Ritengo che l'affermazione della persona umana come valore in sé sia una cosa, la tendenza all'individualismo sia il suo opposto; un opposto che tende a prevalere sul primo termine usandolo come schermo, talora inconsapevole, talora perfettamente lucido. L'affermazione del valore della persona è infatti ambigua: io posso affermare o rivendicare il valore della mia persona di fronte agli altri o alla società, o posso affermare o rivendicare il valore della persona degli altri di fronte alla mia stessa coscienza o di fronte a terzi o alla società. Può sembrare ragionevole sostenere che si tratta di uno stesso valore che va affermato in ambedue i casi: è un principio di carattere generale. Ora, se all'espressione «dignità della persona» diamo il significato cristiano di essere creaturale libero, che sussiste nella sua libertà — e quindi trova la sua ragione d'essere — precisamente nel suo atteggiarsi nei confronti della chiamata di Dio per lui, ogni essere umano ha il fondamentale diritto di decidere su se stesso e sulle sue scelte concrete senza limitazioni esterne a questo suo supremo rapporto con l'eterno. Si noti che questo significato vale anche per il non-credente: basta che comunque assuma o riconosca un'istanza morale che lo giudica, o che — quasi identicamente — dà senso alle sue scelte.
Il sociale implica sempre autolimitazione: più persone debbono mantenere la loro dignità, e pur lasciarsi limitare dall'esterno. Per esempio, a livello di società «Stato» ogni costituzione o legge fondamentale riveste sempre una funzione di difesa della persona, in quanto è sempre — in diversa misura e con strumenti diversi — un limite al potere di limitare dall'esterno, da parte del legislatore ordinario. La riduzione al minimo possibile di tali limitazioni sembra cosa ovvia per ogni difensore della dignità della persona. E invece ovvia non è.
Se io singolo penso in primo luogo alla mia persona, chiederò e politicamente mi adopererò perché il limite sia il più basso possibile, compatibilmente con l'esigenza mia di ricevere dalla società gli aiuti necessari alla migliore espressione della mia individualità o originalità o libera autorealizzazione o chi altro si voglia. Se invece io penso in primo luogo a ogni persona, chiederò e politicamente mi adopererò perché il limite sia sempre il più basso possibile, ma questa volta compatibilmente con l'esigenza che tutti ricevano dalla società gli aiuti necessari alla migliore espressione della loro persona. In questo senso io considero individualismo e personalismo due atteggiamenti opposti, ed è facile capire come il secondo possa servire da copertura ideologica al primo. L'individualista accetta limiti sociali se e perché conviene a lui; il «personalista» accetta limiti sociali se e perché sono utili agli altri. Ciò in fondo riflette la differenza fra la concezione tradizionale dei diritti dell'uomo (dal XVII al XX secolo), e quella lentamente maturata alle Nazioni Unite fino ai «Covenants» del 1966, o ai documenti di Helsinki. Non è molto noto che all'interno del mondo cattolico questa problematica era aperta e viva già negli anni '30, con la discussione sul principio di sussidiarietà, enunciato da Pio XI nell'enciclica «Quadragesimo Anno» (1931), e poi con il dibattito (quasi sconosciuto nel cattolicesimo italiano) sul concetto stesso di bene comune quale fine della società civile.
Il Concilio ha introdotto con autorevolezza un elemento chiarificatore e, a parer mio, definitivo. Cerco di esporlo in forma sintetica, anche se non è cosa facile: i lettori mi scuseranno l'inevitabile approssimazione. Ogni uomo ha una sua originalità e una sua vocazione: di qui nasce un contrasto insito nella vita associata di qualsiasi tipo, fra la espressione di se stesso e il rispetto (e in talune dottrine anche la promozione) della espressione della personalità degli altri. Ma se uno assumesse come senso della propria esistenza la sua relazione di rispetto e di servizio agli altri, se uno vedesse nella vita di relazione (e di relazione del tipo ora detto) il valore o — se si vuole — la basic premise per la sua vita morale, allora il contrasto insito e inevitabile per ogni forma di vita associata cadrebbe. Ed è notevole che il contrasto cadrebbe solo con questa assunzione di valore. Ogni individualismo, e anche un certo personalismo (quello generale astratto che abbiamo ricordato sopra), prevedono un bene o autorealizzazione del singolo che, se può includere l'attenzione all'altro, non si esaurisce mai in essa. Nella nostra ipotesi invece la misura dell'attenzione all'altro è identicamente la misura della autorealizzazione del singolo. Ora questa ipotesi è appunto il cardine dell'annuncio morale cristiano secondo il Concilio, e anche — inequivocabilmente — secondo il Vangelo. In questa logica la realtà di fatto della vita sociale, anche in società a fini settoriali (la Gesellschaft di Tönnies contrapposta alla Gemeinschaft), è sempre un valore in sé prima di essere eventualmente valore strumentale. È curioso come questa logica della vita associata sta assai simile all'idea di Gattungswesen di Marx: è vero che quest'ultima ha carattere descrittivo, mentre la tesi conciliare ha un deciso carattere prescrittivo, ma è poi così sicuro che al fondo della visione marxiana non ci fosse una base valutativa? In ogni caso questa è la logica proposta al mondo cattolico, e all'umanità in genere: una logica che, rispetto alle esperienze politiche e sociali degli ultimi quattro secoli dell'Occidente, è decisamente sconvolgente e difficilmente digeribile. Il vecchio principio di sussidiarietà mantiene tutto il suo valore come condanna di ogni statolatria o centralizzazione totalitaria, ma chiede ulteriori non facili approfondimenti e qualificazioni.
