Formazione Religiosa

Mercoledì, 05 Aprile 2017 01:42

Il sacerdozio dei fedeli e il problema del «Frühkatholizismus» (Mauro Pesce)

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I mutamenti verificatisi nella chiesa primitiva col finire dell'età apostolica sono stati compresi dalla storiografia protestante sotto il termine di «Frühkatholizismus» (Protocattolicesimo), assegnando per lo più ad esso la valenza negativa di una modifica o deformazione delle origini.

Un riesame della questione, di rilevante interesse ecumenico, è stato avviato da un gruppo di ricerca costituitosi in Germania nel 1979 e composto di esegeti e patrologi sia protestanti che cattolici.
(...). In effetti la categoria del «sacerdozio» non rappresenta un punto di riferimento decisivo per Gesù o per gli apostoli e predicatori primitivi. Tuttavia, già nel NT essa viene applicata sia a Cristo che alla chiesa, per reazione alla prassi sacerdotale ebraica, radicalmente superata dall'evento cristiano, o per significare la nuova realtà del popolo di Dio tra le genti Entrambi gli aspetti contengono ancora oggi importanti elementi di attualità.

 


Il formarsi di una concezione del sacerdozio nella chiesa antica è uno di quei fenomeni che vanno compresi nel quadro dei molteplici processi di sviluppo e modificazione successivi all’età apostolica. Sia la ricostruzione che la valutazione dei mutamenti avvenuti nel periodo post-apostolico sono tuttavia ampiamente controverse tra storici e teologi cosicché è opportuno delineare sinteticamente i problemi.

I. I mutamenti successivi all'età apostolica e la loro valutazione

1. È stata soprattutto la storiografia protestante di lingua tedesca del XIX e XX secolo che ha posto in un rilievo particolare gli sviluppi e le modificazioni sostanziali che la chiesa ha conosciuto nel periodo compreso tra la fine dell'età apostolica e la definitiva formazione dell'assetto della chiesa antica nel IV secolo. (1) È in questo periodo - successivo alle origini - che verrebbero formandosi diverse caratteristiche fondamentali della grande chiesa: la costituzione di un ministero e gerarchia ecclesiastica che ha il suo fulcro nei ministeri locali (i vescovi) e regionali; la scomparsa dell'elemento carismatico caratteristico delle comunità, come anche di una pluralità di funzioni carismatiche (cf. ad es. i profeti); il dogma come criterio della fede; una certa ellenizzazione del cristianesimo e la fine o marginalizzazione definitiva del giudeo-cristianesimo; il progressivo attenuarsi dell'attesa dell'imminente parusia; lo spostamento del centro geografico dell'autorità da Gerusalemme a Roma; lo sviluppo sacramentale; la tendenza all'unitarietà nei principali clementi della liturgia; la formazione di una morale cristiana; il tentativo della chiesa di essere riconosciuta come religione di fronte allo stato.
È merito indiscutibile degli storici protestanti avere posto in chiaro che alcuni elementi della organizzazione della chiesa antica sono frutto di uno sviluppo e di una modificazione rispetto al cristianesimo originario che presentava ben diverse caratteristiche. Ampiamente discutibile è invece la valutazione di questo dato di fatto. Due sono i problemi principali: a) si tratta di sviluppi necessari, o invece legittimi, anzi solo di alcuni fra quelli possibili oppure, addirittura, di deformazioni e tradimenti dell'autenticità originaria, che rimane il criterio normativo di ciò che può essere considerato «cristiano»? b) con quali criteri si può giudicare se uno sviluppo è legittimo o no? È corretto giudicare in base a criteri desunti dagli attuali assetti e teologie della chiesa cattolica o protestante, o invece bisognerà cercare di ricostruire i criteri di giudizio della chiesa di allora nei diversi momenti del suo sviluppo?
2. La soluzione che alcuni storici protestanti hanno dato alla questione va ora sotto il titolo di Frühkatholizismus (potremmo tradurre «protocattolicesimo» o «precattolicesimo»). Per essi, gli sviluppi che cominciano a modificare l’assetto della chiesa originaria si manifestano già verso la fine del I secolo e continuano nel secondo. Possono essere chiamati frühkatholisch, protocattolici, poiché in essi si fa luce progressivamente, e per singoli elementi, quella che sarà la caratteristica generale della chiesa cattolica. Questo tipo di problematica, con l’uso esplicità del termine Frühkatholizismus, si è rinnovata decisamente dopo un importante contributo di E. Käsemann nel 1949. (2)
Mi sembra utile chiarire schematicamente alcuni presupposti su cui si basa questa ricostruzione della storia della chiesa antica che giudica «protocattolico» lo sviluppo sopravvenuto dopo l'età apostolica: a) in questo sviluppo la qualità di ciò che e originario e normativo non e stata mantenuta. In miniera maggiore o minore esso perciò va considerato come deformazione di decadenza; b) il cattolicesimo non è identico al cristianesimo originario, ma è solo una forma del cristianesimo che appare ad un determinato momento della Storia della chiesa e va giudicato sulla norma delle origini; c) poiché gli inizi di questa deformazione si fanno già luce in una serie di scritti neotestamentari (Lettere pastorali, Scritti lucani... ), il criterio normativo di ciò che è cristiano non va rintracciato nel canone in quanto tale, bensì nel suo centro teologico: l'Evangelo. Quest'ultimo presupposto vale, ovviamente, solo per coloro che affermano – come ad es. E. Käsemann, W. Marxsen, S. Schulz – che il Frühkatholizismus si manifesta già all'interno del NT.
Fra gli studiosi protestanti sono però distinguibili posizioni diverse. Le riduciamo a tre: (3) a) alcuni riconoscono lo sviluppo avvenuto come un fatto legittimo (perché motivato dalla reazione contro lo gnosticismo o movimenti di tipo «entusiastico») nonostante che esso non fosse l'unica possibilità legittima a disposizione; b) altri rifiutano lo sviluppo nel suo complesso pur salvandone alcuni elementi; c) altri infine tentano radicalmente di individuare all'interno del canone il vero centro del cristianesimo per assumere esso solo come criterio normativo e legittimo.
All'opposto sta la risposta di alcuni studiosi cattolici. Il dato di fatto storico di una modificazione successiva all'età apostolica viene riconosciuto, ma la valutazione è diversa: non si tratta di deformazione, ma di legittima evoluzione. Un esegeta protestante come H. Schlier (di scuola bultmanniana come E. Käsemann) passava al cattolicesimo nel 1952 proprio - fra l'altro - perché considerava l'evoluzione avvenuta verso la fine del I secolo come legittima e insita nel cuore del cristianesimo originario. Il dogma sta già all'interno della natura del kerygma; il ministero, come viene teorizzato nelle Pastorali e già insito nel ministero apostolico. (4)

