I commentatori sono divisi nell'inquadrare cronologicamente questo brano del Tritoisaia: per alcuni il testo riflette le problematiche dell'immediato dopo esilio, quando il tempio non è ancora ricostruito;[i] per altri andrebbe datato all'epoca di Neemia, verso la metà del V secolo a.C; o addirittura al primo periodo ellenistico (fine IV sec. a.C.). L'oscillazione dipende dal fatto che le indicazioni interne al testo sono estremamente rarefatte: con certezza si può dire solo che i due temi portanti di Is 58, ovvero il digiuno[ii] e il sabato, assumono un rilievo crescente dopo il ritorno dall'esilio. In Israele vengono istituiti dei giorni di digiuno fissi durante l'anno, a commemorazione della presa di Gerusalemme e della distruzione del tempio,[iii] e il sabato diventa sempre più importante come fattore di identità religiosa.
L'architettura del testo
Is 58 è un poema che presenta un'articolazione letteraria sofisticata, giocata sulla ripetizione di parole-chiave e sulla variazione di figure e schemi retorici che puntano verso un approfondimento graduale del pensiero. Ironia, cambi prospettici, domande si intrecciano creando nuove associazioni di idee.
La prima strofa comprende i vv. 1-4 ed è delimitata dall'inclusione del termine qôl (voce) in connessione alla radice rwm che veicola l'idea di altezza.[iv] All'interno della strofa, si segnalano le ricorrenze del termine jôm (giorno)[v] e dei verbi e sostantivi derivanti dalle radici swm (digiunare/digiuno)[vi] e hps (compiacersi/diletto, affare che sta a cuore).[vii] Queste ripetizioni conferiscono unità alla strofa e fanno emergere la questione centrale del testo che ruota intorno al legame tra giorno e digiuno (nel senso di un digiunare limitato ad un solo giorno), e all'autocompiacimento che deriva da certe pratiche religiose.
Il v. 5 funge da cerniera: è in forma interrogativa e in esso compaiono di nuovo, insieme, i termini jôm e sôm (digiuno) negli stichi a e c.
Seguono tre strofe accomunate dallo schema premessa-conseguenza. In 58,69a, il Signore spiega in cosa consiste il vero digiuno[viii] attraverso due domande retoriche introdotte dalla formula h’lô (forse?: vv. 6a.7a) e seguite nei vv. 8a.9a dalla particella ‘āz; (allora) che introduce la conseguenza. In 9b-12 il discorso viene approfondito sempre attraverso lo schema protasi ('im: v. 9b) apodosi (we: v. 10b): rispetto alla strofa precedente, la portata delle conseguenze positive di un retto comportamento etico-comunitario è raddoppiata (sei stichi al posto di tre) in modo da concludere l'esortazione condizionata enfatizzando il risvolto salvifico. Infine, nei vv. 13-14 viene ripreso il termine jôm (settimana e ultima ricorrenza), operando il passaggio dal tema del digiuno a quello del sabato. Questi due versetti sono costruiti variando ancora lo schema premessa-conseguenza.[ix]
La linea di forza che attraversa il testo va da una ipocrita commistione di giorno e digiuno (vv. 1-5) fino alla corretta definizione dei due termini che implica la loro divaricazione. Il digiuno si trasforma in una costante prassi di aiuto a chi è più debole (vv. 6-12), mentre il giorno diventa il vero sabato, consacrato al Signore (vv. 13-14).
