalle Madri d’Israele, passando per le figure di uomini e di donne celebri come Abramo, Mosè,  Davide e come Miriam, Debora e Giuditta, come tutti i profeti, soprattutto il servo di Yahwè inglobante il popolo di Dio, in particolare i poveri che nei tempi escatologici si compendiano nelle eccelse figure del Messia davidico e della vergine di Nazaret. Israele è un popolo di poveri che il Signore si è scelto, ha riscattato e riservato per sé. Nulla pertanto di più alieno dall’identità d’Israele dell’arroganza stolta che caratterizza i pagani e che si esprime in ribellione nei confronti di Dio e in oppressione dei deboli.

All’interno del popolo dell’alleanza – tentato a sua volta di autosufficienza e per questo periodicamente, quasi sistematicamente decimato e purificato – permane  sempre un piccolo resto, che costituisce l’Israele qualitativo e fedele, la porzione santa della quale la Vergine del Magnificat è il tipo ideale, ma che si estende a tutti coloro che temono il Signore, ai piccoli, oppressi ed affamati, all’Israele di Dio, vera discendenza di Abramo e popolo della promessa. 



1.    Non definizione di Dio, ma celebrazione del suo agire


 
Jahwè

Il Magnificat non offre pertanto una definizione di Dio, ma rievoca una storia, divenuta liturgia-professione di fede, che rivela il volto concreto di Dio salvatore: un volto plasmato dalle sue azioni salvifiche che costituiscono un memoriale per tutte le generazioni d’Israele.

Certo, nel Magnificat ci sono attributi fondamentali di Dio, ma tutto dipende dai verbi. Gli stessi aggettivi e sostantivi risultano fortemente dinamici: sono, in fondo,  forme e perifrasi verbali oppure intendono qualificare l’agire di Dio più che la sua astratta identità.

Ciò appare con assoluta evidenza nel titolo Dio salvatore che domina e caratterizza  tutto il canto. Esso è specificato da altri due appellativi pieni di densità:

- il potente che ha fatto grandi cose, da comprendere in particolare sullo sfondo dell’esodo e degli eventi maggiori della storia salvifica;

- il santo: titolo non astratto né statico, che rivela la motivazione profonda dell’agire di Dio, come viene esplicitamente proclamato nel canto del mare (10), che celebra la notte della grande liberazione.

Un Dio, dunque, salvatore-potente e santo.

Oltre questi titoli ed appellativi il Magnificat presenta anche un sostantivo, e;leoj, per caratterizzare l’azione di Dio e qualificare il suo volto. Anche qui, però, bisogna osservare che e;leoj non esprime un semplice sentimento, né solo un atteggiamento interiore, ma una caratteristica fondamentale del Dio biblico che - coniugata con la sua santità e potenza - si esprime in efficaci gesta salvifiche a favore dei suoi servi, di coloro che lo temono e  di tutto Israele, senza limiti nel tempo e nello spazio.

A parte i pochi elementi non-verbali, ma comunque dinamici, il volto di Dio-salvatore è delineato da una notevole sequenza di verbi, collocati in posizione dominante, che conferiscono al canto un aspetto unitario e fortemente strutturato. Le forme verbali, proclamando le azioni divine, come si è detto, sono decisive nella rivelazione biblica che è storia concreta, sulla quale poggia la fede d’Israele.

Da questo punto di vista, il Magnificat è un canto esemplare che celebra la salvezza presente e personale della serva del Signore sullo sfondo della storia del popolo dell’alleanza; storia ormai realizzata definitivamente in Cristo e proiettata in maniera irreversibile verso una metastoria, nella quale tutte le promesse di Dio diverranno pienamente .

- A parte l’Introduzione, in cui la serva parla in prima persona – anche se nascosta dietro perifrasi (la mia vitail mio essere), peraltro particolarmente efficaci, e nonostante la dimensione personalistica della prima parte –, il canto appare una proclamazione degli interventi salvifici di Dio, narrati in terza persona, in una comunità liturgica, come avviene per la liberazione pasquale celebrata in particolare nel grande Hallel (salmo 136), in cui il racconto-proclamazione, con cadenza litanica, fa memoria cultuale dei grandi eventi del passato, con Yahwè, soggetto e protagonista del racconto, come lo era stato dell’evento (11).

I verbi, le azioni divine, costituiscono non solo l’elemento dominante, ma la spina dorsale del cantico: essi sono tutti in aoristo – tempo storico per eccellenza – diversamente da quanto avviene nei canti coevi del giudaismo intertestamentario, che esprimono una tensione talora parossistica verso il futuro, in un contesto di grande tribolazione, in particolare nei salmi di Qumran. Le forme verbali del Magnificat sono invece al passato, a testimonianza inequivocabile di una salvezza ormai compiuta, e sono preceduti da un piuccheperfetto che rievoca una lontana promessa fatta ai Padri e ora puntualmente realizzata. Alla base degli aoristi c’è pertanto una Parola (“come aveva detto”), che la storia ha definitivamente  confermato. Protagonista di tutto è il Dio d’Israele che parla, promette ed attua con assoluta fedeltà quanto ha annunciato. La parola uscita dalla sua bocca non ritorna a Lui senza aver compiuto ciò per cui è stata inviata (cf Is 55,11).

Maria, nel canto, non è mai esplicitamente nominata: Dio salvatore è il solo, vero protagonista del Magnificat. Egli è rispettivamente oggetto e soggetto di tutti i verbi, vale a dire di tutti gli eventi e gesta salvifiche proclamati dalla dou,lh.