I risultati di un gruppo di ricerca ecumenica istituito in Germania nel 1979

3. Di fronte a questa polarizzazione è stato giustamente osservato come la questione del Frühkatholizismus sia una delle più difficili nel quadro già stagnante dell'ecumenismo cattolico-protestante. Per questo motivo, per impulso di F. Hahn, si è costituito in Germania nel maggio del 1979 un gruppo di esegeti del NT e di patrologi, cattolici e protestanti, per riesaminare a fondo il problema.
I lavori di questo gruppo ecumenico di ricerca sono ancora in corso. Ne fanno parte, tra i cattolici. Th. Baumeister, S. Frank, K. Kertelge, O. Knoch, M. Krämer, J. Kremer, K. Löning, H. Merklein, F. Mussner, M. Pesce, E. Rückstuhl, G. Schneider, W. Trilling, A. Vögtle. Tra i protestanti: G. Barth, O. Böcher, G. Friedrich, E. Grässer, H. Gülzow, F. Hahn, H. Klein, K. Koschorke, H. Kraft, G. Kretschmar, A. Lindemann, U. Luz, G. May, M. Merkel, H. Paulsen, A. M. Ritter, A. Schindler, P. Stuhlmacher. Nella prima riunione (Mainz, maggio 1979) si è operata una valutazione critica dello stato della ricerca storica e teologica sul tema (per una informazione cf. sotto: 3.1.1). Il risultato globale negativo è stato di denunciare l'inadeguatezza storiografica e teologica del concetto di Frühkatholizismus e dei concetti ad esso relativi. Positivamente si è invece riconosciuta l'importanza dei problemi posti sotto quell'etichetta. Per la soluzione della questione fondamentale, quella cioè delle modificazioni intercorse nella chiesa delle origini e della loro valutazione è però necessaria un'impostazione nuova. Si è perciò deciso di affrontare una ricognizione anzitutto storico-esegetica sulle diverse concezioni di normatività, in relazione alla chiesa, presenti nei primi due secoli. La riunione del maggio 1980 (Mainz) è stata dedicata all'esposizione delle singole indagini (su ciascuno scritto neotestamentario o su gruppi di scritti, su autori e scritti del periodo post-apostolico, su scritti apocrifi) e quella del maggio 1981 (Schwerte) ad una valutazione complessiva. La valutazione dei contributi sui temi neotestamentari è stata condotta da parte protestante da A. Lindemann e da parte cattolica da H. Merklein. La valutazione dei contributi patristici era stata invece affidata a S. Frank (cattolico) e G. May (protestante).
Presento qui una mia valutazione di alcuni risultati che mi sembrano illuminanti per il metodo con cui affrontare il tema del sacerdozio, oggetto del nostro interesse. Eccoli:
3. 1. Anzitutto mi sembra emergere la necessità di superare una interpretazione controversistica di quel periodo della storia della chiesa che va - grosso modo - dalla fine dell'età apostolica alla formazione della grande chiesa. Ciò mi sembra concretizzarsi nei seguenti due sintomi.
3.1.1. Critica del concetto di Frühkatholizismus. (5) Da più parti è stato affermato che il concetto è da abbandonare perché a) non è storiograficamente corretto per definire le modificazioni avvenute dopo l'età apostolica , in quanto non è ricavato dalla auto-definizione dei protagonisti storici; b) definisce e giudica il prima (la chiesa della fine del I secolo e del II secolo) in base a ciò che si e verificato dopo (il cattolicesimo); c) presuppone un concetto di cattolicesimo definito a priori e perciò mutevole a seconda di ciò che si intende per esso, sia dal punto di vista storico (La grande chiesa oppure il cattolicesimo medievale? La chiesa post-tridentina o quella del Vaticano Il?) che da quello dei criteri per definirne la natura; d) è un concetto funzionale alla controversia teologica cattolico-protestante e perciò presuppone una definizione non solo teologica, ma anche controversistica di ciò che è «autenticamente cristiano», di ciò che è «cristiano primitivo» e «cattolico».
3.1.2. Questa critica, significativa perché proveniente da parte protestante (F. Hahn, G. Kretshmar, O. Böcher), è però parallela ad un auto-critica da parte cattolica che è qui, dal nostro punto di vista, ancora più importante. Essa si manifesta soprattutto: a) nel riconoscimento dell’esistenza di sviluppi nella chiesa post-apostolica. Ciò significa che, mentre se ne difende la legittimità, si ammette che essi non per questo debbano essere considerati caratteristiche irrinunciabili della natura della chiesa; b) nel riconoscimento della possibilità di giudicare la legittimità o meno di ogni singolo assetto storico manifestatosi nel corso della chiesa post-apostolica, sulla base di criteri da stabilire ecumenicamente. (6)
3. 2. Un secondo risultato che mi sembra di veder emergere sta nell’accordo degli studiosi sull’esistenza di uno sviluppo (o periodo di crisi) all’interno della storia del cristianesimo primitivo, di cui però è più facile stabile il punto di arrico (ad esempio nell'istituzione e riconoscimento universale del canone del NT come norma della fede) che il punto di inizio. Che ci siano state profonde modificazioni è infatti ormai da tutti riconosciuto. Ma ciò pone immediatamente dei problemi. W Trilling ha giustamente fatto notare come sia impossibile usare il concetto di chiesa originaria (Urkirche) o di età apostolica per indicare il periodo dopo il quale inizierebbero le modificazioni. Impossibile, infatti, stabilire quando inizia e quando finisce la Urkirche, mentre il concetto di «età apostolica» è inutilizzabile a causa del fatto che il «pieno sviluppo» dell'«idea di apostolico» è relativamente tardo (Ef; Lc/Atti; Apc.). Cosicché non solo bisogna abbandonare il concetto di Frühkatholizismus , ma anche rinunciare a sostituirlo con quello di «età post-apostolica» (7) come F. Hahn aveva suggerito. (8)
3.3. Un terzo risultato è nell'opportunità di rinunciare a considerare questo periodo di sviluppo e transizione del Cristianesimo come un fenomeno storico unitario (qui le valutazioni di W. Trilling e di G. Kretschmar coincidono). (9) Tutti i fenomeni considerati finora come frühkatholisch, protocattolici, e perciò falsamente unificati sotto questa etichetta, vanno studiati invece singolarmente ponendo per ciascuno di essi il problema se rappresentino o meno uno sviluppo legittimo dell'autenticità dell'annuncio e della chiesa cristiana (W. Trillino).

II. L'introduzione delle categorie sacerdotali nel cristianesimo e il problema del sacerdozio dei fedeli

1. Riconoscere e valutare gli sviluppi

Il prossimo congresso dell'Associazione teologica italiana avrà come oggetto il sacerdozio dei fedeli. Mi sembra utile applicare a questo tema alcuni risultati emersi in sede ecumenica sul problema del Frühkatholizismus, cioè sul problema delle modificazioni intercorse nel periodo delle origini cristiane.
Oggetto della nostra indagine è l'apparire e affermarsi della categoria «sacerdozio» nella chiesa antica. Da quanto precede possiamo trarre una fondamentale conseguenza: dobbiamo affrontare il problema «sacerdozio» essendoci preventivamente liberati da una visione della storia della chiesa antica dominata dalla controversia cattolico-protestante. Ciò significa in particolare che: a) di fronte alla constatazione storica che un determinato fenomeno ecclesiale non si manifesta fin dall'inizio della storia della chiesa originaria (e cioè nell'età apostolica), ma solo a partire da un determinato momento storico, è necessario riconoscere che si tratta non di uno di quei dati originari che sono essenziali e irrinunciabili, ma di uno sviluppo; b) il fatto di avere individuato un fenomeno ecclesiale nella sua natura di «sviluppo», e non di dato originario irrinunciabile, apre la strada alla possibilità di una sua valutazione. Esso potrà essere giudicato come un'interpretazione legittima, se le caratteristiche apostoliche saranno state adattate ai nuovi problemi senza comprometterne l'autenticità; potrà però anche trattarsi di uno sviluppo illegittimo, di una deformazione di ciò che è autenticamente apostolico; c) l'avere chiarito come un determinato fenomeno ecclesiale sia uno sviluppo legittimo rispetto all'autenticità apostolica non implica disconoscere la legittimità di soluzioni diverse date al medesimo problema in aree ecclesiali diverse, né considerare tale soluzione come valida per ogni circostanza storica.