Il digiuno capovolto
Is 58 si apre con un appello intenso di Dio rivolto al profeta, ritmato da quattro forme volitive,[x] le prime tre legate per asindeto che ineriscono al modo con cui il messaggero deve parlare e l'ultima introdotta da un we (e) che riguarda il contenuto da comunicare. La voce del profeta che è autorizzato da Dio, deve levarsi con forza «come una tromba» per annunciare l'iniquità di Israele. L'immagine della tromba richiama la denuncia vigorosa di Osea (Os 8,1), mentre il messaggio dell'oracolo ricalca le parole di Mic 3,8. La ripetizione della preposizione le (a, per) pone in parallelo i destinatari, il «mio popolo»[xi] e la «casa di Giacobbe», che sono accomunati dall'accusa di peccato. Due termini diversi descrivono questa inclinazione negativa: peša’ (v. l b), usato al singolare, indica la trasgressione dell'uomo, la ribellione che infrange la relazione con Dio ovvero il peccato fondamentale; il plurale hattā'ôt (v. 1 b) designa, invece, le diverse scelte sbagliate, i singoli peccati. Il waw che apre il secondo versetto ha valore disgiuntivo (però, eppure) e, insieme alla posizione enfatica di 'otî (me), marca il senso di meraviglia e di ironia che emerge da parte di Dio davanti all'atteggiamento del popolo: Israele pecca, «eppure proprio di me va in cerca». Il verbo drš (cercare: v. 2a) viene prolungato da hps (v. 2a) che indica il compiacersi nella conoscenza delle vie di Dio; in 58,2c si parla di un continuo consultare Dio per avere delle decisioni giuste, di un dilettarsi (hps) nella vicinanza del Signore. Sono tutte azioni che riguardano il culto, le pratiche religiose, il contatto con sacerdoti e profeti che comunicano i responsi di Dio relativi alla vita individuale e comunitaria. Sembra esserci grande fervore, ma la nota stridente appare in quel ke (come) del v. 2b: Israele si comporta «come» un popolo che attua la giustizia e non abbandona il suo Dio. Questo «come» smaschera l'ipocrisia e mette in luce la contraddizione latente: di fatto Israele è lontano dal Signore in quanto vive nell'ingiustizia. In 58,3a un'interrogativa diretta illumina con vivacità il punto di vista del popolo: «perché noi digiuniamo e tu non vedi?». La domanda è un lamento per il mancato riconoscimento da parte di Dio, ma nasconde anche un'accusa che svela il tipo di rapporto religioso coltivato dal popolo. La prassi cultica, i digiuni, le mortificazioni hanno lo scopo di ottenere qualcosa da Dio, intendono manipolare il Signore per assicurarsi la sua benedizione. Si tratta di una religiosità strumentale, mezzo per un fine e, se lo scopo non viene raggiunto, allora si accusa Dio di distrazione, senza mettere in questione la propria condotta.
I vv. 3b-4a, introdotti dalla particella hēn (ecco) che serve ad attirare l'attenzione, denunciano questa falsa religiosità: il digiuno è accompagnato dall'oppressione, dalle contese, dai soprusi iniqui. Emerge l'acuto contrasto tra il culto e l'ingiustizia che impasta le relazioni interpersonali. Il verbo ngś («angariare») ricorda la schiavitù d'Egitto (Es 3,7; 5,10.13.14), ma ora l'oppressione è perpetrata da Israele a danno del fratello.[xii] Rîb e massāh (v. 4a) indicano l'attitudine litigiosa e il verbo nkh (colpire: v. 4a) descrive il comportamento violento di chi percuote l'altro con malvagità. Il fraintendimento totale quasi risuona nei vv. 3b.4a mediante l'allitterazione e l'inversione delle consonanti s/m:sōmekem timse’û - umassah tāsûmû. Il digiuno è stravolto perché è autocompiacimento, un perseguire il proprio interesse[xiii] senza scrupoli. Per questo la voce di Israele non viene ascoltata da Dio, il Signore non riconosce tali atti di culto, resta sordo alle invocazioni (v. 4b).
Nel v. 5 emergono ancora alcuni tratti concreti che accompagnano la pratica del digiuno: piegare il capo come una canna, fare un giaciglio di sacco e cenere (v. 5b). Sono gesti tradizionali che vengono fissati in modo icastico e inquadrati all'interno di tre domande retoriche che presuppongono una risposta negativa: forse è questo il digiuno che preferisco? Forse è questo che voi chiamate digiuno?
