4. GLOSSARIO
Non vuol essere un approfondimento tematico esplicativo, tanto meno esauriente, ma nel condurre questa ricerca mi si rende opportuno un percorso breve e modesto di chiarimento su pochi lemmi “critici”, per almeno due ragioni:
1. vengono qui focalizzati termini che ricorrono, pur non frequentemente, nel testo: ne ho per quanto possibile sorvegliato l’impiego, ma essi sono abusati e usurati nei discorsi di carattere “religioso”; è utile delimitarne con un certo rigore il significato qui assunto come intenzionale.
2. questi stessi termini sono estranei, se non espressamente ostici alla cultura teologica protestante: per quanto il presente lavoro non possa certo ascriversi a discorso teologico, è prudente chiarire le distanze, le differenze e, anche, le autorizzazioni che mi sono data nell’uso delle concettualizzazioni relative.
Ecco le voci sul cui uso vorrei fare chiarezza :
PREGHIERA
Mi sono occupata di luoghi di preghiera. Ci sono luoghi che, per come sono pensati e costruiti, incoraggiano a pregare più di altri? Scontando gli enunciati generici che riconducono ad una presunta istanza universale le forme di preghiera, che invece nascono e si nutrono, nelle diverse fedi e culture, di sfondi teologici e antropologici e di prassi mentali fisiche verbali differenti, posso contare su scarsissimi riferimenti culturali e mi soffermo quindi soltanto su una riflessione schiettamente cristiana, ricca di ascendenze bibliche, ancorché implicite, che mi ha guidata nel selezionare e organizzare dei criteri di lettura degli ambienti che favoriscono quella che i credenti custodiscono come forma essenziale della loro ricerca di Dio: essa rappresenta per me la premessa offerta anche alle altre fedi:
“La preghiera è cifra della nostra radicale dipendenza: la nostra insufficienza è così profonda e vera da dipendere da ALTRO. E la struggente invocazione è segno che solo Dio ci può dare quanto ci manca per essere davvero noi stessi. La preghiera è, ad un tempo, attestazione di dipendenza per quel che siamo e pegno di poter conseguire quel tanto che ci manca. Dio che ha parlato e che muove nascostamente gli animi umani resta invisibile, intangibile, cosicché bisogna guardare con giusto sospetto tutti coloro che ne affermano troppo facilmente la trasparenza. Se Dio vuol esserci presente nascondendosi nelle viscere dello spirito umano che lo invoca (Rm 8), affermarne e celebrarne in maniera scoperta la presenza o la prossimità significa, in certo senso, tradirlo”. ( STEFANI P., La preghiera respiro delle religioni, Atti SAE 1999, pp. 14-15).
RELIGIONE – RELIGIOSITA’
Sullo sfondo della lezione barthiana, che contrappone fede a religione, riconoscendo in quest’ultima il tentativo anti-cristiano di raggiungere Dio con mezzi umani e della proposta di Bonhoeffer di accettare fino in fondo, in nome di Cristo, di vivere un’epoca non religiosa, mi sono meglio attrezzata ad esaminare manufatti riconoscibili comunque come oggetti religiosi sulla scorta della riflessione di Tillich, che intraprese con coraggio una teologia di dialogo con la cultura del suo tempo e, in generale, con le forme della esperienza umana. L’”ultimate concern” come sinonimo della domanda radicale della fede è descritto come l’atto centrale e decisivo della persona, e l’analisi di esso istituisce un rapporto nuovo e creativo con le forme della cultura umana: nessuna di esse, cognitiva, affettiva, etica, politica, ne è il tratto qualificante; si tratta allora di un’area “religiosa” nella sorgente intima della energia vitale e del coraggio nell’attraversare la negatività? Occorre qui precisare la fecondità del metodo della correlazione: pur distinte e autonome, le forme della vita si richiamano l’una l’altra e il dinamismo dell’atto di fede sempre si muove da una domanda che nasce dentro le questioni scottanti dell’esistenza che la cultura indaga e consegna all’ambito della fede; la fede può “arrischiare” la pista teologica che però, illuminata dal kerigma, non può comunque mai dirsi definitiva. Le religioni, non solo quella cristiana, aiutano la ricerca ma non ne sono garanti, anzi è proprio la fede che le aiuta a combattere quanto c’è in esse di statico e morto, “miti morti e idoli spezzati” che le induce alla persistenza degli effetti “religiosi”, aiuta quindi le religioni a “decostruirsi” direbbe oggi Tillich con lessico derridiano… A illuminare il discorso giova l’asserzione di questa teologia che: sottrae ad ogni religione la prospettiva del compimento, non esclude dalla esperienza della fede nessuna area laica secolarizzata, riconosce spazio alle appartenenze e insieme richiama, secondo la forza del principio protestante, la scommessa, pur ambigua, dell’individuo sulla critica come espressione di libertà, puntando sul coraggio della “accettazione della accettazione” come struttura del rapporto col divino, e sulla trasformazione della vita quotidiana come futuro aperto di ciascuno.
