Formazione Religiosa

Venerdì, 04 Maggio 2012 22:48

Il volto debole di Dio (Marco Tibaldi)

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Interrogativi e riflessioni sulla "verità" della religione nell'epoca attuale. Al pari delle grandi epoche del passato, la nostra travagliata era, il postmoderno, è in grado di offrirci un aiuto per cogliere un aspetto "nostro" dell 'unico mistero di Dio?

Da duemila anni ogni generazione cristiana, inculturando il vangelo nella propria storia, ci ha consegnato un diverso volto di Dio e della sua icona Gesù di Nazareth. Un tipico esempio di questa molteplice varietà con cui l'unico mistero è stato colto e riproposto si può ammirare nella diversità delle ambientazioni e ricostruzioni dei medesimi episodi che ci offre l'arte sacra. Per questo chiunque sia dotato di un minimo senso critico può cogliere e gustare la differenza tra la natività raffigurata in un'icona della tradizione bizantina o la stessa dipinta da Giotto o da Raffaello.
Ogni epoca ha colto qualche scintilla dell'ineffabile mistero e, secondo la logica dell'incarnazione, l'ha espressa con le immagini, i concetti e i riferimenti ad essa propri.
Tutto ciò sembra essere andato irrimediabilmente in crisi con la crescita della sensibilità moderna, che più di ogni altra epoca ha partorito e fatto crescere un'avversione crescente verso la religione cristiana. Ateismo, secolarizzazione, nichilismo, crisi della morale sono l'eredità che il moderno ha lasciato all'epoca successiva, ciò che da più parti ormai viene definito come postmoderno. Può quest'epoca così controversa aiutarci a scoprire, o a ri-scoprire, un tratto dell'unico mistero di Dio che sia "nostro", tanto da far sì che un domani, come oggi si parla di un Gesù fiammingo o bizantino, si possa parlare del Gesù postmoderno?
Con questo articolo intendiamo proseguire quanto dicevamo nel n. 36 di Settimana, ove abbiamo iniziato a evidenziare alcuni segnali di ripresa di interesse per la "questione Dio" anche nella nostra difficile epoca.

