1. 'Anche' i sensi
La questione sembra molto semplice. L'uomo ha un intelletto e una volontà che appartengono all'anima: con l'intelletto può credere alla rivelazione di Dio e con la volontà può mettere in pratica i suoi comandamenti. Ma l'uomo ha anche cinque sensi che appartengono al corpo: se l'uomo ha un corpo e dei sensi, anche loro devono svolgere un ruolo nell'ambito della fede e per questo motivo ci sono i riti. La logica è quella dell''anche': anche il corpo e i sensi, quindi anche i riti. A dire il vero, secondo molti, sarebbe meglio non compromettersi troppo con i sensi e i riti dato che una sana e profonda spiritualità dovrebbe concentrarsi sull'interiorità. Non mancano coloro che si oppongono a questo interiorismo, rivalutando le espressioni esteriori e insistendo sull'importanza dei riti, con la malcelata intenzione, però, di voler incrementare la presenza visibile della chiesa nella società. A ben vedere, l'importanza dei sensi e dei riti smentisce tanto l'interiorismo degli uni quanto il presenzialismo degli altri, dato che si fonda su qualcosa di ben più profondo, ossia sulla fede. Mancherebbe l'appuntamento con la verità chiunque dimenticasse che la sensibilità costituisce il luogo originario della rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Dio infatti non si rende sensibile per rivelarsi, ma il suo rivelarsi consiste precisamene nel rendersi sensibile. In altri termini, la rivelazione non è la comunicazione di un messaggio che per essere trasmesso ha bisogno di un supporto sensibile. Dio avrebbe potuto benissimo informare la nostra mente del suo messaggio senza ricorrere ad alcun supporto sensibile e, quindi, senza assumere un corpo e i sensi. Il fatto è che il messaggio consiste proprio nel fatto che Dio ha assunto un corpo e i sensi. In altri termini, Dio non ci salva perché stando con noi ci racconta una bella notizia, ma ci salva perché sta con noi. La fede non consiste anzitutto nel credere in ciò che Dio ha detto attraverso un uomo, ma che Dio si è fatto uomo. La risurrezione, poi, è un inno alla sensibilità dato che Gesù, pur libero ormai dai condizionamenti materiali, mangia e si fa toccare.
La sensibilità è così connessa all'incarnazione e alla risurrezione da costituire il luogo originario in cui si elabora il senso cristiano della vita. Non a caso il 'senso' (il significato) e i 'sensi' (la vista, l'udito, il gusto, l'odorato, il tatto) hanno la stessa radice etimologica. Il 'senso' della vita è nei 'sensi' dell'uomo; il 'senso' della fede è nei 'sensi' di coloro che credono in un Dio fattosi uomo e sensi. Qui emerge un aspetto rilevante. Se la rivelazione è intrinsecamente legata alla sensibilità, allora l'atto di fede è strettamente connesso alla sfera sensibile dei credenti. A un Dio che si fa corpo non c'è altro modo di corrispondere se non con il proprio corpo. Il rito si inserisce in questa condizione dell'esistenza e della rivelazione. Esso è un'organizzazione dei sensi che contiene il senso religioso e cristiano della vita. Con ciò si intende dire che il rito, in quanto organizzatore della sensibilità, non è lo strumento per trasmettere il senso cristiano della vita ma la forma (una delle forme) senza la quale questo senso non può esistere. Naturalmente, quando si dice che il rito organizza la sensibilità umana si deve intendere sia che il rito esiste grazie ai sensi sia che i sensi ricevono l'impronta del rito. Se quindi si vuole comprendere in che modo il rito e i sensi danno forma alla fede occorre tenere presente il doppio versante della questione: non si può trascurare cioè né la rilevanza dei sensi per il rito e attraverso il rito per la fede, né la rilevanza del rito per i sensi e attraverso i sensi per la fede.