- Com’è noto, il Magnificat è un canto imbevuto di storia biblica, intessuto di reminiscenze veterotestamentarie, tanto numerose da mettere alla prova la sensibilità e la preparazione del lettore. Al di là dei testi paralleli o imparentati, indicati solitamente dagli studiosi e presenti negli apparati critici del NT, se ne possono scorgere molti altri in filigrana, che fanno di questo canto un esempio di quel che A. Robert chiamava “stile antologico” (12). Esso costituisce un vero mosaico di allusioni, accostamenti e interpretazioni che ne rendono ardua la piena comprensione. Si può ripetere per questo canto quanto Moraldi affermava per le Hodayot di Qumran: “In molti casi l’autore aveva in mente più di un passo biblico, in altri dipende soprattutto dalla discrezione e preparazione del lettore scorgere o meno un riferimento biblico” (13). Il Magnificat è uno splendido mosaico le cui tessere sono costituite dalle vicende della storia d’Israele, la quale ha attinto senso definitivo in Cristo, ma attende pur sempre la pienezza escatologica.

Esaminando il canto dall’inizio, ci troviamo subito di fronte a una solenne dossologia e ad una gioiosa confessione della salvezza. Se è vero che l’Introduzione dà il tono a tutta la composizione, è non meno vero che essa è spiegata e giustificata dal corpo del canto, in cui si esprimono i motivi per i quali viene esaltato il Signore e si gioisce in Lui. Il Magnificat, lo ripetiamo, non offre una definizione razionale ed astratta di Dio, ma una testimonianza storico-esperienziale. Egli è grande perché ha operato grandi cose; è salvatore perché tale si è dimostrato con le sue gesta. A celebrarlo sono coloro che ne hanno constatato la magnificenza divina e la potente salvezza. L’esperienza salvifica è alla base del canto e della gioia che ne deriva.

I verbi dell’Introduzione sono coniugati in terza persona, ma il soggetto non è un personaggio anonimo e indeterminato: è la dou,lh che dal profondo del suo essere  esalta il Signore, ne riconosce e proclama la grandezza, ed esprime la festa della sua esistenza rinnovata dall’intervento divino.

L’Introduzione, dunque, rivela subito il volto di un Dio grande, del tutto trascendente, specialmente se messo in rapporto-contrasto con la tapei,nwsij della serva. D’altra parte, egli non è distaccato o assente dal mondo: è un Dio che interviene tempestivamente e con efficacia nelle situazioni della storia, manifestandosi come salvatore. Un Dio lontano e vicino al tempo stesso, misterioso nella sua assoluta trascendenza, ma ben riconoscibile da coloro che da lui sono stati liberati. Un Dio che provoca il gioioso canto dei redenti.

Non è tuttavia sufficiente un’affermazione di principio, per quanto densa e concreta, per celebrare il Signore: chi canta una prodigiosa liberazione non può tacere i particolari, i fatti concreti della propria esperienza, della sua storia nella quale è intervenuto con potenza il Signore. E’ proprio di tali interventi che si compone la trama del Magnificat.

Si passa così dall’Introduzione al corpo del canto, nel quale il soggetto dei verbi – tutti di azione e tutti in aoristo – è  Dio-Salvatore. La dou,lh è memoria e portavoce di una storia che viene rivissuta e interiorizzata nel culto, all’interno di una comunità di fede.

Il v. 48 comincia significativamente con un poiché, che ricorre parallelamente all’inizio del v. 49: congiunzione causale che regge non solo questi due versi, ma tutto il canto, tanto che potrebbe essere ripetuta all’inizio di ogni versetto, formando una sequenza litanica sull’esempio di numerosi salmi innici o di “ringraziamento”. 

La prima manifestazione dell’agire di Dio è di particolare densità e riassume in qualche modo tutti i successivi suoi interventi:

poiché guardò dall’alto alla povertà della sua serva.

Non a caso sono queste le prime parole con le quali il Signore si presenta a Mosè, al momento di affidargli l’incarico di liberare il suo popolo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…” (Es 3,7). Esse rivelano l’atteggiamento di viva partecipazione di Dio che precede ogni suo intervento salvifico.

E’ da notare che il verbo ble,épw, il quale originariamente indica la semplice funzione fisico-ricettiva del vedere, acquista - già prima del Nuovo Testamento - un connotato “intuitivo-conoscitivo-critico, nel senso di “guardare dentro, scrutare, rendersi conto” (14). Tale significato di attenta e partecipe osservazione viene approfondito dalla formula ebraica di Es 3,7: ra’ôh ra’îtî..., seguita da fondamentali verbi di percezione e di azione: šama‘tî… iada‘tî…wa’ered lehassîlô. Testo reso fedelmente dai LXX, i quali riproducono materialmente la formula idiomatica ebraica ra’oh ra’îtî con ivdw.n ei=don e iada‘tî con oi=da  (15). Come si vede, tutti i sensi di contatto sono direttamente e concordemente impegnati in Dio che veglia sulle vicende del mondo. Yahwè – in questa circostanza egli rivela il suo nome, non volendo essere identificato con i muti e inerti dei delle nazioni – chiaramente vigila e si dà pensiero del suo popolo. Il verbo evpible,pw non esprime solo un guardare sopra, vale a dire dall’alto – si noti la ripetizione di evpi., – ma un curvarsi su, prendersi cura, (16) come un padre e una madre nei confronti del figlio in difficoltà. E a sottolineare ulteriormente la densità del testo – ben evidente in Es 3,7 in cui si parla di miseria, grido, sofferenze, che il Signore ha veduto, ascoltato e conosciuto -  si dà il netto contrasto tra la posizione elevata dalla quale Dio guarda e la tapei,nwsij, la bassezza della dou,lh, la quale non è genericamente una serva, ma “la sua serva”, con un esplicito articolo determinativo che ne sottolinea la totale appartenenza. In termini ancor più chiari, il Signore si era espresso riguardo ad Israele, sempre nel contesto dell’Esodo e della missione affidata a Mosè: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito: Io ti avevo detto lascia partire il mio figlio perché mi serva! (Es 4,22s)”. Si noti questo intreccio tra figliolanza e servizio che esprime appartenenza e dipendenza incondizionata. In Lc 1,48 ricorre il termine dou,lh (cf anche 1,38), ma vi è implicito il senso di proprietà, come si può arguire dal v. 54 in cui si parla di Israele paido.j auvtou, evocante la figura del servo del Deuteroisaia. Questo titolo indica che

… il popolo è entrato… non solo alle dipendenze del Signore, ma nella sua intimità e nella sua fiducia, al punto di essere messo a conoscenza del suo disegno e di poter collaborare alla sua realizzazione. (17)

Già in questo primo emistichio del corpo del cantico si può scorgere una sintesi straordinaria della storia della salvezza ed un’immagine icastica del Dio d’Israele - già proclamato sinteticamente salvatore nel v. 47, prima che altri tratti dei versi seguenti ne sviluppino ulteriormente la fisionomia -: un Dio grande, che domina sul mondo e sulle sue vicende, che veglia con premura sul suo popolo e interviene con efficacia per liberarlo.