Un dibattito attuale e fecondo

Per cercare di intuire se esistono e che forma hanno i lineamenti del volto di Dio postmoderno, cercheremo di scendere più in profondità, ascoltando le riflessioni di un filosofo "laico", che si scopre non senza sorpresa anche un pò teologo e quelle di un esegeta e teologo di razza, che affronta, meno inaspettatamente, anche questioni filosofiche. Stiamo parlando di Gianni Vattimo, il cui ultimo libro Credere di credere (Garzanti, Milano 1996), ha sollevato un interessante dibattito sul senso della riscoperta di Dio nell'epoca postmoderna che stiamo attraversando e di p. Silvano Fausti sj, che con il suo Elogio del nostro tempo (Piemme, Casale Monferrato 1996), dimostra come tale dibattito possa essere recepito e valorizzato all'interno di un'utentica tradizione evangelica ed ecclesiale.
Il libro di Vattimo sembra infrangere la classica divisione, sancita autorevolmente da B. Pascal, tra il Dio dei filosofi e il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Esso infatti intende parlare del fecondo, quanto insperato, incontro tra le recenti riflessioni filosofiche di uno dei "fondatori" del cosiddetto "pensiero debole", con uno dei misteri fondamentali del cristianesimo: l'incarnazione del Figlio concepita paolinamente come un processo di continuo e irreversibile "svuotamento" (kenosi).
Significativo - come dice lo stesso Vattimo nelle prime pagine del libro - è il fatto che queste sue riflessioni siano profondamente radicate in un cammino personale di ricerca e scoperta che è la sorgente profonda della sua produzione scientifica e, come accade molto raramente, è qui interpretata alla luce del suo travagliato percorso biografico.
Il suo percorso personale è una parabola che descrive bene l'itinerario di tanti uomini e donne dei nostri tempi. Vattimo, cresciuto ed educato cristianamente, ha abbandonato la chiesa da un lato per aver trovato ormai insostenibili le ragioni della "metafisica cristiana" e parallelamente per non aver trovato riconoscimento e accoglienza nella sua scelta o scoperta (lui stesso non decide nel testo) di essere omossessuale.
In particolare è stata quest'ultima realtà che gli è servita come chiave di lettura per mettere a nudo quelle che lui definisce come le "superstizioni della chiesa", come la metafisica naturale su cui si fondano la dimostrazione delle prove dell'esistenza di Dio o il diritto naturale.
Da queste premesse si è dipanata la sua ricerca che, sulla scia di F. Nietzsche e di M. Heidegger, e approdata alla definizione di una "ontologia debole", che a suo dire, dovrebbe rimediare i guai, primo tra tutti l'intolleranza e la violenza verso il diverso, provocati dalla metafisica classica e cristiana.
Tuttavia questo percorso, che così delineato sembra essere la condanna definitiva del cristianesimo, in realtà, giunto alla sua maturità, si ritrova inaspettatamente a scoprirsi strettamente legato e dipendente da uno dei suoi misteri fondamentali: l'incarnazione del Figlio. Vediamo come e perché.
Un primo dato offertoci dalla riflessione di Vattimo è il riconoscere, per così dire, la valenza altamente teologica dei tempi che stiamo vivendo. L'affermazione di primo acchito può risultare paradossale, se pensiamo al giudizio sostanzialmente negativo che, normalmente, circola in ambito cristiano sulla modernità e sul post-moderno. Sono queste infatti le epoche segnate dal progressivo allontanamento ddll'uomo da Dio, in tutti i settori della propria esistenza. A cominciare dall'anima che, dopo aver cessato di essere il ricettacolo dello Spirito, è divenuta l'estenuante campo di scontro delle oscure forze che la psicologia indaga, per finire con il mondo che, divenuto ormai adulto, si è emancipato dal suo vecchio Padre. Dio stesso è stato messo in discussione e a poco a poco allontanato e condannato all'inesistenza dall'uomo che si è sentito unico padrone e Signore dell'universo. E ciò anche grazie allo sviluppo della scienza e della tecnica, che ha reso l’esistenza umana sempre più libera dai condizionamenti e dalle necessità della natura, tanto da fargli accarezzare l'antico sogno dell'onnipotenza.
Ora è proprio all'interno di queste epoche che però, a ben guardare, si possono ritrovare dei germi di novità evangelica. Per Vattimo il processo di emancipazione da Dio anziché rafforzare il senso di onnipotenza dell'uomo ha avuto come suo esito ultimo l'incontro con il nulla, la scoperta cioè che dietro ai suoi tentativi di dominare l'universo si cela l'inquietante scoperta del vuoto assoluto. Spieghiamoci meglio.

Riflettendo sul concetto di "essere"