2. il sacerdozio nello religione ebraica al momento della nascita del cristianesimo

Ai tempi di Gesù la religiosità israelitica ruotava intorno a poli diversi. Il sacerdozio ne rappresenta solo uno accanto agli altri e neppure il più importante. Le caratteristiche fondamentali del sacerdozio israelitico sono sostanzialmente due: di essere legato esclusivamente al tempio e di essere un ceto cui si appartiene nono per libera scelta o vocazione , bensì soltanto per nascita. Sacerdoti non si può diventare in nessun caso e chi appartiene per nascita alla tribù sacerdotale non può non essere sacerdote. Abbiamo detto che il sacerdozio è legato esclusivamente al tempio. Bisogna aggiungere che di tempio ne esiste uno solo, quello di Gerusalemme. Ciò significa che i sacerdoti non hanno alcuna funzione religiosa, sacerdotale, fuori di Gerusalemme, anzi, fra i diversi ruoli che il tempio svolge (oltre a quello strettamente religioso vi sono quello politico, giudiziario ed economico), compete esclusivamente ad essi (nel senso che in nessun caso potrebbe essere svolto da altri) solo quello che riguarda l'altare e il tempio in senso stretto: cioè la stanza detta Hekal e il Santo dei santi. Questi luoghi sono caratterizzati da due fenomeni strettamente legati l'uno all'altro: l'esecuzione dei sacrifici (l'altare è per sua natura il luogo del sacrificio) e il venire alla presenza di Dio. L'unico che può entrare alla presenza di Dio, una volta all'anno, nel Santo dei santi, è appunto il sommo sacerdote.
Ciò significa che il proprium del sacerdozio è il potersi presentare di fronte a Dio mediante e in grazia clell'esecuzione di sacrifici. Il popolo è così diviso in due categorie: i sacerdoti e i non sacerdoti, cioè i «laici», i quali non possono accedere alla presenza di Dio né eseguire l'atto sacerdotale del sacrificio. È appunto per la mediazione sacerdotale che il popolo accede a Dio. E del resto il sacerdote stesso può esercitare le proprie funzioni solo sottoponendosi a norme di purtà rituale (che non hanno, si badi bene, alcun carattere etico). L’antica funzione oracolare era già da tempo scomparsa, quella di insegnamento e giudiziaria era stata ormai sempre più tolta a sacerdoti da ceti di dottori e specialisti laici. È per questo che con la scomparsa del tempio di Gerusalemme finirà qualsiasi ruolo dei sacerdoti all’interno della religione israelitica nonostante che i sacerdoti continuino ad esistere in quanto si perpetua, del resto fino ad oggi, la loro discendenza fisica.
Il centro principale della religiosità israelitica, non solo nella diaspora, ma anche in Palestina, era però da tempo la sinagoga. Bisogna subito precisare che la liturgia sinagogale non è in nessun modo “sacerdotale”. In essa non c’è un altare su cui fare sacrifici, né luogo in cui si pensa abitare la presenza di Dio. Per questo motivo i sacerdoti non vi esercitano alcuna funzione esclusiva, anche nel caso in cui vi partecipino. Il nucleo delle cerimonie religiose è dato dalla lettura della Scrittura (pericope per pericope secondo un ciclo), dall’omelia e dalla preghiera. Ciascuna di queste funzioni può essere presieduta da qualsiasi maschio adulto purché dotato della sufficiente competenza. La liturgia sinagogale è perciò essenzialmente svincolata dal sacerdozio, e non ha alcun carattere sacerdotale.
Per inciso, anche la cena pasquale presuppone, sì, che l’agnello sia stato ucciso nel tempio dai Leviti, ma si svolge ovviamente fuori del tempio e non ha bisogno né di una presenza, né di una presidenza sacerdotale. Proprio perché il suo centro sta altrove, essa ha continuato ad esistere anche dopo la distruzione del tempio, senza la cerimonia dell’agnello che ovviamente non poteva più essere ucciso dai Leviti. Sia detto tra parentesi che lo stesso Gesù non ha pronunciato le parole, che sono poi rimaste come centro della cena eucaristica, sull'agnello, bensì sul pane e sul vino, elementi che non hanno alcun rapporto con la liturgia sacerdotale e sacrificale del tempio.
La funzione di insegnamento religioso era ormai da tempo appannaggio di un ceto di saggi, prevalentemente di orientamento farisaico, che diventavano in grado di esercitare la loro funzione, non perché appartenenti per nascita ad un ceto, ma solo in seguito ad un rigoroso discepolato, intrapreso per libera scelta. La stragrande maggioranza dei saggi (i maestri della tradizione rabbinica) non è di stirpe sacerdotale. Soprattutto non ha carattere sacerdotale, perché non è legata al culto sacrificale del tempio la funzione esercitata. Anche all'interno della funzione giudiziaria (Sinedrio) i saggi acquistano un peso sempre maggiore.
Se guardiamo, infine, l'organizzazione delle comunità, sia in Palestina che nella diaspora, troviamo che esse sono rette da gerusie locali i cui funzionari principali, presbiteri o arconti, incaricati di funzioni diverse (amministrativa, giudiziaria, di leadership religiosa in senso lato) non hanno carattere sacerdotale.
Al momento della nascita del cristianesimo il ruolo del sacerdozio nella religiosità israelitica non è perciò né l'unico, né quello centrale. Non solo è sempre più diffusa una religiosità che può prescindere e prescinde di fatto in larga misura dal tempio, ma il ceto sacerdotale è assente dalle funzioni principali della vita religiosa del popolo, guidato dai saggi (i maestri delle cosiddette scuole rabbiniche). Si può ancora aggiungere che il culto che si svolge nel tempio di Gerusalemme ha un carattere fortemente etnico, essendo impossibile a non ebrei entrare nello stesso recinto del tempio. Non così nella sinagoga alle cui cerimonie possono partecipare anche i gentili, rendendo possibili le varie forme di intenso proselitismo allora in atto. La dimensione universalistica del giudaismo si sviluppa non nel tempio, ma nella sinagoga.
Non si può concludere queste osservazioni senza un chiarimento concettuale e terminologico. La religiosità che il sacerdozio esprime è tutta centrata da un lato sulla necessità da parte dell'uomo di presentare l'offerta e il sacrificio a Dio, dall'altro sull'impossibilità da parte dell'uomo di presentarsi alla presenza di Dio, il che esige la formazione di un ceto sacerdotale ritualmente in grado di operare la mediazione. L'esistenza di un sacerdozio è necessaria perché Dio esige offerte e sacrifici, ma l'uomo è in uno stato ontologico di impurità che gli rende impossibile avvicinarsi al sacro. La vicinanza coI sacro implica di necessità la morte e l'annientamento dell'uomo. Il sacerdote esercita la necessaria funzione di mediazione in quanto, mediante regole di purità rituale, si rende puro e può entrare nel dominio del sacro e avvicinarsi così a Dio senza esserne distrutto. L'ebraismo dei tempi di Gesù, pur lasciando ancora sussistere il tempio e conservando ad esso una funzione insostituibile, aveva però già da tempo elaborato una concezione del rapporto religioso dell'uomo con Dio ben più profonda ed è piuttosto sul suo sfondo più che su quello del sacerdozio che va inquadrato il cristianesimo nascente e soprattutto Gesù.
Dal punto di vista terminologico bisogna ricordare che termini come «presbitero», «maestro», «profeta», «saggio» non hanno alcun significato sacerdotale. Di sacerdote si può solo parlare là dove viene usato l'appellativo «sacerdote»; il quale, in ambito giudaico è usato in senso strettamente tecnico, cioè limitato a coloro che per nascita sono di stirpe sacerdotale.