L’esperienza cantata dalla Vergine di Nazaret si colloca al vertice di una lunga tradizione di interventi liberatori di Dio nei confronti di singoli personaggi o della comunità in situazione di tapei,nwsij, come si legge in Gen 29,32, in riferimento a Lia, e nel sal 30 (LXX), in cui l’orante afferma di rallegrarsi - con lo stesso verbo avgallia,w presente nel nostro canto – a motivo dell’ e;leoj divino; c’è pure, ovviamente, il riferimento alla situazione di Anna, che nella sua preghiera così si rivolge al Signore: “’im ra’oh tir’eh, se davvero guarderai – col verbo ble,épw al futuro e con l’infinito costrutto (evpible,pwn evpible,yh|j) – alla tapei,nwsij della tua serva” (1Sam 1,11). Come si diceva, non si tratta di semplici interventi isolati, riguardanti questo o quel personaggio, ma di una costante dell’agire di Dio e di salvezza concernente tutto il popolo.

 E’ da tener presente – vi insistiamo - che i verbi con Dio soggetto sono all’aoristo, vale a dire al passato storico. Ancora una volta - come ha fatto per la liberazione dall’Egitto e in tante altre circostanze - il Signore si è chinato dall’alto, in vista di un intervento salvifico. Nel nostro caso, tuttavia, il Signore ha guardato alla sua serva, non in prospettiva di una liberazione futura, come in Es 3,7s (sono sceso per liberarlo): nel Magnificat la liberazione è già avvenuta, è un evento compiuto, celebrato nel canto, nell’esperienza liturgica della comunità. L’escatologia ha fatto ormai irruzione nella storia del mondo, compiendo le attese d’Israele proiettate – all’epoca del Nuovo Testamento -  in un futuro nel quale Yahwè avrebbe realizzato finalmente le promesse con un grandioso intervento dall’alto. Nel canto della Vergine tale speranza-tensione escatologica è chiaramente appagata, anche se con linguaggio e simbolismo ben diversi da quelli della tradizione apocalittica. Nei confronti dell’attesa veterotestamentaria e giudaica, l’evento cristiano – nonostante il genere letterario diverso - si presenta sotto il segno degli ultimi tempi e dunque di una salvezza realizzata.

Su questo sfondo, il v. 49 può proclamare: poiché il Potente ha fatto a me grandi cose…

Il Potente è il secondo titolo di Dio dopo quello di Salvatore, ma come quello è un appellativo eminentemente dinamico. I due titoli non si possono scindere: Dio salvatore è il potente, in quanto realizza efficacemente la salvezza: la sua forza è tutta al servizio della liberazione. Il significato, la portata di quell’aver guardato alla tapei,nwsij della sua serva, appare con evidenza nelle gesta compiute in suo favore. Le grandi cose, che si contrappongono alla tapei,nwsij, alla situazione di povertà esistenziale della serva, qualificano con efficacia il volto di Dio: un Dio forte, potente, capace di trasformare in esperienza di salvezza e di vittoria le condizioni di umiliazione del suo popolo.

Le grandi cose – le mega,la - sono importanti nella struttura e nel significato del canto, il quale si apre con il verbo megalu,nei che richiama appunto le mega,la compiute da Dio. Di fronte alle grandi cose che hanno trasformato radicalmente la sua esistenza, la serva riconosce e proclama la grandezza e la forza di Dio.

I due emistichi 48a e 49a (48b richiede un discorso a parte) sono dunque strettamente congiunti: lo sguardo del Signore è premessa e condizione del suo intervento: egli si lascia coinvolgere nelle vicende umane ed entra in azione dispiegando tutta la sua forza. Solo di fronte ad essa, allo strapotere del braccio divino i violenti recedono dalla loro tirannia sul mondo.

Si afferma spesso, e a ragione, che la prima parte del Magnificat si occupa quasi esclusivamente di misericordia, che in essa l’intervento di Dio riguarda solo i giusti ed i poveri, ma sullo sfondo è già evidente la lotta che si svolgerà contro gli oppressori, e ciò risalta non solo dal termine tapei,nwsij – che anticipa l’aggettivo tapeinou,j - dalla quale la serva viene liberata, ma in maniera ancora più netta dalla forza messa in atto dal Potente e dalle grandi cose da lui compiute a vantaggio della dou,lh.

Il termine dunato,j (in ebr. gibbôr), esprime l’eroe-guerriero; presenta pertanto una connotazione tipicamente militare e bellica, come è confermato da diversi testi veterotestamentari, in particolare dal Sal 24,8.10: “Yahwè forte e gibbôr, Yahwè gibbôr in battaglia… il Signore degli eserciti”.