Lo sviluppo enorme che la tecnica ha avuto negli ultimi anni - dice Vattimo sulla scia di Heidegger - è la diretta applicazione di quelle premesse che troviamo formulate nella metafisica tradizionale. Questa, a cominciare da Platone fino a Hegel, considera il suo campo di studio, l’essere, come un oggetto immenso, che l'io conoscente può, con perfezione crescente, scoprire e manipolare. Se nella classicità e lungo il medioevo ancora veniva riconosciuta una certa superiorità all'essere sull'io che lo conosce, nell'epoca moderna, fin dentro al nostro secolo, si è ribaltata la prospettiva, tanto da giungere alla scoperta che è l'uomo stesso l'artefice dell'essere colui che non solo scopre, ma dà il significato alle cose e decide cosa sia reale e cosa no.
Questo è precisamente ciò che fa la tecnica, che con il suo straordinario potere oggi consente all'uomo di realizzare cose impensabili anche solo un secolo fa, come condizionare il clima (pensiamo all'effctto serra), raggiungere altri pianeti (la conquista della Luna e ora di Marte), mettere in contatto in tempo reale tutte le parti del globo (Internet).
Tuttavia queste esaltanti scoperte della scienza e della tecnica se, da un lato, hanno ingenerato la speranza di poter entro breve risolvere tutti i problemi dell'uomo, rendendolo così effettivamente onnipotente, dall'altro, nelle menti più acute, hanno fatto intravedere una ben più triste realtà. Se è l'uomo infatti il costruttore dell'universo, se cioè egli lo può inventare a suo piacimento, allora nulla è più stabile, nulla è più definibile una volta per tutte, ma tutto diventa dipendente dalla sua volontà. Tutto è variabile, riscrivibile, reinventabile appunto perché la "sostanza" ultima della realtà è il vuoto, il nulla, che solo la volontà può cercare di organizzare
Siamo così di fronte alla scoperta che se è l'uomo colui che decide in senso assoluto il significato di tutto ciò che accade, alla fine più nulla è vero, in quanto tutto lo può diventare. Se tutto dipende dalla mia volontà allora nulla è dato una volta per tutte e ogni esperienza naufraga prima o poi nel mare dell'insignificanza. È questo il nichilismo, l'esito ultimo della modernità, la parola d'ordine che descrive l'epoca postmoderna come l'epoca in cui, secondo Vattimo, occorre «prender atto esplicitamente che l'essere, la realtà sono posizione, prodotto del soggetto» (p. 20).
Di fronte a questo smacco, secondo Vattimo, occorre ripensare all'essere della metafisica tradizionale, non più in termini di oggettività e di presenza, ma in termini di sottrazione e di indebolimento. L’essere che l'uomo indaga non è quindi una struttura oggettiva che la sua ragione può cogliere, ma bensì una realtà sottile perennemente ritraentesi, che parla tramite appelli e sussurri, che non vuole imporre la sua verità una volta per tutte e che provoca l’uomo a una costante opera di attesa, ascolto e interpretazione.

