Formazione Religiosa

Mercoledì, 01 Maggio 2019 19:16

Il fine vita. Umanizzare il morire umano (Cataldo Zuccaro)

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L’evento della morte fa parte dell’esperienza del vivere. E’ perciò molto significativo recuperare l’evento del morire dentro il processo del vivere: l’uomo che sta morendo in realtà sta vivendo, è lui il protagonista. Ciò vuol dire che ciascuno può intervenire sulla propria morte. Come?

Quanti modi ci sono per morire? La risposta a questa domanda può essere semplice o complessa. Infatti, se ci fermiamo a considerare l'esito della morte, non vi sono dubbi che non si dà alcuna differenza tra coloro che sono morti. Quando diciamo che una persona è morta ci riferiamo a uno stato che è rappresentato dalla comune evidenza del cadavere. Se, invece, ci riferiamo al modo con cui la persona giunge alla morte, cioè al processo individuale del morire, allora ci accorgiamo che tale esperienza è strettamente personale, nonostante la possibilità di qualche analogia.

Dal naturale all'artificiale

In particolare, a causa di strumenti sempre più sofisticati che sono capaci di prolungare la vita che si trova in condizione di estrema precarietà e che è ormai giunta alla fine, oggi è entrata nel linguaggio comune la necessità di distinguere il "morire naturale" dal "morire artificiale". La vita negli stati di confine, cioè, è diventata sempre più sfumata. Sembra che l'evidenza della morte, così come molti di noi ricordano in un passato recente, sia svanita. Non è raro imbattersi in espressioni come: «Lasciatelo morire in pace», oppure: «Dottore, faccia del tutto per salvarlo». Cosa vuol dire? O meglio cosa vogliamo dire?
Intanto, mi pare che già dall'inizio non dobbiamo pensare alla morte naturale come una realtà che necessariamente sia in contrasto con l'uso di alcune macchine artificiali nel percorso che conduce la persona all'esito finale. Il ricovero in ospedale, cioè, il ricorso alla medicina e a eventuali apparecchiature, può entrare nel processo naturale del morire se si pone come autentica interpretazione e conseguente aiuto di quel processo. Insomma, non è detto che chi muore a casa viva necessariamente un'esperienza più umana della morte rispetto a chi muore in ospedale. Sullo sfondo di questa prospettiva occorre leggere in modo corretto il significato di natura e naturale applicato alla persona, significato che continua ad essere sempre valido. Questa preoccupazione permette sia di superare la riduzione della persona alla sola realtà biologica, sia di evitare che tra natura e strumenti tecnici ci sia una distanza incolmabile.
La mancanza di una giusta prospettiva, in questo campo, inevitabilmente conduce a due conclusioni apparentemente opposte, ma aventi la medesima radice.

  1. Da un lato si può cadere nell'errata convinzione che è impossibile intervenire sulla vita terminale fino a quando batte il cuore e pulsano i polmoni. Si tratta del vitalismo, cioè della caparbietà di mantenere la vita fisica ad ogni costo, anche a prezzo del bene della stessa persona.
  2. Dall'altro lato, si potrebbe cedere alla tentazione di un abbandono terapeutico, rifiutando alcuni interventi tecnici e medici capaci di risolvere una crisi acuta o almeno di accompagnare il processo del morire sottraendolo per quanto possibile alla sofferenza fisica che spesso lo caratterizza.

Tra antropologia ed etica

Per avere un atteggiamento corretto nei confronti del morire occorre cercare, per quanto possibile, di avvicinarne il mistero e comprenderne la natura. Il pensiero filosofico sulla morte, dall'inizio e praticamente fino a oggi, si è disposto su due linee opposte. Da una parte la concezione della morte come una realtà che l'uomo subisce, in quanto essa lo aggredisce dall'esterno. Dall'altra la convinzione che la morte - meglio, il morire - venga vissuto dalla persona come un'azione che porta a compimento la sua vita non solo in termini cronologici, ma anche come pienezza di significato. In realtà ambedue le prospettive appartengono al processo del morire e hanno le loro conseguenze dal punto di vista antropologico ed etico.
In particolare mi sembra significativo il fatto di recuperare l'evento del morire dentro il processo del vivere, come un'azione che si pone dentro il terreno dell'esperienza di un vivente. In questo senso, morire è di fatto vivere la propria morte. L'uomo che sta vivendo, in realtà sta morendo, cioè si sta avvicinando irrimediabilmente ogni giorno verso il suo esito finale. Analogamente, l'uomo che sta morendo, in realtà sta vivendo, poiché è lui il protagonista indiscusso di questo ultimo tratto di vita e nessuno può sostituirlo in questa esperienza. Mi sembra importante recuperare il morire dentro l'esperienza della vita, contro una tendenza che spesso considera la morte come una pornografia da evitare ed eclissare il più possibile nel mondo dei vivi.