3. Gesù e la missione apostolica primitivo in relazione al sacerdozio (10)

Gesù non era di stirpe sacerdotale ed è quindi ovvio che nessuno dei contemporanei lo abbia considerato sacerdote e chiamato col titolo di sacerdote, totalmente assente nei vangeli rispetto a Gesù. Nessuno dei discepoli storici era sacerdote e già il solo fatto che Gesù non abbia cercato di aggregare membri di stirpe sacerdotale mostra come fosse estranea a lui la preoccupazione di influire in qualche modo sul sacerdozio o di considerare rilevante per la sua missione la funzione sacerdotale.
Soprattutto è totalmente assente dalla sua azione e dalla sua predicazione ogni caratteristica della religiosità sacerdotale e ogni volontà di assumere atteggiamento sacerdotale. Non c'è alcuno spazio nella sua predicazione per il tema del sacrificio e dell'offerta. Il centro della «religiosità» di Gesù sono la consapevolezza dell'eschaton che irrompe nella storia e il relativo annuncio dell'avvento del regno di Dio; la predicazione dell'amore del prossimo con la specificazione radicalizzante della sua universalità che si realizza solo nell'amore dei nemici; l'assoluta obbedienza a Dio come criterio unico di comportamento personale e storico e soprattutto, perché è questo che soggiace a tutto il resto, la consapevolezza di una assoluta presenza dell'amore del Padre a se stesso, l'intimità della presenza di Dio percepita su di sé e, universalmente, sugli altri e sui nemici. Tutto ciò è profondamente estraneo all'idea di un ambito sacro, inavvicinabile per l'uomo senza lo mediazione sacerdotale. Nonostante che lo stile di Gesù e il Sitz im Leben della sua attività sia più legato ad altri poli della religiosità palestinese (profetismo, movimenti battisti, liturgia sinagogale... ) non mancano, qua e là, riferimenti al sacerdozio. Si tratta per lo più di indicazioni per vivere atti del culto sacerdotale in modo non rituale, per mostrare come una religiosità puramente rituale debba essere vivificata da un autentico comportamento morale (Mt 5, 23-24). Si tratta però anche di critiche radicali al concetto di purità rituale mediante la negazione dell'esistenza di qualcosa di impuro ontologicamente di fronte a Dio (Mt 15, 10-11). Ma in fondo il sacerdozio non è per Gesù un punto di riferimento decisivo neppure dal punto di vista critico.
Neanche gli apostoli e i predicatori cristiani primitivi hanno considerato se stessi come sacerdoti, e nessun cristiano o ebreo contemporaneo ha mai pensato di considerarsi tali. II centro della loro attività era la predicazione itinerante e la fondazione e cura delle comunità. Gli appellativi che ritroviamo nel NT a proposito dei missionari cristiani e delle prime forme di ministri locali («apostolo», «profeta», «dottore», «presbitero», «diacono», «episcopo», ecc.) sono tutti non-sacerdotali. Invano si cercherebbe il titolo «sacerdote» (hiereus). E le funzioni che essi esercitano non sono sacerdotali. Le comunità primitive sono tutte organizzate pressappoco secondo il modello delle comunità della diaspora ebraica. Le liturgie seguono modelli sinagogali e non vedono mai la presenza di altari e sacrifici e perciò neppure di sacerdoti.

4. L’applicazione della categoria «sacerdozio» a Cristo e alla chiesa già nel NT (11)

La categoria «sacerdozio» appare nel NT soprattutto in relazione a due distinti fenomeni: in relazione a Cristo per qualificarne l’azione salvifica (Gesù come sommo sacerdote nella Lettera agli ebrei); in relazione alla chiesa, definita perciò come popolo sacerdotale (1Pt, Apc). È solo in epoca post-neotestamentaria che la categoria «sacerdote» viene applicata anche ad un terzo fenomeno, cioè in relazione ai ministri della chiesa intesi come ceto, appunto sacerdotale, distinto dal ceto dei laici (cf. il primo accenno in 1Clem 40-41).

4.1. Gesù come sommo sacerdote in Ebr

Un'ampia parte della Lettera agli ebrei è dedicata a dimostrare la superiorità dell'opera salvifica di Cristo rispetto a quella del colto sacerdotale ebraico. Ebr presuppone una situazione in cui il tempio di Gerusalemme è ancora in funzione (cioè prima della sua distruzione) e in cui i cristiani o alcuni gruppi fra essi partecipano ancora al suo culto sacrificale. L'intento è di impedire la partecipazione al culto sacrificale del tempio o comunque di svuotarne radicalmente l'importanza. t'autore prende in esame i due elementi fondamentali del culto gerosolimitano: il sacrificio e l'ingresso del sommo sacerdote nel Santo dei santi, per mostrare la loro inefficacia ad operare la salvezza che si propongono, ma soprattutto per sostenere che il loro scopo è stato raggiunto in modo perfetto e definitivo, una volta per tutte, da Cristo, il quale perciò è il vero unico e definitivo sommo sacerdote. Ciò è stato possibile proprio perché il sacerdozio di Cristo è di tutt'altro ordine di quello gerosolimitano, cioè non si serve dei sacrifici e si baso sul fatto che Cristo è entrato alla vera presenza di Dio sedendo ormai alla sua destra. Ciò implica che non solo il sacerdozio ebraico, ma a maggior ragione qualsiasi forma di religione sacerdotale (cioè basata sul sacrificio e sull'istituzione di un ceto sacerdotale che operi la mediazione tra Dio e uomo) siano stati per sempre aboliti. L'azione sulvih.ca di Cristo è perciò radicalmente anti-sacerdotale. L'autore tuttavia definisce Gesù quale sommo sacerdote e parla del sacerdozio di Cristo. Siamo di fronte ad un'audace interpretazione che però è di natura linguistica. (12) Gesù è sommo sacerdote non perché compia atti sacerdotali o perché il suo sia un vero sacerdozio, bensì per il fatto che gli scopi che il sommo sacerdote vero, quello ebraico, si proponeva senza riuscire a raggiungerli sono ora raggiunti per altra via da Cristo. In questo senso, consapevolmente traslato, Cristo è sacerdote in quanto adempie le aspirazioni più profonde della religiosità basata sul sacrificio, sull'offerta e sulla mediazione sacerdotale. Ma proprio perché gli scopi del sacerdozio ebraico sono ora raggiunti in un modo radicalmente non-sacerdotale, tutto il rapporto religioso del popolo con Dio viene radicalmente mutato: esso non ha più bisogno della mediazione di un ceto sacerdotale né di sacrifici e offerte. Proseguendo nel suo intento di mostrare come gli scopi del sacerdozio ebraico siano compiuti nella chiesa, l'autore definisce con linguaggio sacerdotale, ovviamente traslato e polemico anche l'atteggiamento religioso del cristiano verso Dio. Ebr 13,15 dice: «Per mezzo di lui, dunque, offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome». Ora è la fede il vero sacrificio e con ciò il linguaggio sacerdotale è assunto da un lato per essere criticato e svuotato radicalmente, dall'altro per essere inverato. Infatti l'operazione linguistica che ad uomini della nostra cultura appare audace e spregiudicata, poteva essere invece del tutto consona alla sensibilità religiosa del I secolo. Qualsiasi tipo di religiosità era infatti profondamente permeata dai modelli e dal linguaggio formatosi in relazione al sacrificio e al sacerdozio. Non è un caso che nella Lettera agli ebrei non si trovi né la fondazione cristologica di un ceto sacerdotale cristiano (anzi neppure se ne parla), né la teoria del sacerdozio della chiesa nel suo complesso.
Con la teoria del sommo sacerdozio di Cristo ci imbattiamo in un chiarimento della natura dell'opera salvifica di Cristo al fine di combattere il pericolo di una permanenza della religiosità di tipo sacerdotale all'interno del cristianesimo che avrebbe compromesso il punto centrale della fede cristiana. C’è ormai un unico sommo sacerdote, Cristo, mediante il quale (13) è ora finalmente possibile un accesso diretto a Dio mediante la fede. Questa interpretazione di Cristo come sommo sacerdote è certamente una novità ed è un'operazione di natura teologica. Essa infatti non si richiama ad azioni o a detti di Gesù, ma cerca la propria giustificazione esclusivamente su passi della Scrittura interpretati cristologicamente. La si potrebbe definire una sapiente opera pastorale che tenta di difendere la purezza del messaggio cristiano servendosi di un linguaggio e di una cultura familiari agli interlocutori (come del resto allo stesso autore).