Le molteplici implicazioni religiose

Le implicazioni religiose di questi discorsi sono molteplici. Innazitutto Vattimo interpreta la scoperta di questa concezione "debole" dell'essere come una "trascrizione dell'eredità cristiana" (p. 31), nel senso che egli vede nella teoria dell'essere che si rende debole una, per così dire, parabola filosofica del mistero dell'incarnazione del Figlio. Questi, come san Paolo dice a più riprese, ha subìto un processo di svuotamento (kenosi) delle prerogative divine per poter essere effettivamente amico dell'uomo.
Vattimo disegna così un doppio parallelismo.
Il primo è quello tra la concezione "forte" dell’essere della metafisica tradizionale, responsabile a suo dire della genesi di ogni forma di intolleranza, e il Dio della religione, un Dio che non fa altro che soddisfare i desideri di onnipotenza dell'uomo.
Il secondo è quello tra l'ontologia "debole" dell'essere, fondamento di una possibile tolleranza, con il volto "debole" del Figlio incarnato, che si è spogliato dei suoi attributi "forti" per essere vicino a ogni uomo. In questa linea egli interpreta positivamente il variegato fenomeno della secolarizzazione intesa come «il processo di "deriva" che slega la civiltà laica moderna dalle sue origini sacrali…» (p. 33).
La secolarizzazione infatti non sarebbe altro che un processo di purificazione dell'autentica fede dalle incrostazioni che una religione imbastita attorno al soddisfacimento dei bisogni umani avrebbe creato. È questa la religione e il Dio smascherato da L. Feuerbach come "proiezione" dei desideri del cuore umano. È la religione violenta che applica anche a Dio il ricatto del  do ut des che vige tra gli uomini. Ed è soprattutto la religione e il Dio che hanno bisogno continuamente di capri espiatori da punire esemplarmente per ristabilire l'ordine violato.
Questa religiosità di tipo naturale, che sacralizza la vittima in quanto essa viene offerta per placare le ire del divino e, per Vattimo, che segue su questo i famosi studi dell'antropologo francese R. Girard (La violenza ed il Sacro, Adelphi, Milano 1980), ancora presente in molta teologia cattolica, che «perpetua il meccanismo vittimario concependo Gesù Cristo come la "vittima perfetta", che con il suo sacrificio di valore infinito, come infinita è la persona umano-divina di Gesù, soddisfa pienamente il bisogno di giustizia per il peccato di Adamo» (p. 29).
Ora possiamo capire meglio perché la secolarizzazione abbia una funzione purificatrice della fede. Essa con il suo prendere le distanze da questo tipo di religiosità sacrale e violenta, che si compendia nel volto «minaccioso e bizzarro del Dio delle religioni naturali» (p. 37), ci provoca alla riscoperta del vero volto di Dio. E qui riemerge il legame con l’ontologia debole e con l'essenza nichilista considerate come radici del postmoderno.
Dire che la realtà non è data una volta per tutte e così l'uomo che la interpreta, significa mettere in crisi il concetto di fondamento perenne e stabile, rifiutare le affermazioni definitorie. Tale processo, però, se letto in chiave cristiana, non è altro che la "trascrizione" dell'amore debole di Dio per le sue creature, un amore che non termina mai, che si rifiuta di porre un limite all'amore per l'altro, per questo «l’infinità mai terminabile del corso del nichilismo è forse motivata solo dal fatto che l'amore come senso "ultimo" della rivelazione non ha alcuna vera ultimità; e d'altra parte la ragione per cui la filosofia, alla fine dell'epoca della metafisica, scopre di non poter più credere al fondamento, alla causa prima oggettivamente data davanti agli occhi della mente, è che si è accorta (essendo stata educata a ciò anche, o proprio, dalla tradizione cristiana) della violenza implicita in ogni ultimità, in ogni principio primo che metterebbe a tacere qualunque ulteriore domandare» (p. 63).
Alla luce di questo volto riscoperto di Dio vacillano le fondamenta teoriche dell'ateismo poiché «oggi non ci sono più plausibili ragioni filosofiche forti per essere atei, o comunque per rifiutare la religione» (pp. 18,66).
Vattimo, insomma, è contro ogni forma di dogmatismo definitorio che pretenda di dire l'ultima, infallibile parola sul come stanno le cose, sia che si tratti dei dogmi della chiesa cattolica, che di quelli, per lui altrettanto perniciosi, delle varie consorterie atee. Su questa linea troviamo anche la condanna della teologia e del diritto naturali, e dei relativi precetti morali che ad essi si richiamano, considerati come un residuo di una naturale quanto arretrata «mentalità superstiziosa».«»
Per questi motivi egli stesso ritiene di dover fare una sorta di apologia del «mezzo credente» in quanto avverte che, a torto o a ragione, questa lettura del cristianesimo, di fatto, coincide solo in parte con la tradizione che lo ha trasmesso sino ad oggi. Si raggiunge così al massimo una problematica e non ancora ben definita fede che non supera il gradino del «credere di credere». anche se ulteriori evoluzioni non sono di principio escluse o escludibili.