Il digiuno che Dio vuole
Nel v. 6, con una contro-domanda che ricalca la formulazione di 5a, il Signore delinea il digiuno che gli è gradito. È la settima e ultima ricorrenza del termine sôm: il numero sette ha un valore simbolico di completezza e totalità e quindi il digiuno che viene descritto deve essere inteso come il digiuno perfetto. In 58,6bc, tre infiniti rafforzati da un imperfetto di tipo volitivo, esprimono la prima esigenza essenziale che inerisce al nuovo modo di comprendere il digiuno: occorre spezzare i vincoli che opprimono, liberare gli afflitti. Affiora in controluce il tema dell'esodo, insieme al ricordo più vicino e bruciante del giogo babilonese. Se il Dio di Israele è un Dio che libera, i rapporti interpersonali devono essere toccati dall'impronta di questa libertà donata. In 7ab il quadro viene completato con un'altra serie di indicazioni: bisogna dividere il proprio pane con l'affamato, ospitare chi è senzatetto, vestire chi è nudo (cf Mt 25,35-36). La novità del testo non sta nel contenuto, ma nel rapporto inusitato e sorprendente che c'è tra queste azioni e il digiuno. Non si dice di fare opere di misericordia al posto del digiuno, ma che queste opere sono digiuno. L'associazione richiede un approfondimento. Nel digiuno uno rinuncia a qualcosa di se stesso, ma ciò può ridursi ad un autocompiacimento; nel digiuno voluto da Dio, si deve rinunciare a qualcosa di proprio per l'altro e l'altro è il povero, qualcuno che non può dare il contraccambio. L'apertura all' altro, il non distogliere lo sguardo della necessità del prossimo,[xiv] il prendersi cura della fragilità[xv] di ogni uomo definiscono il vero digiuno. Non si tratta di qualcosa da fare in un giorno stabilito, del comodo e rassicurante digiuno di un giorno, ma di un'attenzione costante. A questo è vincolata la benedizione espressa in Is 58,8-9a: la presenza della particella 'āz (allora: vv. 8a.9a) segnala il carattere condizionato della recezione dei beni salvifici che sono descritti come un erompere di luce (v. 8a), un risanamento delle ferite (v. 8a), come un percorso guidato dalla giustizia[xvi] e scortato dalla gloria di Dio (v. 8b).[xvii] Il senso di queste immagini è sintetizzato nella battuta che conclude la strofa: «allora tu invocherai e il Signore ti risponderà, griderai aiuto ed Egli ti dirà "eccomi"». La preghiera ascoltata che inverte la situazione del v. 3a, è il segno certo della presenza e della protezione divina: il cuore della relazione religiosa non è l'adesione ad un sistema astratto di principi o di ideali etici, ma il godere della vicinanza del Signore.
In 58,9b-12 il pensiero è approfondito, dando maggiore spazio alla promessa di beni. Il vero digiuno investe anche la sfera della gestualità e della parola: in 9b vengono biasimati il puntare il dito, gesto di derisione, di disprezzo (vedi Prv 6,13), di accusa e maledizione, e il parlare malevolo, l'uso iniquo della lingua per offendere e danneggiare il prossimo. Il v. 10a è interessante:
«Se donerai (A) all'affamato (B) la tua vita (C) e la vita (C') afflitta (B') sazierai (A')».
La struttura chiastica del versetto pone al centro una corrispondenza tra il proprio nepeš[xviii] e quello dell'altro: occorre tirare fuori il proprio fiato, dare se stessi per sfamare l'altro. Il digiuno autentico non consiste nel rendersi affamati, ma nell' alleviare la fame altrui. Il verbo śb' (saziare) ricorre significativamente di nuovo nel v. 11a, facendo emergere la corrispondenza tra premessa e conseguenza: chi si spende per saziare la fame del fratello, sarà a sua volta saziato da Dio. Śb' indica pienezza, completezza: implica l'eliminazione della fame fisica e si rapporta al desiderio profondo e inappagato che sta nel cuore dell'uomo. Nel v. 11a si specifica che Dio «ti sazierà in terreni aridi»: il deserto, luogo impossibile per la vita dell'uomo, simbolo di aridità, anche di aridità umana, si trasforma grazie all'azione di Dio. L'abbondanza dei doni salvifici si dispiega in 10b-12, rinfrangendosi in una serie di immagini suggestive: la luce del v. 8a diventa lo splendore abbagliante del meriggio, l'accompagnamento divino (v. 8b) si muta in una guida costante, non solo la ferita si rimargina (v. 8a), ma le ossa saranno rese vigorose. Israele sarà come un giardino irrigato, simbolo di pienezza di vita, di ricchezza di beni. Le rovine antiche verranno ricostruite: anche sulla distruzione di Gerusalemme, su una devastazione che è indizio palese del fallimento umano, si stende la benedizione di Dio; il dolore condiviso, la cura per il bisogno dell'altro, la compassione profonda cementano le fondamenta di una comunità rinnovata nella solidarietà.
Il sabato, giorno consacrato al Signore .