La decisione e conseguenze

Proprio in quanto evento che determina il compimento della vita, il morire umano si trova al crocevia di una serie di decisioni di capitale importanza, da parte del morente, della sua famiglia, del medico e delle istituzioni.


1 L'eutanasia. Una possibile decisione nei confronti del morire è quella dell'eutanasia, definita dalla Congregazione per la dottrina della fede come «un'azione o un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati» (Iura et bona, 5.5.1980, 11).
Come sappiamo, infatti, la ragione più frequente che determina la domanda di eutanasia è proprio l'eliminazione del dolore. Il problema è reale se si pensa alle sofferenze fisiche e psicologiche che possono accompagnare gli ultimi momenti della vita. Talvolta, specie in ambito cristiano, corriamo il rischio di una sorta di "idolatria della croce" quando enfatizziamo un simbolo che non è sostenuto dal crocifisso.
È Gesù crocifisso per amore che dà valore alla sofferenza e non viceversa. Se pertanto è lecito il desiderio di vivere con lucidità la sofferenza per unirsi all'amore di Gesù, è altrettanto lecito lottare contro il dolore e vincerlo, là dove questo è possibile. Perciò occorre prendere sul serio la medicina del dolore che riesce a trovare risposte sempre più mirate alle diverse forme della sofferenza fisica. Tuttavia, altro è usare delle terapie per eliminare il dolore, altro è usare la morte per risolvere lo stesso problema. L'eutanasia già sotto il profilo logico è un errore perché il piano della risposta (la morte) è diverso da quello della domanda (eliminare il dolore), che invece può ottenere delle risposte specifiche.
Ma anche sotto il profilo religioso o teologico si può capire come l'eutanasia sia da ritenersi illecita. Infatti, l'atto eutanasico di fatto, al di là delle buone intenzioni, si manifesta come il rifiuto d'interpretare la condizione terminale o di estrema sofferenza della vita secondo il riferimento alla volontà di Dio, storicamente mostrata nella vita e nella morte di Gesù. Dico interpretare con il preciso scopo di evitare un'accettazione passiva e vitalistica della vita e della morte, ma anche di evitare la sostituzione surrettizia della vita. L'eutanasia, infatti, ci impedisce di vivere in pienezza la nostra vita perché ci priva della possibilità di vivere la nostra morte.
Quando si dice che solo Dio è il Signore assoluto della vita e della morte, si dice il vero. Ma questa affermazione non va intesa come se l'uomo fosse privato della sua responsabilità circa il vivere e il morire. La vita e la morte sono affidate alle mani dell'uomo, ma su un piano che è diverso da quello del creatore. La giusta affermazione della signoria di Dio sulla vita e sulla morte non deve far dimenticare che proprio il creatore chiede all'uomo la responsabilità d'interpretare in modo umano, cioè in libertà e consapevolezza, il suo vivere e il suo morire. L'eutanasia è una scorciatoia che abbandona la difficile via di interpretare umanamente la volontà di Dio. Ogni esistenza umana nasce, cresce, muore in un quadro particolare di circostanze, talvolta difficili o drammatiche, che tuttavia hanno un senso da scoprire e realizzare. Negarne l'esistenza è rinunciare a cercare e a vivere.

2 L'accanimento terapeutico e la responsabilità del medico. All' opposto dell'eutanasia, almeno apparentemente, si pone la decisione dell'accanimento terapeutico. Esso si configura come l'ostinazione a "mantenere in vita" il malato terminale quando ormai nessun protocollo terapeutico è utile a raggiungere lo scopo della guarigione. Di fatto, si finisce per sacrificare il bene della persona alla ricerca scientifica della sperimentazione di nuovi protocolli o almeno d'imporre alla persona dei sacrifici assolutamente ingiustificati, una volta verificata l'inefficacia dei trattamenti medici.
Alle radici dell'accanimento troviamo ancora una volta la negazione della vita umana per quello che è, una vita mortale. Ciò che la logica dell'accanimento è incapace di accettare è che l'evento della morte fa parte dell'esperienza del vivere. E quando non ci si può prendere più cura della guarigione della persona, allora occorre prendersi cura della sua morte secondo una logica che va oltre l'eutanasia e l'accanimento e che comunemente viene chiamata con il termine accompagnamento terapeutico.
La decisione di determinare la soglia oltre la quale l'impiego delle terapie diventa accanimento e la loro sospensione si configura come "eutanasia passiva" chiama in causa soprattutto la responsabilità del medico. Egli deve aiutare la famiglia a decifrare la domanda che spesso gli rivolgono: "Faccia del tutto per salvarlo". Soprattutto sono chiamati a discernere se in determinate situazioni il ricorso alla rianimazione si configuri come un atto di accanimento, oppure la sua rinuncia come un atto di eutanasia. Naturalmente anche il medico possiede le sue personali convinzioni morali. Là dove si danno le condizioni, io credo che occorra esercitare serenamente e fruttuosamente il dialogo con la famiglia, per raggiungere una soluzione il più possibile vicina alla verità del bene della persona.