2. La rilevanza dei sensi per il rito
In primo luogo occorre sottolineare che i riti religiosi in genere e quelli cristiani in particolare si avvalgono di molteplici elementi, azioni e atteggiamenti che coinvolgono ora questo ora quell'altro senso o più sensi insieme: da tenere presente che il coinvolgimento di cui si parla è costitutivo di quegli elementi, azioni e atteggiamenti. La prima osservazione, quindi, è che tutta la ricca simbologia riconosciuta ai riti non è identificabile, per esempio, con elementi come l'acqua e l'olio oppure il pane e il vino, ma implica i sensi grazie ai quali l'acqua, l'olio, il pane, il vino sono percepiti appunto come acqua, olio, pane, vino. Il valore simbolico non è costituito dall'«acqua», ma dall'«acqua in quanto entra nell'orizzonte dei sensi», perché solo così può evocare qualcosa che abbia senso. Il rito non è fatto dall'acqua e dagli altri elementi, ma dall'«acqua in quanto entra nell'orizzonte dei sensi» e così via per gli altri elementi. Preoccuparsi solo degli elementi del rito, arricchendo quelli tradizionali o introducendone dei nuovi, porta a esperienze per lo più fallimentari: si crede di migliorare le celebrazioni e poi all'atto pratico si rimane piuttosto delusi. L'interesse principale dovrebbe essere rivolto alla 'sensibilità' per imparare che cosa viene effettivamente 'sentito' come simbolico.
Una seconda osservazione, che può aiutare a comprendere meglio la prima, riguarda gli organi di senso. Non dobbiamo dimenticare infatti che i sensi sono funzioni inevitabilmente legate a degli organi. I sensi hanno bisogno di un supporto organico che è fisico quanto gli oggetti che i sensi percepiscono: è fisico tanto l'albero che guardo quanto l'occhio con cui lo guardo. I sensi sono questo incrocio intrafisico tra organo e oggetto: incrocio che è alla base della forza simbolica degli elementi che costituiscono il rito. Si ha congenialità tra la lingua e il pane e non tra la lingua e la luna, oppure tra l'occhio e il quadro e non tra l'occhio e il calore. Nel linguaggio metaforico si possono operare molti scambi, ma la forza delle metafore sta nel non perdere le congenialità originarie. Se dico di vedere il calore e di rappresentarmelo rosso, presuppongo che abbia avuto l'esperienza del calore attraverso un senso diverso dalla vista e un organo diverso dall'occhio. Così la vista è il senso fondato sulla congenialità per esempio tra l'occhio e l'icona, e il gusto è il senso fondato sulla congenialità per esempio tra la lingua e il pane. La disinvoltura con cui nei riti si sono operati scambi poco attenti a queste congenialità fisiche e psicobiologiche, ha finito per indebolire la forza simbolica dei medesimi riti. In tal modo si è arrivati a parlare spesso dei simboli, ma non si è più in grado di 'sentire' i simboli. Si partecipa ai riti, ma non si è in.grado di 'sentire' ciò che in essi avviene perché si sono tralasciati i 'sensi' e quindi l'unità profonda tra l'organo e l'oggetto.
La rilevanza del rito per i sensi
I sensi sono quindi molto rilevanti per il rito e perché il rito sia un'esperienza di fede. Naturalmente non si deve trascurare neppure la rilevanza che ha il rito per i sensi. Dato il ruolo svolto dai comportamenti rituali nell'evoluzione delle specie e nello sviluppo degli individui, si può affermare che il rito ha influito da lungo tempo sulla sfera psicobiologica della sensibilità. Qui, però, interessa sottolineare che occorre quella che potremmo chiamare un'organizzazione contestuale dei sensi, ossia una loro integrazione reciproca secondo il contesto rituale: diversamente non sarebbero in grado di realizzare l'esperienza religiosa e tanto meno l'esperienza cristiana. I sensi, come si è detto, implicano una profonda sinergia tra l'organo e l'oggetto: l'occhio che vede e l'albero visto sono distinti, ma appartengono alla stessa natura, con la conseguenza che la conoscenza del mondo non avviene uscendo dal mondo, ma stando nel mondo. Le religioni e soprattutto la fede cristiana, però, implicano il riferimento a ciò che, in un modo o nell'altro, trascende il mondo. Qui sembrerebbe inevitabile uscire dal mondo. Non secondo la fede cristiana, però, per la quale l'accesso al Dio che trascende il mondo è reso possibile dal Dio che è entrato nel mondo. Ciò che per la fede è un'affermazione fondamentale per il rito è una prassi normale. Secondo il rito, infatti, non si accede a ciò che trascende il mondo lasciando il mondo e la percezione sensibile del mondo, ma riorganizzando la sensibilità e quindi il modo di percepire il mondo.