Tale potenza divina si manifesta anzitutto nei fatti dell’esodo e nel passaggio del mare: “Quando i testi biblici ricordano al pio israelita la potenza di Dio alludono sempre al prodigio del Mar Rosso che coronò l’esodo dall’Egitto”. (18) E ciò viene confermato anche da diverse testimonianze del giudaismo postbiblico. (19)

E’ da notare che la potenza e forza di Dio è motivo biblico frequente, ma il titolo o` dunato,j applicato a Dio è eccezionale; con l’articolo si trova solo nel nostro testo e in Sof 3,17, che usa l’espressione particolarmente significativa gibbôr jôšîa‘. (20) Ciò significa che il nostro versetto è particolarmente importante per qualificare il volto di Dio come forte guerriero. E’ una conferma ulteriore del fatto generalmente acquisito che la collocazione di questo canto nell’attuale contesto non è originaria; è conferma anche che il contesto lucano intende presentare la venuta del Messia davidico Figlio di Dio come l’intervento supremo dalla potenza di Dio: “Egli sarà grande, sarà chiamato figlio dell’Altissimo… la potenza dell’Altissimo verrà su di te…” (Lc 1,32s.35).

In altri termini, quanto si verifica in Maria – che nella teologia di Lc 1-2 suppone l’evento pasquale di Cristo e la sua ricezione a livello di fede e di liturgia - viene descritto con i termini della grande liberazione dell’esodo, ma non è ad essa inferiore, anzi costituisce il compimento di quella salvezza iniziale che in Cristo attinge pienezza e nella parusia si manifesterà in tutta la sua efficacia. Il Dio cantato nel Magnificat è dotato di straordinaria potenza salvifica, come tutta la tradizione d’Israele ripete e come la personale esperienza della dou,lh conferma. 

Posto enfaticamente, in fine di riga e in posizione chiastica rispetto al soggetto sottinteso di evpe,bleyen, a conclusione di una sezione racchiusa entro i termini megalúu,nei- mega,ála, il titolo o` dunato,j acquista un rilievo notevole.

Esso appare in posizione strategica anche perché da una parte conclude la serie dei titoli divini (Ku,rioj, Qeo,j, Swth,r) e dall’altra introduce la descrizione dei tratti divini della santità e della misericordia. Inoltre o` dunato,j con evpoi,hse,n mega,la prepara la seconda parte del canto (vv. 51-55), la quale inizia con una formula quasi parallela: evpoi,hse,n kra,átoj.

La forza e potenza di Dio, già presente nel v. 49a, esplode infatti con eccezionale violenza nella seconda parte del cantico. Il Magnificat celebra anzitutto e direttamente l’intervento salvifico a favore della dou,lh e di Israele servo di Dio, ma l’azione divina si deve confrontare, in un caso come nell’altro, con forze ostili di oppressione e di morte.

Su questo sfondo si colloca, la frase quasi descrittiva e santo è il suo nome (v. 49b). Contrariamente a quanto potrebbe apparire, neppure questa è un’espressione astratta, né una definizione razionale di Dio. E’ noto infatti che il nome sta per la persona, e sappiamo ormai di quale potente personalità si tratta. La santità, per conseguenza - nel nostro contesto, come anche altrove –, è la radice profonda dello zelo che presiede alle azioni salvifiche di Dio. Il parallelismo più diretto per il nostro testo, rimane il canto del mare, ove troviamo un’esplicita associazione tra santità e intervento liberatore: “Chi è come te…, Signore? / chi è come te, / maestoso in santità,  tremendo nelle imprese, operatore di prodigi? (Es 15,11).

Nel Deuteroisaia il titolo caratteristico qedôš jisra’el è accompagnato da termini salvifici come go’el (21) e môšîa‘ (cf Is 43,3). Ciò rivela la stretta connessione tra la santità di Dio e la redenzione d’Israele che sono, per così dire, in rapporto di causa ed effetto.

Anche l’e;leoj che segue nel v. 50 – a conclusione della prima parte del cantico (22) - non è un semplice sentimento o atteggiamento interiore, ma una componente dinamica del Dio d’Israele, che sta alla base del rapporto con il suo popolo: per la misericordia nei suoi confronti – legata all’elezione e alla promessa – Dio interviene a salvarlo. Possiamo dire che tutti i comportamenti di Dio salvatore: il guardare alla povertà della serva, l’operare grandi cose sotto l’impulso della sua santità, dipendono dal suo atteggiamento di hesed verso Abramo e la sua discendenza (cf vv. 54-55). (23)

“Nel linguaggio religioso lo hesed di Dio indica sempre più il suo aiuto misericordioso, e una tale accezione… si esprime nella traduzione e;leoj”. (24) 

Trattandosi di un termine che ricorre con grande frequenza nei LXX, per lo più con Dio come autore, (25) non si può dire che e;leoj sia un vocabolo caratteristico dell’esodo. E’ vero, tuttavia, che tra l’e;leoj e i prodigi di Dio esiste un legame particolare. (26)

La salvezza è opera della sua misericordia, del suo amore e della  fedeltà verso Israele, nel ricordo del giuramento fatto ai Padri.

L’immagine divina emergente da questa prima parte del Magnificat è dunque tradizionale ed eminentemente positiva. Il canto della Vergine si pone sulla scia della grande storia e spiritualità d’Israele che celebra la salvezza di un Dio potente, santo e misericordioso.

Il Magnificat è stato diviso in molti modi. La struttura bipartita sembra la più logica, non a caso è quella oggi maggiormente condivisa. Qualunque divisione, tuttavia, deve prendere atto della forte unità del cantico e della sua continuità tematica. Tra la prima e la seconda parte si danno dunque accentuazioni più o meno marcate, ma nessuna frattura. Il Dio della prima parte, misericordioso e salvatore, è anche il Potente che non esita a compiere grandi cose sotto la spinta del suo zelo e della sua santità.

Nella seconda parte si sottolinea in maniera esplicita l’azione divina contro superbi ed oppressori, ma l’interesse principale verte – come nella prima parte – sui piccoli e gli affamati; e il canto si conclude con un riferimento ad Israele servo del Signore, oggetto della misericordia divina. Non si può quindi affermare in maniera riduttiva che la prima parte tratta della misericordia di Dio verso i poveri e la seconda della sua forza devastante contro i potenti. Sia la prima sia la seconda celebrano l’azione di Dio salvatore e liberatore, il quale indirettamente deve prendere posizione risoluta nei confronti degli oppressori del suo popolo.