4.2. La chiesa come popolo sacerdotale

I testi di 1Pt. (2,5.9) e di Apc. (1,6; 5,9-10; 2(1,6) sono notissimi. La lettera di Pietro (14) definisce la chiesa, più precisamente i cristiani in genere, come «sacerdozio» (hierateuma). Sacerdozio che è detto «santo» al v. 5 e «regale» al v. 9 (dove sono evidentemente ripetute le espressioni della traduzione di LXX di Es. 19,6: basileion hierateuma). Apc. (15) invece si riferisce più liberamente al testo di Es. 19.6 e definisce i cristiani, ovviamente tutti, come «sacerdoti» (hiereis) specificando sempre questa caratteristica mediante quella di «regno» (1,6; 5,10) o di «regnare» (20,6). Ci troviamo perciò di fronte ad una tradizione cristiana primitiva diversamente attestata che applica il concetto di sacerdozio al popolo cristiano nel suo complesso, alla chiesa come insieme di credenti. È una delle molte teorie ecclesiologiche neotestamentarie, con le quali vengono esplicitati aspetti diversi della chiesa o anche medesimi aspetti con sistemi concettuali differenti. Qui l'aspetto della natura della chiesa che viene esplicitato è di importanza capitale. La chiesa, come popolo è un sacerdozio, i cristiani sono sacerdoti, perché hanno quell'accesso diretto a Dio che è proprio dei sacerdoti che possono appunto accedere a Dio senza la mediazione di altri. Ma questo è solo uno degli elementi dell’ecclesiologia che si fa qui luce. Per comprenderla nella sua complessità bisogna tener presente una serie di caratteristiche.
a) L'applicazione del concetto di sacerdozio alla chiesa avviene in base ad un testo dell'AT: «Se vorrete ascoltare Ia mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,5-11). Questa concezione biblica relativa al popolo di Israele viene ora, cioè all'incirca nell'ultimo quarto del I secolo (siamo comunque fra le tradizioni tarde neotestamentarie), applicato alla chiesa per un preciso motivo: perché in essa sono accolti anche i gentili, quelli che una volta erano «non-popolo» come esplicitamente dice 1Pt. 2. 10, e che ora formano questo «sacerdozio» che Dio si è acquistato (v. 9). Anche Apc. 5, 10) sottolinea che si tratta di «uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione». Questa caratteristica di Israele, di essere cioè un popolo sacerdotale rispetto agli altri in quanto ha un rapporto unico con Dio, viene ora applicato allo chiesa per rispondere ad un bisogno particolare nella mutata situazione storica che si c creolo per l'ingresso ci molti gentili. Con questo modello ecclesiologico si sta in realtà proponendo un modello dei rapporti tra la chiesa e le genti. Come Israele era, rispetto agli altri popoli, un popolo sacerdotale che appartiene a Dio, così la chiesa, formata da uomini di ogni nazione e lingua, deve rapportarsi alle genti. Viene cioè qui proposto lo schema ecclesiologico di un popolo che Dio si è scelto perché appartenga totalmente a lui (e con lui abbia un'intimità tutta particolare che lo rende santo e sacerdotale) in funzione della salvezza delle genti.
b) Il contatto diretto, tutto particolare con Dio che caratterizza i cristiani è fondato cristologicamente. (16) Non bisogna però interpretare questi dati alla luce di una teologia molto più tarda. Il sacerdozio della chiesa, infatti, non viene giustificato come una partecipazione al sacerdozio di Cristo. Anzi, del sacerdozio di Cristo neppure si parla e non ce ne sarebbe stato bisogno. L'accesso a Dio è reso possibile da lui, dalla sua morte e risurrezione, secondo la normale ed originaria dottrina cristiana. Questo fatto viene però interpretato ora per mezzo di un testo dell'AT che parla di Israele come popolo sacerdotale e santo fra le genti. Perciò la sacerdotalità della chiesa non viene dedotta verticalmente, per partecipazione sacramentale dal sacerdozio di Cristo. È piuttosto la nuova situazione delle comunità cristiane, composte da molti credenti provenienti dai gentili, e situate in diaspora fra le genti, che fa riconoscere nella chiesa l'adempimento di ciò che la Scrittura aveva prefigurato in Israele: «un sacerdozio regale, una nazione santa».
c) Ciò facendo questa tradizione teologica cristiana assume dall'AT (e dalla tradizione giudaica) un concetto di sacerdozio usato già in senso traslato). Infatti Es. 19,6 non parla di sacerdozio in senso tecnico perché non si riferisce ad un ceto sacerdotale, ma a tutto il popolo e perché fonda l'unione tutta particolare con Dio, non tanto sul sacrificio in senso specifIco, quanto sull'osservanza della legge nel suo complesso. La tradizione testimoniata da 1Pt. e da Apc, usa questo concetto di sacerdozio in senso traslato perché esso esprime bene la realtà di un contatto con Dio non mediato ed esclusivo, tutto particolare; come anche la santificazione che da questo contatto consegue e che perciò diventa elemento di distinzione rispetto alle genti.
d) Infine va sottolineato come non appaia né in 1Pt né in Apc. la menzione di un ceto sacerdotale cristiano che medierebbe tra Cristo e il popolo trasmettendo ad esso la sacerdotalità di Cristo. Anzi, neppure è nominato il ministero. Il rapporto è tra Dio e i cristiani mediante Cristo.
Una valutazione più ampia di questi testi può essere data solo dopo le osservazioni che seguono.