Questa difficoltà di teorizzazione strutturata di un assunto morale non deve sorprendere. È, direi, una condizione normale per lo studioso di etica. Tuttavia la difficoltà potrà esser superata dall'esperienza di tante comunità cristiane. In America Latina, ma anche in Africa, laddove la cristianità non è soffocata o permeata da modelli individualistici, come invece è da noi, là l'esperienza dell'unirsi per agire insieme conduce alla riscoperta del valore della fraternità (o solidarietà o corresponsabilità o condivisione) come valore in sé. Vi è quindi un'apertura sul futuro in cui sperare. La forza e l'importanza della fraternità si manifestano anche da noi: il moltiplicarsi di gruppi o movimenti, il bisogno associativo, è oggi molto forte. Ma nasconde un rischio: il rischio di trasferirvi l'attitudine individualistica, e la tendenza all'individualismo di gruppo. Credo che questa tendenza sia diffusa nel mondo cattolico italiano: vi è una decisa percezione (spesso irriflessa) del valore in sé della vita di relazione, e contemporaneamente vi è una ricerca di identità di gruppo che porta alla contrapposizione con gli altri gruppi. È ciò che ho indicato con individualismo di gruppo. Il volontariato, il rifiuto di ogni massificazione, l'associazionismo fluido, la difesa di una sorta di «privato di gruppo», sono segni di una sofferenza morale. Il problema della nostra vita di «polis» si pone, credo, in questi termini: senza una tensione morale che veda il sociale (e in genere la relazione agli altri) come moralità, non ci sono speranze per l'intera famiglia umana. La distruzione nucleare, la distruzione per fame, la distruzione conseguenza della rivolta sanguinosa dei poveri, non possono essere ormai evitate — a mio modestissimo parere — che con la tensione morale ora detta. Ma una tensione morale, un ideale, non si possono imporre «ope legis». Occorre costruire un consenso, perché una tensione morale divenga fondamento di vita associata. Un consenso intorno a un valore morale non è necessariamente né consenso ideologico né omogeneità filosofica. Purtroppo da più parti, e anche da parte cristiana, si osserva un riflusso antideologico che inconsapevolmente ingloba, o consapevolmente maschera, un rifiuto di consenso su tale valore. Che si saluti con esultanza il tramonto delle ideologie (e spesso in pratica solo dell'ideologia marxista) non è necessariamente un buon segno: è buon segno se si tratta del tramonto di barriere culturali o filosofiche; è un cattivo segno se si tratta del tramonto di cooperazione in vista di valori comuni, capaci di traversare filosofie e tradizioni politiche e sociali diverse. Il tramonto dell'ideologia può essere sia l'insorgere della cooperazione su un consenso etico di fondo, sia l'insorgere di un pragmatismo che vuol dire solo utilitarismo individualista. Non certo attraverso il consenso ideologico o l'imposizione politica di un'ideologia, ma sicuramente solo attraverso il consenso intorno a una base morale si può cambiare l'esistente. E Dio sa se l'esistente dell'oggi della famiglia umana abbia bisogno di essere cambiato: l'esistente economico, l'esistente politico-militare, l'esistente come dominio culturale tramite i «media», non può essere accettato da chiunque si senta chiamato a servire e non ad essere servito, credente o non-credente che sia. È su questo terreno, io credo, che dovrebbe svolgersi il vero dibattito politico, qui dovrebbe riconoscersi il vero spartiacque dell'appartenenza e della militanza politico-sociale. Cambiare l'esistente tragico e disumano richiederà l'impegno morale di molte generazioni. Non ci sono scorciatoie, non sono permesse illusioni: ma più presto si comincia, più presto l'umanità potrà riprendere a respirare.
Enrico Chiavacci
(in Rinascita, 16 novembre 1985, n. 43, pp. 19-20)