Il v. 51 è da intendere in collegamento con il v. 49, e ciò conferma la continuità tra le due parti del cantico, dal punto di vista formale e del contenuto.

Ma tra i due versetti c’è anche opposizione: la medesima forza di Dio che compie  mega,ála, vale a dire prodigi di salvezza per la dou,lh, causa distruzione nei confronti degli operatori di ingiustizia. Ovviamente la salvezza non è mai un’operazione indolore: essa si confronta di necessità con la violenza degli oppressori. Per strappare le vittime dalle loro mani si richiede un’esplosione della forza di Dio. L’azione liberatrice comporta pertanto un aspetto drammatico e tragico, testimoniato da tutta la storia della salvezza, a partire dalla liberazione dall’Egitto, come appare fin dall’inizio della missione di Mosè:

Allora tu dirai al faraone: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio… Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire: Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!” (Es 4,22s).

L’ostinazione del faraone è irriducibile: resiste di fronte a nove spaventosi prodigi, e cede infine – temporaneamente (cf Es 14,5ss) - di fronte alla piaga della morte dei primogeniti (Es 12,29s). Solo allora (v. 31), costretto dall’immane tragedia, egli concede agli israeliti di abbandonare la sua terra e la condizione di schiavitù.

Ma la presentazione più efficace della liberazione d’Israele ad opera del braccio potente di Dio è contenuta nel c. 14 dell’Esodo. Neppure la morte dei primogeniti aveva fiaccato definitivamente la durezza del re d’Egitto. Egli insegue con un potente esercito e raggiunge i figli d’Israele accampati in riva al mare, non lasciando loro alcuna via di scampo. Di fronte a tanta ostinazione e a tale estrema minaccia, il Signore interviene direttamente per tutta una notte, operando mega,ála, cose portentose. Al termine del racconto di quella fatidica notte di salvezza per i figli d’Israele e di annientamento per l’esercito del faraone, il testo biblico annota:

In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani… Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto… Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore…

e segue il celebre canto del mare di Es 15,1-18. (27) Il motivo di questo inno di vittoria è ripreso ininterrottamente nella tradizione d’Israele, in particolare nei salmi che celebrano la liberazione dei poveri dalle mani dei loro oppressori. Esso costituisce  il tema dominante della fede e della pietà d’Israele che ad ogni Pasqua celebra i prodigiosi eventi del passato e rinnova la speranza di una salvezza futura ad opera dello stesso Signore operatore di cose grandiose.

(continua)

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Magnificat
Il Dio cantato da Maria,
serva del Signore
(seconda parte)
di Alberto Valentini

2. Dio dell’esodo e degli esodi

2.1. Il Dio dei Padri

Il Magnificat, nell’attuale contesto redazionale, è presentato come espressione dei sentimenti della Vergine, dopo la sconvolgente esperienza dell’annunciazione e dell’incipiente maternità, e quale risposta alle parole e agli elogi di Elisabetta.

Ma il linguaggio, lo stile e le prospettive del canto vanno ben al di là di quel pur importantissimo contesto, dal quale anzi potrebbe prescindere. Se infatti il Magnificat non ci fosse, il racconto in prosa non ne risentirebbe, anzi scorrerebbe con molta naturalezza. I racconti dell’infanzia sono stati per Luca un’occasione privilegiata per rileggere le origini della vita di Gesù, compimento della salvezza d’Israele, alla luce della storia passata - mediante cantici dal linguaggio arcaico e dalle cadenze veterotestamentarie -, nel contesto dell’evento pasquale ormai acquisito a livello di fede e di esperienza liturgica da parte delle comunità neotestamentarie, e nella prospettiva di un futuro di liberazione definitiva, di cui quel fatto decisivo costituisce pegno e primizia.

Il Magnificat si presenta, dunque, come memoria storico-liturgica della salvezza, come testimonianza concreta dell’evento pasquale di Cristo e della sua novità, come profezia di un futuro che ha già fatto irruzione nella storia e attende il suo definitivo compimento.

Luca che, soprattutto nei discorsi degli Atti, ama riproporre la storia biblica, interpretata alla luce della risurrezione di Gesù, inserendo nei racconti dell’infanzia cantici come il Magnificat ha inteso far memoria della salvezza d’Israele e mostrarne il compimento nel mistero pasquale di Cristo. In tale prospettiva, il canto della Vergine pur apparendo un salmo giudaico, intessuto di citazioni scritturistiche che ne fanno una sintesi particolarmente efficace della storia biblica, si presenta in realtà come celebrazione della liberazione di Dio in Cristo.

Maria, ovviamente, non può descrivere la sua situazione di serva del Signore, riscattata dalla condizione di povertà, senza riferirsi all’esperienza spirituale d’Israele.

I sentimenti che ella esprime caratterizzano la pietà giudaica più pura; ella parla come perfetta rappresentante del suo popolo, come testimone dell’amore e della fedeltà di Dio alla discendenza di Abramo suo amico. (32)

Il salmo proclamato dalla Vergine deriva da una comunità imbevuta di spiritualità biblica, che prega con le categorie tradizionali della pietà d’Israele. E’ il canto di una donna che celebra la propria esperienza salvifica sullo sfondo del suo popolo; è il canto di un popolo che rilegge la sua storia, alla luce dell’esperienza eccezionale di una donna.

Da questo brano emerge icastico il volto del Dio dei Padri: non delineato in astratto, ma plasmato alla luce della chiamata, della promessa, dell’elezione, da cui scaturiscono la liberazione e l’alleanza. In altri termini, il Magnificat ripropone la storia di Dio che viene ad abitare in mezzo a un popolo, si lega ad esso in maniera unilaterale e gratuita, e se ne prende cura con eterno amore e fedeltà. Un Dio che Israele impara a conoscere dalle sue azioni; al quale il popolo e le singole persone sanno di appartenere e sul quale poggia tutta la loro storia. È notevole, da questo punto di vista, la serie dei pronomi e aggettivi personali e possessivi che denotano il rapporto di reciproca appartenenza: mio salvatore (v. 47); la sua serva (v. 48); a me (v. 49); Israele suo servo (v. 54).