In quale senso mi pare adeguato allora l’uso del termine “religiosità”, che rimanderebbe ad una condizione soggettiva connotata da vissuti emotivi e affettivi, esente da precetti e da vincoli collettivi? Mi paiono decisivi un pensiero, quindi una prassi, anche una offerta di aiuto alla religiosità che sia liberante, che esenti gli spazi di preghiera da supporti devozionali, da sollecitazioni alla ascetica auto-giustificatrice, da segnali di idolatrica prossimità al divino… La accezione più generosa e rispettosa di ciò si rivolge alle sensibilità personali riconoscendo un loro aspetto ambivalente e critico, ma suggestivo: la preghiera come memoria, come ripresa, che Kierkegaard ci insegna essere “un ricordare procedendo”, accreditando esperienze di fede fatte di emersioni di storie, autobiografie… Del resto, i materiali scritti lasciati dai frequentatori dei luoghi da me visitati parlano per lo più in tal senso…
SACRO
È stato un assunto metodologico fermo per la presente ricerca prescindere da questa categoria concettuale, che è solitamente integrata con precisazioni e articolazioni diverse nell’area semantica della esperienza religiosa sulla base delle analisi storiche e antropologiche degli ultimi 100 anni (Durkheim, Weber, Otto, Eliade…). Mi sono proposta di escludere riferimenti al sacro per una ragione precisa: gli spazi oggetto di questa ricerca sono aperti alla fruizione di uomini e donne di qualsiasi o di nessuna fede, ma chi li concepisce e li offre è soggetto storico, connotato dalla esperienza cristiana che ha conosciuto, nel kerigma di Gesù e nella unicità definitiva del suo sacrificio, il superamento della sacralità dei luoghi, delle cose, delle parole, delle forze naturali. I responsabili dell’annuncio cristiano non riconoscono alcuna dimensione numinosa alle cose o simbolico-religiosa alle azioni nel mondo, non riconoscono una intrinseca dimensione rivelativa nella natura, non si affidano ad alcuno scambio simbolico, nucleo-base del sacrificale. Questo perché sacro è ormai solo l’umano, luogo di rivelazione del volto di Dio nella pienezza del suo progetto di felicità, ma anche e soprattutto nella fragilità, nella sofferenza, nella pena dei fratelli più deboli (Mt 25). Ciò non ha significato però prescindere dalla fecondità della “decostruzione” di questo concetto: accostare il sacro infatti tra altre esperienze funziona offrendo discontinuità rispetto al quotidiano, forza di novità e di rottura: un luogo allora può generare stupore ed evocare emozioni profonde ma garantirsi dalla suggestione del sacro a condizione di custodire con rigore l’esperienza del vuoto, della distanza, della alterità invocata ma lontana, vincendo la tentazione della idolatria. La “sacralità” dei luoghi di preghiera non può essere per chi è credente terreno di “ierofania” , ma volatile e fuggevole annuncio di una condizione di attesa, la “venuta” è solo evento di interiorità sofferta e fiduciosa.
SENSO
“Pregare è pensare il senso della vita” è un noto aforisma di Wittengstein e proprio su un termine così vago e usurato vale la pena di scomodare il filosofo che, con Frege e Russel, ne statuì invece il valore vincolante. Nelle loro analisi filosofiche, le prime condotte sul linguaggio naturale, ricondotto al rigore logico-matematico, e quindi “emendato” dalla sua impotenza veritativa, il termine senso rappresenta la solidità del vero di un enunciato. Ma, in seguito, data anche la scarsa plausibilità, per il pensiero comune, delle posizioni degli analisti del linguaggio, il termine trasmigra nelle aree semantiche di tipo psicologico e assume un valore indefinito e “aperto”: il rimando ultimativo ad ambiti che proprio non si lasciano ancorare a significati parziali, controllabili, quantificabili. La solidità di riferimento ad una non precisata regione della verità diventa allora nel linguaggio della vita interiore, del simbolo, l’accesso al limite, quindi alle prove del dolore, della speranza. Percepire come minaccia all’umano la “perdita del senso” è caratteristica espressione della angoscia come portato tipico dell’età contemporanea, a partire dalle analisi di Eric Fromm degli anni 50-60, ma delinearne le caratteristiche è impresa illusoria, perché i progetti di pienezza e i percorsi del desiderio restano esperienze profonde e irriducibilmente individuali. Qui sarebbero da sviluppare non solo il ruolo della funzione analogica, della metafora o della metonimia, della libera associazione poetica nel liberare il linguaggio della ricerca teologica dal bagaglio razionalistico; ma soprattutto il problema della comunicabilità di esperienze di fede e di ricerca di senso connotate dalla dimensione soggettiva: nell’ambito di questa ricerca il peso di tali problematiche può restare marginale, ma certo una cultura del dialogo e della prossimità tra portatori di ricerche di fede diverse ne suppone la presa in carico.
SPIRITUALITA’ - SPIRITUALE
Una delle accezioni più diffuse e scontate riferisce questi termini alla vita interiore, ai sentimenti e alle aspirazioni più elevate e disinteressate, alla impostazione religiosa e ascetica della esistenza, quando non esplicitamente devozionale, come in varie esperienze della chiesa cattolica. Qui il rischio e il disagio conseguente all’uso del concetto è vistosamente legato ad una visione dualistica in cui le esperienze “materiali”, non solo corporee, ma soprattutto laiche, quotidiane, prosaiche, vengono squalificate rispetto alla “vita dell’anima”. Fatta salva oggi la evidente inattualità di questa ideologia, che ha comunque segnato in profondità le memorie cristiane dell’occidente, va sottolineato - e ciò ha attinenza con gli argomenti qui trattati - che invece proprio nella sensibilità culturale delle generazioni secolarizzate la ricerca spirituale si esprime in forme di esplorazione profonda dell’esperienza corporea e che l’autenticità della meditazione si avvale del potenziamento sensoriale, della gestualità, dell’ascolto e della disciplina del respiro, di immersione insomma nel proprio corpo vivente. Spiritualità è allora sinonimo di integrità. Parafrasando Hegel, si potrebbe dire “lo spirituale è reale”.
Francesca Bianchi
(continua)
vai alla prima parte vai alla seconda parte vai alla terza parte vai alle conclusioni