5. L'applicazione della categoria «sacerdozio» al ministero della chiesa

Non intendiamo discutere la questione dei fondamenti storici dello concezione cattolica del ministero ecclesiastico. Il problema in esame è un altro, molto più limitato: quando sia stata applicata la categoria «sacerdozio» ai ministeri della chiesa, quando, cioè i ministri incominciano od essere concepiti come sacerdoti e chiamati con l'appellativo di «sacerdote».
Nonostante l'opinione contraria di alcuni, bisogna riconoscere con la maggior parte degli esegeti, che nel NT nessun ministero nella chiesa è stato concepito come ministero «sacerdotale». Che il termine «sacerdote» (hiereus) non venga mai usato per i ministri (apostoli, profeti, maestri, presbiteri, episcopi, diaconi, ecc.) è in verità riconosciuto da tutti. E anche nei passi paolini, in cui alcuni hanno creduto poter individuare una concezione sacerdotale del ministero apostolico, (17) le espressioni del linguaggio sacerdotale vengono impiegate in un senso soltanto traslato. Quando non sono semplice testimonianza dell'uso di uno dei tanti sistemi linguistico-concettuali a disposizione, esse vanno anzi ricondotte alla tradizione, non solo cristiana, di spiritualizzazione e critica della religiosità sacerdotale.
Neppure si trovano testi nel NT che esprimono l’idea che il sacerdozio dei fedeli sia loro derivato per la mediazione  di un ministero sacerdotale. Anche l'autore che forse più di altri ha cercato in epoca post-conciliare di rintracciare basi neotestamentarie per una teologia del sacerdozio, H. Schlier, non cita alcun testo per sostenere questa teoria, ma semplicemente la afferma. (18)
Le prime testimonianze di uno interpretazione del ministero in senso sacerdotale solo fuori del NT. 1Clem. 40-41 afferma distinzione di ceto nella chiesa tra ministri e fedeli mediante il paragone con la distinzione veterotestamentaria tra sacerdoti e laici. In ogni caso si tratta di un avvicinamento tipologico come anche mostra la totale assenza di una fondazione cristologica della dignità sacerdotale dei ministri cristiani. Il problema principale della 1Clem, è quello dell'ordine nella chiesa: come i laici rispettavano le funzioni del ceto sacerdotale nell'AT, così nella chiesa i fedeli rispettino l'autorità dei ministri. In Ignazio di Antiochia, (19) invece, il concetto di vescovo come sacerdote è molto più chiaro, legato com'è all'affermazione dell'esistenza di un'«altare» (thusiasterion) nella chiesa, presieduto da lui attorniato dal presbiterio (Fil. 4; Ef. 20,2; Magn. 7,2; Trall. 7,2). Il fatto che al ministero cristiano vengano applicate categorie di tipo sacerdotale (ad es. ... «altare») non deve però far dimenticare che il linguaggio sacerdotale è usato in senso spiritualizzato e traslato. L'uso traslato è chiaro in Trall. 7,2: come la purità appartiene a chi è dentro l'altare e non a chi è fuori, così «colui che compie qualcosa senza il vescovo, il presbitero e il diacono, costui non è puro (katharos) nella coscienza (suneidesei)». Infine non viene tanto sottolineata la mediazione del vescovo, quanto piuttosto l’unione con lui. L’interpretazione della teologia di Ireneo circa le funzioni del vescovo è discussa nella ricerca. È solo con la Tradizio apostolica di Ippolito che si trova una chiara distinzione di ceto tra clero e laici nonché l’attribuzione al vescovo del titolo di «sommo sacerdote» con la relativa caratteristica dei suoi poteri «sacerdotali». Ma la teoria (e la prassi relativa) di un ministero come «sacerdozio» si svilupperà e affermerà solo più tardi.

6. La distinzione fra ministero e sacerdozio

Va ribadito ancora, perché si tratta di un punto fondamentale in queste pagine, che qui non intendo discutere circa l’antichità della dottrina neotestamentaria del ministero, bensì solo ricordare come l’applicazione delle categorie del «sacerdozio» a quella dottrina inizi soltanto a partire da un determinato periodo storico per rispondere ad esigenze poste dallo sviluppo della storia della chiesa.
Tale constatazione non è secondaria perché ci permette di leggere i passi neotestamentari sul sacerdozio dei fedeli senza le lenti deformanti della teoria più tarda del ministero sacerdotale ecclesiastico.
La concezione della chiesa come popolo sacerdotale, che è tradizione certo preesistente ad Apc e 1Pt, si è perciò formata quando la teologia del ministero come «ministero sacerdotale» ancora non esisteva, Ciò significa che le affermazioni sul popolo sacerdotale non sono state concepite nel contesto di discussioni sul ministero nella chiesa. (20) Se ho ben capito, il prossimo convegno ATI intende proporsi il tema del sacerdozio dei fedeli a prescindere dalla contrapposizione tra «sacerdozio dei fedeli» e «sacerdozio ministeriale». Per questa riflessione i testi di 1Pt e di Apc sono perfettamente adatti perché affrontano il problema del sacerdozio del popolo di Dio a prescindere da quello del ministero nella chiesa.

7. Considerazioni conclusione

Riassumiamo anzitutto alcune conclusioni. a) La categoria «sacerdozio» non è solo assente dal cristianesimo originario, ma è anche in antitesi con il nuovo modello di rapporti tra uomo e Dio che la fede instaura. b) Quando essa viene applicata nel NT a Cristo (sommo sacerdote in Ebr) e alla chiesa (popolo sacerdotale in 1Pt e Apc) ciò avviene in tradizioni o scritti tardi è sempre con un uso traslato e spiritualizzato del linguaggio. c) La novità di questa applicazione si giustifica in Ebr per il bisogno di contrastare all'interno del cristianesimo la partecipazione al culto del tempo di Gerusalemme. In 1Pt e Apc, invece, questa applicazione non risponde al bisogno di una polemica antisacerdotale, perché viene assunto un concetto di sacerdozio che era già stato spiritualizzato e inteso in senso traslato dalla tradizione giudaica di provenienza e perciò già svuotato degli elementi caratteristici del vero sacerdozio (sacrificio-offerta e mediazione di un ceto sacerdotale). d) L'applicazione delle categorie sacerdotali al ministero della chiesa non si trova nel NT, bensì è abbastanza più tarda e avviene comunque con un uso ancora traslato del linguaggio. I passi neotestamentari sul sacerdozio dei fedeli non vanno perciò interpretati in connessione  con il problema del ministero nella chiesa.
Alla luce dei problemi enunciati nella parte I di queste pagine, abbiamo perciò potuto costatare: a) che la interpretazione in senso sacerdotale di alcuni elementi non è un dato originario, ma consiste in sviluppi; b) che tali sviluppi sono da considerare legittimi nella misura in cui la categoria «sacerdozio», estranea al cristianesimo delle origini, viene spiritualizzata e svuotata degli elementi caratteristici di una vera religiosità sacerdotale.
In questo modo possiamo forse liberarci da un'interpretazione controversistica dei dati. Si deve infatti rinunciare a ritrovare nel NT sia una «sacerdotalizzazione» del ministero, sia la contrapposizione del sacerdozio dei fedeli al ministero nella chiesa. La tradizione relativa al sacerdozio dei fedeli è sorta indipendentemente non solo rispetto alla teoria della sacerdotalizzazione del ministero, ma anche a quella del sommo sacerdozio di Cristo.