Potremmo chiamarla 'strategia rituale'. Il rito apre alla realtà che trascende il mondo sensibile non abbandonando i sensi, ma gestendo i sensi in modo liminale: si interrompe l'uso ordinario dei sensi e si accede a un uso straordinario dei sensi. L'uso ordinario è quello per cui a un determinato organo, per esempio l'occhio, viene normalmente abbinato un determinato oggetto, per esempio l'albero: si vede il visibile. L'uso straordinario del rito religioso è quello per cui vengono prodotti nuovi abbinamenti tra l'organo e l'oggetto come vedere e ascoltare ciò che normalmente non si vede né ascolta (o non si deve vedere né ascoltare): cosi nel rito si vede l'invisibile (ciò che ordinariamente è invisibile) e si ascolta l'indicibile (ciò che ordinariamente non si può dire e udire). Il rito vive nel sacro non abbandonando la sfera sensibile, ma gestendo la sfera sensibile secondo la logica della differenza: non la fuga dai sensi, ma la differenza nei livelli della sensibilità rende possibile l'esperienza religiosa. Un caso molto simile è quello dell'arte. L'atto di vedere un pezzo di marmo e la Pietà di Michelangelo per un verso è identico; nel caso della Pietà, però, la sensibilità accede a ciò che è profondamente differente dal semplice vedere un pezzo di marmo. Occorre sempre l'atto del vedere e occorrono sempre quei supporti organici che sono gli occhi, ma il livello di sensibilità è tale da consentire di vedere ciò che ordinariamente (ossia rispetto al semplice pezzo di marmo) non si vede. Se si trascura questa logica artistica e rituale della differenza, si giunge inevitabilmente a concepire il mistero divino come qualcosa di totalmente estraneo alla sensibilità e preda del dominio della mente astratta. Si cade così in una concezione teorica (catechetico-teologica) che parla di cose rispetto alle quali le persone rimangono sempre più 'in-sensibili' e 'in-differenti'. Naturalmente alla base delle scelte, favorevoli o contrarie al rito e ai sensi, sta il modo di intendere l'uomo e l'eterno problema del rapporto tra anima e corpo. Senza addentrarmi in questo problema vorrei concludere con un breve racconto:
Un giorno il diavolo prese un'importante decisione. Ritenendo che l'anima fosse troppo simile a Dio per potergliela contendere, decise di prendere per sé il corpo e avere così almeno una parte sia pur infima dell'uomo. L'intervento di Dio fu immediato (secondo i tempi di Dio naturalmente): lasciò l'anima in cielo e discese sulla terra dov'era il corpo e facendosi lui stesso corpo. Un angelo, piuttosto sorpreso da questo atteggiamento di Dio, gliene chiese i motivi. L'Onnipotente sorrise e gli rispose con un leggero tono di rimprovero: «Non sai che l'uomo ha un'anima, ma è un corpo? Certo non giova a nulla all'uomo salvare tutte le sue ricchezze se perde la sua anima, ma che se ne fa della sua anima se perde il corpo?».
Giorgio Bonaccorso
(da Rivista di Pastorale Liturgica, n. 1, 2011, p. 4)