La settima ricorrenza del termine jôm in 58,13 collega i versetti conclusivi alla prima parte del capitolo (vv. 1-5) e insieme indica che il sabato è il giorno perfetto, completo. Come notano molti commentari, il sabato non viene tratteggiato come riposo assoluto per sé e la propria famiglia (cf Es 20,10; 23,12; Dt 5,14-15), ma in termini di santificazione. Il sabato è 'ōneg «diletto», è giorno santo, cioè separato dal tempo ordinario e consacrato a Dio, deve essere onorato.[xix] Il rispetto del sabato comporta il trattenere il piede, ossia l'astenersi dai viaggi (cf Es 16,29), il non praticare (āśāh) i propri affari (hēpes al plurale con suffisso), il non fare (āśāh) le proprie vie (derek indica la condotta), il non trovare il proprio diletto (hēpes al singolare con suffisso), il non parlare parole vuote.[xx] In questa sequenza la doppia ricorrenza del verbo (āśāh) e la ripetizione del suffisso di seconda persona singolare indicano che il sabato richiede uno spostamento da se stessi verso Dio e una rinuncia all'attività come ansia della produttività, come rincorsa frenetica al trafficare. Il sabato è tempo di festa, il tempo in cui guardare al proprio lavoro con gli occhi con cui Dio guarda la creazione, cioè come se fosse completo. Il sabato è tempo di gioco e di gratuità, è dilettarsi in Dio. Al v. 14 il verbo 'ng compare all'hitpael, una forma intensiva riflessiva: nel sabato il proprio piacere coincide con Dio, è in Dio (vedi Gb 22,26 e Sal 37,4.11). Al v. 14 la celebrazione del sabato si accompagna a due immagini tradizionali di benedizione tratte da Dt 32,9.13: Dio farà cavalcare ad Israele le alture della terra e gustare l'eredità di Giacobbe. L'osservanza del sabato comporta il godimento dei beni delle promesse antiche, la terra e 1'eredità.
Conclusione
Il rapporto tra vita e culto è sempre stato al centro del discorso profetico (Amos, Osea, Isaia, Michea): il Tritoisaia, come i profeti antichi, non critica la prassi cultica per se stessa, ma denuncia l'iniqua mescolanza di atti religiosi e ingiustizia. In particolare, in Is 58, si scardina la concezione di un digiuno limitato ad un giorno prestabilito, come prassi esterna e autoreferenziale. Il digiuno viene ridefinito in termini di un costante esercizio di misericordia a favore del fratello oppresso e il bilanciamento cultico avviene tramite una purificazione del sabato. Ciò che conta nella vita e nella relazione religiosa è l'apertura all'a/Altro.
Cristina Termini
(da Parole di Vita, n. 6, 1999)
Note
[i] Il Tritoisaia sarebbe contemporaneo di Aggeo e del Proto-Zaccaria.
[ii] Il digiuno rappresenta una pratica tradizionale in Israele e si addice a diverse occasioni: è un modo per prepararsi a ricevere una comunicazione divina (2 Sam 28,20), oppure per propiziarsi il favore di Dio prima di una battaglia o dopo una sconfitta (Gdc 20,26; l Sam 14,24); è in ogni caso un segno di contrizione e di pentimento (1 Sam 7,6; Gl 1,14; 2,12.15).
[iii] Vedi Zc 7,3 e 8,19 in cui si parla di un digiuno nel quarto, quinto, settimo e decimo mese.
[iv] Is 58, 1a: hārēm qôlekā, «alza la tua voce»; 58,4b: bammārôm qôlekem, «in alto la vostra voce».
[v] 4 volte: vv. 2a (2x).3b.4b.
[vi] 4 volte: vv. 3ab.4ab.
[vii] 3 volte: vv. 2ac.3b.
[viii] È da rilevare che nel v. 6 compare la settima e ultima ricorrenza di sôm.
[ix] Il v. 13a è introdotto da 'im e in 14a compare 'az.
[x] «Grida ... non desistere ... alza la tua voce ... e annuncia».
[xi] Questa espressione richiama la formula dell'alleanza che fonda il diritto di Dio alla querela.
[xii] Contro le indicazioni di Dt 15,2.
[xiii] Nell'AT, l'espressione māsā hēpes ricorre solo in Is 58,3b.13c: i commentari sono incerti se significhi «trovare il proprio piacere» o «ciò che sta a cuore/l' affare». Le due sfumature, comunque, non sono in contraddizione l'una con l'altra.
[xiv] Vedi Dt 22,1.3-4.
[xv] Questa è la sfumatura del sostantivo bā’sār (carne) in 58,7b.
[xvi] Il termine non ha significato morale: per il parallelismo con gloria, indica il Signore stesso.
[xvii] L'immagine e il vocabolario militare ricalcano Is 52,12 che parla dell'uscita da Babilonia.
[xviii] Questo termine significa «alito», «gola», «vita».
[xix] Il verbo kbd appare due volte in 13bc.
[xx] La ripetizione della radice dbr (parlare) in dabbēr dābār suggerisce un vano blaterare.