La postmodernità come occasione insperata

Di diverso tenore, anche se non dissimili in molti punti, sono le considerazioni di S. Fausti il quale legge, anch'egli contro ogni evidenza, nei nostri tempi, un'insperata occasione di riscoperta del Vangelo. La modernità e il suo compimento postmoderno sono infatti, per lui, segnali della «ricerca e attuazione della libertà» che, lungi dall'essere un ostacolo, può invece essere intesa come «il presupposto umano migliore per intendere e annunciare, il vangelo» (Elogio del nostro tempo, p.16) Così ciò che frettolosamente viene considerato come un nemico per la trasmissione del cristianesimo, può invece essere scoperto come un suo diretto alleato. «Forse per la prima volta nella storia - prosegue Fausti - aiutati da ciò che temiamo, capiremo ciò che da sempre sappiamo: Gesù è colui che restituisce l'uomo alla sua pienezza di verità e di libertà, la libertà dell'amore e la libertà dei figli» (p. 17).
La sfida che il cristianesimo è oggi chiamato a raccogliere è quella di continuare, fedele alla sua ispirazione originaria, a inculturare il suo messaggio, anche se oggi il novum davanti a cui ci si trova è un «"novum"  ancora indefinito e indefinibile, perché senza memoria e senza tradizione» (p. 14).
Davanti a questa sfida è facile cedere alla tentazione, o di considerare il proprio passato come un idolo da conservare immutato e immutabile, o di chiudersi in una «cultura dal piagnisteo», che alla fine impedisce di avere sul mondo di oggi, quello in cui unicamente si vive la propria avventura, lo sguardo che ne ha Dio.
Per questo Fausti ci invita a cercare di «guarire dalla nostra "anti-patia" verso il mondo, contraria allo spirito di Dio, per partecipare alla sua stessa "sim-patia" (compassione)» (p. 16). E questo però non per rinnegare la radice santa da cui proveniamo, ma proprio per meglio «scoprire il dono che ci fu elargito fin dal principio» (p. 17).
La sua analisi si dipana quindi in quattro parti.
Nella prima egli descrive i principali caratteri della modernità evidenziando il ruolo decisivo che in essa gioca la scoperta progressiva della libertà come un dato di fatto ormai compiuto nella nostra epoca. Tale processo è iniziato con lo sviluppo della tecnica, che affranca l'uomo dai bisogni della natura, è poi cresciuto a dismisura con la diffusione dei mezzi di comunicazione, che ormai possono con il loro sconfinato potere giungere persino a far sì che siano le notizie a creare i fatti e non viceversa, e si esprime, infine, nella sfera dei comportamenti, ove ormai regna incontrastata una pluralità spesso inconciliabile di modelli e stili di vita. Tutto questo fa sì che l'uomo dei nostri tempi sia «ormai condannato alla libertà reale».
L'analisi sin qui delineata non è tuttavia ingenua, in quanto l'autore è ben consapevole dei rischi che questo processo comporta. Infatti, al termine di questo primo capitolo in una serie di incalzanti interrogativi si chiede se alla fine questa libertà da tutto non rischi di sfociare in una libertà per il nulla, come se il «destino della libertà» sperimentata dai moderni non sia altro che quello di uno «strano occhio che vede solo se stesso», o peggio ancora, come quello di «un folle che taglia il ramo su cui è seduto» (p. 54). Il mito che per Fausti riassume i rischi dell'uomo contemporaneo è quello di Icaro, che con il suo ingegnosissimo espediente alla fine è volato troppo vicino al sole ed è precipitato nel mare. Il pericolo del naufragio della libertà è reale e vicinissimo.