Un Dio dunque personale, impegnato in maniera attiva e dialogica con il suo popolo: pronto ad ascoltarne la voce e ad intervenire per salvarlo.


2.2. Il Dio del Signore Gesù Cristo

Il Magnificat celebra il Dio dei Padri e della storia d’Israele, ma più ancora il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

Il cantico non è un semplice salmo giudaico: sotto il linguaggio e le categorie antiche si nasconde la novità della salvezza messianica. Non solo perché la figura alla quale è attribuito appartiene al Nuovo Testamento - che si inaugura proprio con l’annunciazione, il dono dello Spirito e la risposta di fede della serva del Signore -, ma perché il testo stesso del Magnificat rivela il compimento della speranza messianica e l’irruzione dei tempi nuovi. I verbi, come si è detto, sono tutti al passato storico, a testimonianza di fatti compiuti.

Il Dio salvatore è ormai Gesù, com’è annunciato a Maria (Lc 1,31) e ai pastori (2,11), e proclamato da Simeone che vede in lui la salvezza di Dio (2,30).

Certo, il Magnificat usa il linguaggio dell’Antico Testamento, ma ormai ogni parola ed evento dev’essere compreso alla luce della Pasqua, come lo stesso Gesù insegna ai discepoli di Emmaus, e come fanno puntualmente i discorsi degli Atti. Si tratta dunque di rileggere il nostro canto alla luce della risurrezione di Cristo Signore.

E qui si pongono i problemi del rapporto del Magnificat con il suo contesto immediato e remoto, dell’autore, dell’ambiente d’origine. Come la critica contemporanea quasi concordemente riconosce, il Magnificat sarebbe sorto in una comunità giudeo-cristiana delle origini, ancora imbevuta di spiritualità veterotestamentaria, riletta ormai alla luce del compimento neotestamentario.

Esso costituisce il canto della comunità cristiana, dell’Israele di Dio che finalmente può celebrare la salvezza escatologica che ha fatto irruzione nella storia. In tale ambito si spiega bene l’esaltazione di Dio per le grandi cose da lui compiute e la “grande gioia” recata al mondo da Cristo Salvatore. Quel swth,r di Lc 1,47 si riferisce chiaramente a Dio, ma non si può dimenticare che nei racconti dell’infanzia - che costituiscono l’attuale contesto redazionale del Magnificat - swth,r è il Messia-Signore.

La preghiera del Magnificat è il canto dei poveri, i quali – come Maria, Elisabetta, Zaccaria, Simeone ed Anna – attendevano la consolazione d’Israele (cf Lc 2,25.38) ed ora si rallegrano perché Dio ha visitato e redento il suo popolo (cf Lc 1,68), perché i loro occhi finalmente hanno contemplato la salvezza (cf Lc 2,30). Il Signore ha guardato alla loro povertà e ha fatto per loro grandi cose, ha suscitato una salvezza potente (o un salvatore potente) nella casa di Davide suo servo (cf Lc 1,69). In tal modo, Dio ha manifestato la sua santità e fedeltà con una misericordia senza fine verso tutti coloro che lo temono. Questi timorati ovviamente fanno parte dei poveri che attendevano la liberazione e sono stati visitati da Dio, ma adombrano anche tutti i poveri del futuro che aspettano la rivelazione della salvezza in Cristo. La comunità cristiana di Gerusalemme, anche se composta in origine esclusivamente di membri provenienti dalla circoncisione, si apre lentamente e decisamente al mondo, come appare con particolare evidenza nel libro degli Atti, e fa spazio a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero.

La salvezza, che in passato era liberazione da nemici politici e dominatori violenti, senza perdere nulla della concretezza sociale e storica, acquista una dimensione più vasta e profonda, includendo lo stesso “peccato del mondo” e tutte le forze del male dalle quali Cristo è venuto a liberare il suo popolo.

L’Israele di Dio, soccorso e salvato dall’opera di Cristo-Signore, comprende ormai indistintamente giudei e gentili, tutti coloro che ascoltano il profetapromesso e inviato: soltanto chi “non ascolterà quel profeta sarà radiato dal popolo di Dio” (At 3,23). Questi sono ormai “i figli dei profeti e dell’alleanza che Dio stabilì con i Padri, quando disse ad Abramo: “Nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra”” (At 3,25).

Alla liberazione antica è succeduta la redenzione di Cristo Signore, al popolo discendente dalla carne di Abramo ha fatto seguito il popolo della promessa e della fede del patriarca. Questa è la salvezza cantata dalla Vergine di Nazaret, nella prospettiva di Luca.

undefined Meraviglia il fatto che in questo canto - collocato dopo l’annunciazione e in risposta agli elogi di Elisabetta che ha salutato Maria come madre del Signore - non ci sia nessun accenno esplicito alla futura nascita del Messia promesso, come del resto avviene nella prima parte del Benedictus, riguardo al figlio di Zaccaria. Il Magnificat – come il salmo del Benedictus (vv. 68-75)- è un canto arcaico di liberazione. Ciò significa anzitutto che il suo ambiente d’origine non era questo, come si è detto; significa anche, però, che Luca inserendo il Magnificat in un contesto teologico particolarmente sviluppato, come quello dei racconti dell’infanzia ha inteso comprenderlo su tale sfondo. Per conseguenza già nella nascita del Messia davidico, nella venuta di Dio nella nostra storia (“egli sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo” [Lc 1,32]; egli salverà il suo popolo dai suoi peccati [cf Mt 1,21; cf Lc 1,77]) l’evangelista anticipa la vittoria di Cristo. Alla luce della Pasqua (cf Rm 1,4) anche la nascita storica del Figlio di Dio acquista un enorme significato salvifico. Ed essendo la Vergine di Nazaret direttamente e a nome di tutti coinvolta in tale evento, nessuno meglio di lei poteva esprimerne la valenza e la densità salvifica. Ma nel suo canto non c’è nulla che si riferisca direttamente alla futura nascita di un debole bambino. Il canto di Maria celebra la vittoria del Messia-Signore.