Due proposte per l'attualizzazione del tema del sacerdozio dei fedeli

Quanto precede non intende affatto svalutare la tradizione teologica che fa della chiesa un popolo «sacerdotale». Essa è infatti di enorme importanza per l'oggi proprio alla luce, penso, di quanto abbiamo sottolineato fin qui. Intendo suggerire sinteticamente solo due aspetti.
Anzitutto bisogna comprendere a fondo il significato spirituale cristiano e l'operazione ermeneutica che hanno dato luogo alla interpretazione teologica della chiesa come sacerdozio santo», «sacerdozio regale» (1Pt 2,5.9). Il sacerdozio non era per l'uomo antico soltanto un concetto, ma un fatto centrale della cultura (nel senso dell'antropologia sociale) al quale erano connesse istituzioni precise, stratificazioni sociali, e soprattutto un atteggiamento religioso che non si esauriva nella prassi del culto, ma permeava molteplici aspetti della vita quotidiana. pubblica e privata, come anche del linguaggio e del sistema simbolico in genere. Di fronte alla religiosità «sacerdotale», il giudaismo prima e il cristianesimo dopo hanno rivolto critiche radicali. Il cristianesimo primitivo ne conosce diverse (ad esempio, la critica anti-idolatrica). Ma il tentativo di assumere categorie sacerdotali svuotandole di alcuni elementi e usandone altri in senso traslato (sacerdozio come simbolo della assoluta vicinanza e intimità con Dio), come fa lo tradizione utilizzata da 1Pt, riveste un senso attuale anche per noi. Non che la religiosità sacerdotale abbia una qualche rilevanza culturale al giorno d'oggi. «Sacerdozio» non ha infatti alcun posto significativo nel sistema linguistico e simbolico dell'uomo contemporaneo. Ma l'atteggiamento religioso, e in ultima analisi umano, che soggiaceva alla religiosità che si esprimeva nei sacrifici e nelle offerte per la mediazione di un celo sacerdotale, sussiste ancora oggi sotto forme radicalmente secolarizzate. Alla base del sacrificio e dell'offerta stanno infatti almeno due atteggiamenti religiosi e umani ricorrenti, che il cristianesimo è in grado di sanare, e che tuttora sussistono. Si tratta, da un lato, della profonda insicurezza, a volte assalita, nei riguardi della realtà dell'amore di Dio nei propri confronti; dall’altro di un atteggiamento egocentrico che tutto misura sul proprio tornaconto. Affermare la sacerdotalità della chiesa significa sostenere che la caratteristica, una volta propria solo dei sacerdoti, di poter avere un contatto diretto e intimo con Dio, è ora di ogni uomo. In realtà, si tratta di un’intimità on Dio ben superiore, in quanto non ottenuta mediante procedimenti rituali. È Dio stesso che viene incontro all’uomo, o lo assicura del suo amore mentre è ancora peccatore, un amore da cui nulla potrà separarlo. L’uomo, così insicuro dell’amore di Dio e per giunta consapevole dei propri peccati, si avvicina a lui con timore, sapendolo pronto ad irarsi, ma capace di grande protezione in ogni fenomeno della vita umana e naturale. Sacrificio, offerta e mediazione sacerdotale sono simbolo di questa religiosità che il Cristo ha sostituito, non per abolire dei riti, ma per sanare la frattura profonda che sta nel cuore dell’uomo.
La teoria del sacerdozio del popolo cristiano che si fa luce in 1Pt e Apc è attuale oggi forse anche per un secondo motivo. Abbiamo visto come essa si sia formata in funzione del problema della presenza dei gentili nella chiesa e del rapporto della chiesa con le genti. La chiesa è «sacerdozio» in funzione della salvezza delle genti. Il problema del rapporto con i «gentili» mi sembra infatti tutt’altro che secondario per la chiesa oggi. Il grande progetto di una civiltà e di una società cristiana è ormai storicamente sconfitto. Nonostante gli sforzi di opporvisi e di sintomi di un ritorno di massa alla chiesa che alcuni si illudono di intravedere, e nonostante il tentativo di rivalutare le religiosità popolari, sembra forse non troppo esagerato vedere il futuro prossimo della chiesa rappresentato come un insieme di comunità in diaspora tra le genti, diventate di nuovo un problema teologico e missionario per i cristiani.