Nella seconda parte dell'opera l’autore ci presenta tre incarnazioni di questo pericolo riconosciute rispettivamente nella religione, nell'ateismo e nel nichilismo. Qui ritroviamo alcune delle suggestioni già offerteci a Vattimo, soprattutto in relazione a un uso distorto della religione intesa come protezione dei propri desideri di dominio sull'altro e su Dio.
Fausti riconduce questa religiosità tutta umana dei bisogni, alla figura evangelica del "fratello maggiore" della parabola del Padre e dei due figli (Lc 15.11-32), che viene assunto come «prototipo della persona "religiosa"» (p. 60). Egli è sordo al richiamo della festa data in onore del fratello peccatore e dissoluto, che il Padre riaccoglie con gioia infinita nella sua casa. E’ chiuso nei confronti della libertà del Padre poiché è prigioniero di una falsa immagine di Dio, il Dio della "religione" appunto.
Tale immagine, comune a tutte le religioni, secondo Fausti, consiste nel vedere in lui «un padre giusto e giudice, onnipotente e onnisciente, a differenza di noi, che in tutto siamo limitati». Verso questo Dio, però, come verso gli uomini che abbiano simili attributi, il sentimento prevalente è quello dell'invidia, anche se «non potendo ribellarci e uccidere decidiamo di servirlo».
Dietro a una facciata rispettabile di ossequio si celano, quindi, sentimenti di rivalità, poiché questo Dio è «vissuto come l'antagonista, il nemico vero della nostra libertà, il limile intrasgressibile della nostra felicità». In questo caso, anche se ammantato  di buoni e pii sentimenti, «l'uomo è sacrificato a Dio, il Moloch che si sazia del suo sangue! E’ il grande peccato: il peccato della religione (Barth)» (p. 61).
Una spia della diffusione di questa mentalità è l'atteggiamento delle religioni nei confronti della modernità, che spesso rivivono le ansie del fratello maggiore e quindi, come lui, di fronte al banchetto imbandito dal Padre «o ne resteranno fuori con ostinazione, facendo sette di giusti, o cercheranno di entrare per distruggere, coalizzandosi in movimenti fanatici, sotto la bandiera di Dio, della legge o della natura, a seconda dei gusti. O, più facilmente, cadranno nell'insignificanza, lasciando all'uomo il suo vuoto di senso, con il disastro che ne consegue» (p. 62). Per questo diventa conseguente di fronte a un tale Dio, l'ateismo, che ha un suo aspetto di verità nella «negazione di un Dio che nega l'uomo» (p. 67). Per questo diventa più chiara l'affermazione sopra riportata di Vattimo, che di fronte al crollo di un certo tipo di immagine di Dio, viene meno anche la denuncia provocatoria dell'ateismo e dell'agnosticismo. Questi, tuttavia, restano però dei pericoli costanti della libertà poiché, se non si evolvono, restano prigionieri di un sommo inganno in quanto «alla fine esaltano un uomo che non esiste, esattamente come il Dio che negano» (p. 68).
La terza risposta inadeguata al raggiungimento della libertà è infine, per Fausti, il nichilismo, che viene considerato, dopo l'ateisino/agnosticismo, come il terzogenito del Dio della religione così come è stato designato: «Per la religione Dio è tutto, ed è nulla di ciò che c'e. Ne segue che tutto ciò che c'è, non essendo Dio, è nulla; è solo ciò che non è. L'affermazione religiosa di Dio, come pure la sua negazione per affermare l'uomo al suo posto, porta necessariamente alla conversione di tutto in nulla» (p. 71).