3. Il Dio dei poveri cantato da una donna

Il Magnificat dischiude il volto del Dio salvatore, Dio dei Padri e del Signore Gesù Cristo, ma rivela anche – per conseguenza - il volto dei poveri, oggetto del suo intervento salvifico. Lo ha ben sottolineato Giovanni Paolo II nella Redemptoris Mater:

Il suo amore di preferenza per i poveri è iscritto mirabilmente nel Magnificatdi Maria. Il Dio dell’Alleanza, cantato… dalla Vergine di Nazaret, è insieme colui che “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, … ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote, …disperde i superbi. … e conserva la sua misericordia per coloro che lo temono”. Maria è profondamente permeata dello spirito dei “poveri del Signore”. … Attingendo dal cuore di Maria, dalla profondità della sua fede, espressa nelle parole del Magnificat, la Chiesa rinnova sempre meglio in sé la consapevolezza che non si può separare la verità su Dio che salva…dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili, il quale, cantato nel Magnificat, si trova poi espresso nelle parole e nelle opere di Gesù (RM 37).

I poveri, nell’ottica del Magnificat, rappresentano il popolo di Dio lungamente oppresso dai nemici e finalmente visitato dal Signore con una salvezza definitiva. Essi non soltanto sono stati liberati dai loro oppressori, ma sono stati esaltati ed hanno assistito alla rovina di coloro che li calpestavano. Il canto parla di una rivoluzione operata dalla potenza di Dio salvatore che umilia i potenti ed innalza i deboli. E’ questo un atteggiamento costante del Dio biblico – e in tale contesto va compreso il ricorrente Giubileo –: ristabilire la giustizia, ripristinare il progetto originario di Dio secondo il quale tutti hanno pari ed inviolabile dignità, e mantenere le promesse di libertà assicurate al suo popolo. Ristabilendo la giustizia, egli innalza tutti gli ‘anijîm, gli oppressi del paese ed umilia coloro che con empia arroganza avevano insidiato la sovranità unica di Dio e i diritti dei poveri.

Possiamo domandarci perché tale canto di liberazione e di esaltazione sia stato intonato da Maria, la vergine di Nazaret. Certamente per il suo diretto coinvolgimento nel mistero della salvezza messianica; ma possiamo ulteriormente domandarci perché una donna umile e povera sia stata coinvolta in tale mistero.

Questo è avvenuto non solo perché la donna è sempre associata, fin dalle origini, alla salvezza di Dio; non solo perché donne illustri hanno cantato e contribuito alla salvezza (si pensi in particolare a Miriam, Debora, soprattutto Giuditta, sulla cui vicenda appare modellata la scena della visitazione), ma anche e soprattutto perché Maria, in base al vangelo dell’infanzia di Luca, è una donna in tutta la sua radicale povertà: vergine, serva, persona del tutto insignificante agli occhi del mondo. L’evangelista dei poveri, degli stranieri, degli ultimi, delle donne…, ha scorto in questa sconosciuta ragazza di Nazaret - che agli occhi di Dio è la kecaritwme,éhe – il tipo ideale della povertà biblica sulla quale si china il Signore per operare grandi cose. Ella è agli antipodi di ogni forma di autosufficienza e arroganza nei confronti di Dio e totalmente aliena da ogni tipo di oppressione. Maria è la povera, interamente aperta alla misericordia di Dio e all’umana solidarietà.

Luca ha visto in lei il vertice di quella lunga processione di poveri del Signore che costituiscono il resto d’Israele, la porzione santa, la radice benedetta portatrice della promessa e della salvezza escatologica.

Giustamente il Concilio Vaticano II la presenta come la povera per eccellenza e l’eccelsa figlia di Sion nella quale si compie finalmente la promessa di Dio:

Ella primeggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza. E infine con lei, eccelsa Figlia di Sion, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura una nuova economia, quando ilo Figlio di Dio assunse da lei la natura umana…

In una comunità di poveri nasce dunque il Messia salvatore; in una comunità di poveri, qual è la primitiva comunità gerosolimitana, si celebra la salvezza di Dio, alla quale Maria di Nazaret ha offerto tutta la sua umana e spirituale collaborazione; in una comunità giudeo-cristiana di poveri – quale emerge dai racconti dell’infanzia di Luca - Maria viene presentata come tipo ideale della novità neotestamentaria. Sulla scia di questa umile serva, che ha accolto nella sua vita l’azione di Dio salvatore – del Dio potente, santo e misericordioso –, tutti coloro che lo temono, i poveri e gli oppressi, Israele servo di Dio e discendenza di Abramo, riceveranno sempre la salvezza. L’Antico Testamento si apre con un uomo di fede, tratto per pura grazia dalla lontana Ur dei pagani; la nuova alleanza si inaugura con la fede di una donna, anzi di una fanciulla vergine e povera di un’emarginata contrada della “Galilea delle genti”. Per la sua fede Abramo fu benedetto con il figlio della promessa e con una discendenza innumerevole, per la sua fede Maria è benedetta con il discendente primogenito della nuova creazione e di una moltitudine sterminata di fratelli. Con l’Antico Testamento erano accadute cose nuove e grandi prodigi nella storia del mondo; con il Nuovo Testamento la rivoluzione di Dio attinge gli estremi sviluppi. Tutto però ricomincia con una donna che diventa il paradigma della salvezza di Dio.