Mauro Pesce

Note

1) Soprattutto importanti R. Sohm e A. V. Harnack. Su di essi e sul problema del Frühkatholizismus: H.-J. Schmitz, Frühkatholizismus dei Adolf von Harnack, Rudolph Sohm und Ernst Käsemann, Düsserdorf 1977; C. Bartsch, «Frühkatholizismus» als Kategorie historisch-kritischer Teologie. Eine methodologische und theologiegeschichtliche Untersuchung, Berlin 1980; ma anche il meno recente Y. Congar, Sohm nous interroge encore, RSPhTh 57 (1973) 203-294.
2) Amt und Gemeinde im Neuen Testament (conferenza del 1949), pubblicata in: Exegetische Versuche und Besinnungen I, Göttingen 1960, 109-134. Bibliografia sommaria sul Frühkatholizismus: oltre i già citati alla nota precedente, cg. E. Troeltsch, Die Soziallehren der chrislichen Kirchen un Gruppen, Tübingen 1912 (pp. 83-178: Der Frühkatholizismus) cf. la tr. it.; A. Ehrahrd (cattolico), Urkirche und Frühkatholizismus, Bonn 1935, 19513; W. Marxsen, Der «Frühkatholizismus» im Neuen Testament, Neukirchen 1958, 19642; H. Küng, Der Frühkatholizismus im Neuen Testament als kontroverstheologisches Problem, ThQ 142 (1962) 385-424; E. Käsemann, Paulus und der Frühkatholizismus, ZThK 60 (1963) 75-89. (EvuB, II, 239-252); K. H. Schelke, Spätapostolische Briefe als frühkatholisches Zeugnis, Neutestamentliche Aufsätze, Festschrift Josef Schmid, Regensburg 1963, 225-232; K. Beyschlag, Clemens Romanus und der Frühkatholizismus, Untersuchungen su 1 Clemens 1-7, Tübingen 1966; K. Neufeld, «Frühkatholizismus». Idee und Begriff, ZThK 94 (1972) 1-28; U. Luz, Erwägungen zur Entstehung des «Frühkatholizismus». Eine Skizze, ZNW 65 (1974) 88-111; H. Paulsen, Zur Wissenschaft vom Urchristentum und der alten Kirche. Ein methodologischer Versuch, ZNW 68 (1977) 200-230; F. Hahn,  Das Problem des Frühkatholizismus, EvTh 38 (1978) 340-357.
3) Seguo qui la schematizzazione di O. Knoch (cf. sotto n. 5)
4) Cf. i due articoli di Schlier su Kerygma e sofia e sul ministero nelle Lettere pastorali, ora in: Il tempo della Chiesa, Bologna 1965, 19683. Per un primo orientamento su H. Schlier cf. il mio: Heinrich Schlier. Tra esegesi storico-critica e riflessione teologica sulla Scrittura, RSLR 16 (1980) 63-79. La posizione di Schlier non è per nulla rappresentativa dell’orientamento attuale della ricerca cattolica: cf. i contributi di H.-J. Schmitz (n. 1), H. Küng (n. 2), O. Knoch e W. Trilling (n. 5).
5) Utilizzo qui i testi dattiloscritti non ancora pubblicati presentati e discussi nella riunione del Projektgruppe «Frühkatholizismus» (Mainz 18-20.5.1979); O. Böcher, «Frühkatholizismus». Der  Forschungsstand aus evangelischer Sicht; O. Knoch, Die Beurteilung theologischer Entwicklungen im späten I. und 2. Jhdt. n. Chr. Überlegungen in Verbindung mit der Anwendung des Begriffs «Frühkatholizismus»; G. Kretschmar,  Die Beurteilung theologischer Entwicklungen im späten ersten und im zweiten Jahrhundert nach Christus; W. Trilling, Bemerkungen zum Thema «Frühkatholizismus». Eine Skizze (ora in corso di pubblicazione su: Cristianesimo nella storia 2, 1981, fasc. 2). Il contributo di F. Hahn del 1978 è citato alla n. 2.
6) Cito qui alcuni punti che O. Knoch (cf. n. precedente) proponeva come compiti della ricerca ecumenica: «l’individuazione, da intraprendere ecumenicamente, dei fattori che hanno provocato gli sviluppi; una ecumenica constatazione degli elementi che determinarono il «carattere apostolico» della fede e della chiesa dell’età neotestamentaria, un esame ecumenico delle possibilità esistenti per uno sviluppo in diversi sensi degli spunti neotestamentari nei riguardi della predicazione, della fede e della chiesa; soprattutto: una fissazione, ecumenica, dei criteri per valutare ciò che è sviluppo organico e legittimo e ciò che è uno sviluppo errato, falsificazione o perfino distacco dal fondamento apostolico della fede e della chiesa testimoniato nel canone neotestamentario…».
7) W. Trilling, Bemerkungen zum Thema (cf. n. 5).
8) F. Hahn, Das Problem des Frühkatholizismus (cf. n. 2).
9) «Le questioni controverse, che sono state trattate sotto il concetto complessivo di ‘Frühkatholizismus’ debbono invece essere esaminate ulteriormente, ciascuna per proprio conto» (Trilling, art. cit. alla n. 5); G. Kretschmar (art. cit. alla n. 5) sottolinea fortemente come la storia del cristianesimo originario non possa essere immaginata come uno sviluppo a partire da un unico centro. Il momento iniziale è certo caratterizzato dall’unità, ma da un’unità che viene realizzata da Gesù e dai primi predicatori cristiani mediante una riunione (Sammlung, secondo la terminologia di Kretschmar) che unifica persone e tradizioni religiose diverse senza distruggerle nella loro particolarità. La storia del cristianesimo originario è perciò sviluppo di diversi orientamenti originari. La chiesa uscirà dal periodo di crisi, successivo alla fine dell’età apostolica, mediante una nuova riunione di tutte le tradizioni legittime nel canone neotestamentario, che ha appunto la caratteristica di unificare la chiesa mantenendone le diversità.
10) Do in questo paragrafo un mio riassunto della situazione dell’interpretazione dei dati neotestamentari. Per un orientamento sintetico cf. J. M. R. Tillard, La «qualité sacerdotale» du ministère chrétien, NRT 95 (1973) 481-514; Le Ministère et les ministères selon le Nouveau Testament (a cura di J. Delorme), Paris 1974 (tr. it. Edizioni Paoline 1977).
11) Per un orientamento generale sulla ricerca esegetica, storica e teologica sul tema del «sacerdozio» come è impostato in queste pagine si possono distinguere, dopo le affermazioni del Vaticano II sul sacerdozio universale dei fedeli, in campo cattolico due tendenze. L’una più conservatrice: cf. H. Schlier, Grundelemente des priesterlichen Amtes in Neuen Testament, Th Ph 44 (1969) 161-180; Die neutestamentliche Grundlage des Priesteramtes, Der Priesterliche Dienst I. Ursprung und Frühgeschichte,  Freiburg 1970, 81-114; J. Coppens, Le sacerdoce chrétien. Ses origines et son développement. Une lettre magistrale de l’épiscopat allemand, in Sacerdoce et célibat. Études historiques et théologiques, Gembloux/Louvain 1971, 49-101 (già pubblicato in NRT 92, 1970, 225-245 ; 337-364), dove si troverà anche un’ampia bibliografia. Per un orientamento più moderato ed ecumenico ed anche più legato allo stato attuale della ricerca storica ed esegetica cf. invece: l’articolo di J. M. Tillard citato alla nota 10 e A. Vanhoye, Sacerdote commun et sacerdote ministériel. Distinction et rapports, NRT 97 (1975) 193-207. Per una bibliografia recente cf. la voce hieros, hieratuema nei Literaturnachträge del ThWbNT, pp. 1114-1118.
12) Cf. quanto dice J. Delorme, Sacerdoce du Christ et Ministre (A propos de Jean 17). Sémantique et théologie biblique, RSR 63 (1974) 199-219 su un tema in parte affine, in particolare 204-6.
13) Lo stesso concetto di «mediazione» (il quale – si badi bene – non coincide totalmente con quello del sacerdozio) è stato superato dall’opera salvifica di Cristo, cf. A. Vanhoye, La notion de médiation et son dépassement dans le Nouveau Testament, in Studia Missionaria 21 (1972) 246-264.
14) Cf. N. Brox, Der erste Petrusbrief, (EKK 21), Neukirchen 1979, 94-110; L. Goppelt, Der erste Petrusbrief, Göttingen 1978 ad loc.; e anche L. Cerfaux, Regale sacerdotium, RSPhTh 28 (1939) 5-39 e Recueil Lucien Cerfaux II, Louvain 1954, 283-315; J. Coppens, Le sacerdoce royale des fidèles: un commentaire de 1Petr., II, 4-10, in: Au service de la Parole de Dieu, Gembloux 1969, 61-75.
15) Cf. E. Schüssler Fiorenza, Priester für Gott. Studien zum Herrschafts und Priestermotiv in der Apokalypse, Münster 1972.
16) «Mediante Cristo» (1Pt. 2,9); «con il suo sangue» (Apc. 1,6; 5,9-10).
17) Si tratta di Rom. 15,15s «perché io sia liturgo di Cristo Gesù tra i gentili facendo da sacerdote (hierourgounta) all’evangelo di Dio, perché i gentili diventino un’oblazione gradita santificata dallo Spirito Santo»; Fil. 2,17 «anche se il mio sangue deve essere versato in libagione (ei kai spendomai) per il sacrificio e l’offerta della vostra fede»; di 2Tim 4,6 «Il mio sangue sta per essere sparso in libagione» e di altri testi su cui si può confrontare l’esegesi, da respingere decisamente, di H Schlier, Die neutestamentliche Grundlage des Priesteramtes, in Der priesterliche Dienst, I. Ursprung und Frühgeschichte, Freiburg 1970, 84s.
18) «Das apostoliche Amt ist der Kirche zugeordnet. Es legt ihr Fundament und baut sie auf. Es lässt so ein priesterliches Volk entstehen» (H. Schlier, art. cit., 97). Tuttavia nelle righe che seguono si cercherebbe invano un testo per appoggiare l’idea per cui il ministero sacerdotale (o anche il ministero semplicemente, ma qui non interessa) «fa sorgere un popolo sacerdotale». Infatti il carattere sacerdotale del popolo è fondato cristologicamente nel NT.
19) Su Ignazio, Ippolito, Tertulliano e in genere sulla nascita della concezione del vescovo come sacerdote cf. J. Martin, Die Genese des Amtspriestertums in der frühen Kirche, (Der priesterliche Dienst III), Freiburg 1972, soprattutto 87-119.
20) Nel commentario di N. Brox su 1Pt. (cf. n. 14) si trovano osservazioni, sia esegetiche che di Wirkungsgeschichte, che vanno nello stesso senso.

(pubblicato in Il regno-documenti, 15/1981, pp. 501-507)

 

Letto 3997 volte Ultima modifica il Mercoledì, 05 Aprile 2017 11:28
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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