Verso la "proposta impossibile"

Dopo aver con Nietzsche decretato la «morte di Dio», del Dio della religione, l'uomo si trova davanti all'angosciosa scoperta del vuoto e del nulla. Finalmente «conseguita la libertà da tutto, l'uomo ha davanti solo il niente» (p. 71). L’uomo che si fermi qui rischia di diventare un re senza ormai più un regno, oppure, può proseguire la riflessione sulla libertà per chiedersi se, oltre alla libertà da, esista ancora la possibilità di scoprire una libertà per. E’ qui che si innesta la novità evangelica.
Nella terza parte del libro viene presentata la "proposta impossibile" del volto di Dio così come la Bibbia ce lo presenta. Qui non troviamo tanto «un Dio infinito che limita l'uomo con i suoi divieti» quanto piuttosto «l'esperienza di un Dio persona, che è padre e madre, fratello e amico, alleato e sposo, principio e fine, la cui caratteristica di fondo è la "grazia", ossia la bellezza, l'amore, la gioia, il dono e il perdono, pienezza di felicità in sé che vuole comunicarsi a tutti» (p. 81).
Questo Dio è la netta antitesi del Dio della religione e la riprova è costituita dal suo diverso atteggiamento nei confronti della mia trasgressione verso di lui. Nei confronti del "Dio della religione" solo la stretta osservanza della legge fa sentire, non senza i sentimenti ambigui del fratello maggiore, in comunione con lui. L'infrazione inevitabile a tale legge, allora, genera il senso di colpa inteso come «coscienza della distanza tra ciò che sono e ciò che dovrei o vorrei essere» (p. 81). La trasgressione, invece, nei confronti del Dio personale di cui ci parla la Bibbia si può sempre risolvere in un'esperienza di salvezza, poiché qui la felicità non è determinata tanto dall'osservanza della norma, quanto piuttosto dalla comunione d'amore con lui e con gli altri. È all'interno di questa relazione d'amorc che si può cogliere l'autentico senso del peccato inteso come «coscienza della mia distanza da colui che mi ama» e che, a causa del mio peccato, non cessa di riamarmi come istintivamente (o religiosamente) sono portato a pensare, ma che, al contrario, trae occasione, proprio dal mio peccato, per amarmi ancora di più.
È qui che il credente sperimenta la vera essenza di Dio come misericordia, che ha sempre una parola di perdono e di accoglienza per colui che trasgredisce. E’ qui che si può vedere all'opera l'amore di Dio che «ha il potere di liberare le potenzialità positive dell'uomo più di ogni legge» in quanto «giustifica sempre e comunque il peccatore; condanna invece il peccato, perché appunto fa male al peccatore. Separa il malato dal suo male, e lo libera per il bene» (p. 82).
Fare questa esperienza di perdono conduce al grido entusiasta che la liturgia propone nell'annuncio pasquale della felix culpa. E questo libera da una percezione «nevrotica» (ancora Vattimo, p. 73) e frustrante del rapporto con il sacramento della confessione che da triste rassegna delle proprie sconfittc, può diventare occasione per sperimentare la creatività dell'amore di Dio, che ha fatto sì che «laddove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).
Questo Dio libera l'uomo dalle false immagini di lui, dal bisogno di conquistare la sua fiducia tramite l'osservanza di una legge esteriore e nell'esperienza dell'essere perdonato anche nella sua più grande riprovazione, gli fa fare l'esperienza fondamentale di un'accoglienza senza riserve. Per questo «II Dio di Gesù non è né legge né potere: è datore di libertà, di amore e di vita. Gesù, il Figlio dell'uomo, è il Figlio di Dio, fratello di tutti gli uomini, che ci libera da ogni schiavitù, cominciando da quella di Dio" (p. 86). Questo Dio libera anche l'uomo non solo dalle false immagini di Dio, ma anche dalle sue conseguenti negazioni come l'ateismo e il nichilismo, per far sì che la libertà da tutto si faccia finalmente libertà per tutto.
Al termine della sua opera Fausti propone una serie di suggestioni per dare un risvolto operativo al suo discorso. Ne raccogliamo due che sintetizzano quanto abbiamo cercato di dire. La prima suggestione riguarda il tono generale della predicazione e della catechesi: «Quanto ancora, teoricamente e praticamente, favoriamo l'equivoco di un Dio legge, divieto, sacrificio dell'uomo, antagonista della sua realizzazione? Dov'e il Padre che premia con una festa il figlio trasgressore, e vuole che anche il "giusto" partecipi alla sua gioia per il fratello (Lc I5,32)?» (p. 108).
Lo stesso avviene nei confronti della nostra opinione verso il mondo moderno verso il quale può essere buono chiedersi: «Ho gli stessi sentimenti del Padre e del Figlio, che ha dato la vita per "questo" mondo, per queste sorelle e questi fratelli, e non per un "mondo migliore", o per sorelle e fratelli migliori? Ho la sua stessa stima che l'ha condotto a consegnarsi nelle loro mani, perché abbiano la vita (Gv 3,16). Riesco ad accogliere ogni diversità, a lasciarmene interpellare, a farmene carico?» (p. 114).

Marco Tibaldi

 

Letto 3646 volte Ultima modifica il Lunedì, 22 Aprile 2013 13:51
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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