La rivoluzione di Dio, il capovolgimento di situazione, appare con grande evidenza nei poderosi versi 52-53. Luca però ha voluto aggiungere di sua mano un versetto che costituisce il vertice impensato di tale trasformazione operata da Dio salvatore. E’ noto dalla storia della salvezza e dai salmi che la lode-celebrazione di Dio è connessa e in qualche modo si fonde con l’esaltazione del giusto e della comunità, (33) ma un’espressione profetica di sconfinate prospettive come il v. 48b risulta una novità eccezionale, che sottolinea la singolarità della figura di Maria, ma anche la sua esemplarità e tipicità nei confronti di tutti i poveri ed i giusti che costituiscono il vero Israele di Dio. Nell’esperienza di umiltà e di esaltazione di questa donna c’è la speranza e la rivalutazione di tutti i poveri, in particolare di tutte le donne. E non si tratta di un semplice capovolgimento di situazione, ma di una glorificazione che coinvolge tutte le generazioni di ogni tempo e di ogni luogo. (34)

Il Magnificat rivela dunque la salvezza di Dio, rivolta ai poveri, capofila dei quali è una donna, sulla cui esperienza si configura ormai il progetto salvifico di Dio per il mondo. La lezione del Magnificat è emblematica per il Nuovo Testamento e per la chiesa di ogni tempo, popolo di poveri, salvato ed esaltato dal Signore. Di tale logica divina Maria di Nazaret è concreta e convincente testimonianza.

La verità su Dio implica la verità e uno sguardo nuovo sui poveri. La donna di Nazaret è in grado di rivelarci il volto di misericordia del Dio salvatore e il volto dei poveri destinatari delle grandi cose, della rivoluzione della salvezza, che egli incessantemente opera nella storia.

4. Il Dio del “già e non ancora”

La serie degli aoristi indicanti potenti interventi di Dio, la trasformazione della condizione dei poveri e soprattutto l’esaltazione di questi ultimi ad immagine di Maria cozza violentemente con la situazione tragica del mondo, codificata in maniera netta dalle profetiche parole di Gesù: “i poveri li avrete sempre con voi” (Gv 12,8).

Ma allora il Magnificat è da considerarsi un canto destoricizzato, una magnanima utopia, la vaga e idealizzata aspirazione ad un mondo migliore non realizzabile entro i confini del tempo? Che sia tutto una tragica illusione?

Che senso ha ripetere ogni giorno questo canto di vittoria quando ci dibattiamo con forme sempre nuove di povertà e spaventose sofferenze?

Il Magnificat, canto giudeo-cristiano, carico di storia antica e nuova, continua a ribadire il compimento delle promesse di Dio (cf v. 55); a testimoniare la venuta del Messia davidico (Lc 1,32), Figlio di Dio (v. 35) e Salvatore (cf Mt 2,11.21); a celebrare, l’evento decisivo che ha portato la grande gioia a tutto il popolo (cf Lc 2,10).

Effettivamente, con la sua venuta e con la sua opera, culminata nella Pasqua, Dio “ha visitato e redento il suo popolo” (Lc 1,68), realizzando le promesse (v. 55.70), ricordandosi della sua alleanza, del giuramento fatto ad Abramo nostro padre (vv. 72-73). Cristo Gesù è il delle promesse di Dio (cf 2Cor 1,19ss) in parte realizzate con la sua venuta, mentre altre attendono il pieno compimento al suo ritorno. (35) Alla prima venuta di Cristo, che ha redento la nostra storia, ne seguirà infatti una seconda, nella quale l’umanità e il mondo entreranno nella piena libertà dei figli di Dio. Tra la prima e la seconda apparizione del Signore si colloca il tempo della Chiesa che cammina nel “già e non ancora” della salvezza.

Ma come la Chiesa - che procede “fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (36) - deve vivere e cantare il Magnificat?

Innanzitutto in atteggiamento di fede in un evento decisivo, storicamente compiuto: l’evento-Cristo, che resta il centro della storia e ha dato senso nuovo a tutte le cose. In lui ha fatto ingresso nel mondo la rivoluzione del Regno, che ha trasformato ogni realtà secondo il progetto di Dio. Questo fatto è più forte di tutte le prove e le tentazioni del male. “Già è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi” (cf 1Cor 10,11) e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata e in certo modo anticipata nella storia. (37)

Ma la salvezza non è ancora definitiva né per noi né per il creato che porta ancora le vestigia della caducità e del peccato:

Fino a che non vi saranno nuovi cieli e nuova terra, nei quali la giustizia ha la sua dimora” (cf 2Pt 3,13), la Chiesa peregrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni... porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cf Rm 8,19-22). (38)

Il Magnificat è un canto di redenzione: senza l’esperienza della salvezza non si spiegano le sue parole né la gioia che lo pervade.

Al tempo stesso è un canto di speranza: i redenti dal Signore attendono ancora la piena manifestazione della gloria di Dio.

E’ anche un canto di impegno e di responsabilità - canta e cammina! esorta Agostino - perché si affretti l’ora, nella quale la giustizia di Dio regni pienamente sulla terra e la sua salvezza abbracci tutte le dimensioni del tempo e dello spazio.

Il Magnificat è una contestazione radicale del regno delle tenebre sconfitto dall’opera del Salvatore e ormai senza futuro, anche se il male continua a insidiare i progetti di Dio e il cammino del suo popolo.

E’ compito dei credenti illuminare con questo canto la verità su Dio e sui suoi disegni, smascherare e rendere vane le trame di potenti, ricchi ed oppressori. Non è una lotta impari col mondo dell’iniquità: il Signore non permetterà che i “superbi” continuino ad opprimere senza fine il suo popolo. Egli, che ha guardato l’“umiltà” della Vergine Maria e per lei ha operato grandi cose, è il medesimo che oggi soccorre “Israele suo servo”, per l’eterna misericordia verso Abramo e la sua discendenza.

Il Magnificat canto storico ed escatologico illumina con efficacia il volto di Dio salvatore, il Dio che ricorda le promesse fatte ai Padri e in Cristo ha rinnovato tutte le cose. Il mondo, pur presentandosi ancora lacerato dalla violenza e dal peccato, è irreversibilmente redento. Come la donna di Apocalisse (cf Ap 12), la nostra terra è nella tribolazione degli ultimi tempi, ma porta in sé evidenti i segni della risurrezione e della gloria.

(fine)



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