3 Autodeterminazione. Se, come abbiamo visto, il morire è un atto del vivente, allora è necessario interrogarsi sulla possibilità che ciascuno ha d'intervenire sulla propria morte. Il morire, al crocevia delle decisioni, riguarda prima di tutto il morente. In questo ambito si pone il delicato capitolo delle "direttive anticipate sulla propria morte", nella variegata gamma delle diverse nomenclature.
L'attualità del problema rende difficile dare ragione di ogni aspetto; mi limito a segnalare solo alcune radici culturali ed etiche del tema, con l'attenzione a quanto detto fino ad ora. Innanzitutto va sottolineata l'istanza di autonomia che sta alla base delle diverse formulazioni di direttive anticipate sulla propria morte. Se, come abbiamo detto, il morire è un atto del vivente, allora è giusto che il morente rivendichi la responsabilità di questo evento contro ogni tentativo di espropriazione da parte della medicina oppure della legge. Pertanto, sono convinto che sia legittimo e moralmente corretto chiedere il rifiuto di ogni forma di accanimento terapeutico per i motivi sopra esaminati. Tale rifiuto, tuttavia, non può significare l'accettazione di una logica eutanasica, che è parimenti inaccettabile sotto il profilo della moralità oggettiva.
Quanto appena detto ci aiuta a capire che però non ogni affermazione di autonomia da parte del soggetto può diventare obbligante per gli altri. Infatti, non esiste un'autonomia senza relazione, senza, cioè, che la persona si apra al confronto con l'altro. E soltanto dalla capacità di relazione che scaturisce il significato autenticamente umano della libertà. L'impressione, al contrario, è che il mantra dell'autodeterminazione da parte del soggetto venga oggi affermato e ripetuto come una litania, ma senza l'attenzione al confronto circa la verità del giudizio della coscienza. L'autonomia e la libertà, infatti, non vengono mai affermate in modo astratto, ma sempre in riferimento a valori morali concreti e all'interno di circostanze particolari. Tutto questo deve rendere estremamente cauti nel formulare in modo frettoloso giudizi aprioristici di approvazione o di rifiuto delle diverse proposte di direttive anticipate sulla propria morte.
Un'ultima osservazione riguarda la possibilità di decidere nunc pro tunc, cioè di decidere ora quello che avverrà in futuro, come succede nelle diverse forme di dichiarazione anticipata sulla propria morte. A nessuno sfugge il fatto che una decisione di coscienza, presa quando la persona si trova in uno stato di buona salute, potrebbe non avere lo stesso significato quando il medesimo soggetto si trovasse in condizioni di salute diverse. D'altra parte, tuttavia, non possiamo nemmeno escludere che ci siano delle decisioni irrevocabili circa la propria vita. Decisioni, cioè, che la persona attua in un tempo particolare e a cui si vincola per tutta la vita futura. Si pensi, per esempio, alla decisione del matrimonio indissolubile o a quella della vita consacrata nel presbiterato. Ambedue gli aspetti vanno tenuti presenti nel caso delle dichiarazioni anticipate di volontà circa la propria morte.
Alla fine del nostro breve percorso forse il lettore si sarà reso conto che esistono delle linee di demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sotto il profilo morale. Ma l'esistenza di questa netta differenza non può essere percepita se non all'interno del chiaroscuro della storia.

Cataldo Zuccaro

Bibliografia

Zuccaro C., Il morire umano. Un invito alla teologia morale, Queriniana 2002, Brescia; Morin E., L'uomo e la morte, Meltemi 2002, Roma;
Fabrizio T., Le dichiarazioni anticipate di trattamento. Un testamento per la vita, Fondazione Lanza 2006, Padova;
Bompiani A., Dichiarazioni anticipate di trattamento ed eutanasia. Rassegna del dibattito bioetico, Edb 2008, Bologna.


(da Vita Pastorale, anno 2011, n. 10, p. 82)

 

Letto 1172 volte Ultima modifica il Mercoledì, 01 Maggio 2019 20:58
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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