Dei vizi e delle virtù
La gola
di Cettina Militello
Metonimia per cibo o bevanda, la gola, approssimativamente organo di passaggio del cibo, diventa indicativa di vizio davvero difficile da focalizzare nella nostra situazione culturale. Come si fa a parlare di peccato, anzi di vizio capitale, nel bombardamento ossessivo sul mangiare e bere di cui siamo fatti oggetto? Ci si improvvisa esperti di vino, olio, pasta, carni, formaggi, dolci. Alla rude e schietta - direi austera - considerazione del cibo nella cultura contadina, si sono sovrapposte un'ossessiva cura del dettaglio e una smisurata elegia dei sapori- odori e della vista che ha anch'essa la sua parte, visto che spesso il cibo è proposto come opera d'arte, effimera certo, ma sufficiente a deliziare gli occhi e l'odorato oltre che il palato.
Inutile dire che quella esigua parte di umanità, che diligentemente distingue le sfumature delle cipolle o delle patate e diversamente le associa a carni o pesce o verdure, coesiste con quella parte maggioritaria a cui è negato il nutrimento stesso e per la quale, dunque, gli arpeggi olfattivi e gli accordi gustativi contano assai poco, anzi non contano affatto nella lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Il paradosso sta proprio qui: di mangiare e di bere abbiamo assolutamente bisogno. Senza cibo e acqua resistiamo molto poco. E d'altra parte, cibo e acqua scarseggiano, non bastano per tutti, nel senso che la loro distribuzione ingiusta consente a pochi d'essere obesi, in senso reale e in senso metaforico, mentre costringe molti a ischeletrire per fame e sete. Che mondo sia mai questo nostro che convive pacificamente con tali paradossi, è meglio non commentare. Tant'è che quando, dalle nostre parti (ma anche "fuori del tempio") sentiamo tanto battagliare a favore della vita, la domanda spontanea è pur sempre: ma di che parliamo?
Come possiamo da cristiani (da uomini e donne) avallare un mondo che condanna a morte ogni giorno centinaia di migliaia di esseri umani, donne e bambini soprattutto? Come possiamo da cristiani (da cittadini) avallare un ordine economico e politico mondiale che disprezza i bisogni primari della maggioranza dell'umanità e la schiavizza, addirittura, o di fatto la sopprime, nulla anteponendo al proprio progetto egemone?
Il rapporto sbagliato con il cibo
La gola, tuttavia, nella sua connotazione "viziosa", non tocca tanto questo dramma, quanto piuttosto il rapporto scomposto e aberrante con il cibo. Il goloso è colui che vive solo per mangiare. Per lui la vita non ha altro scopo che questo: abbuffarsi, ingurgitare oltre misura, satollarsi. «Non mangiare per vivere, ma vivere per mangiare». Né la questione riguarda la qualità, riguarda piuttosto la quantità. In gioco è la saturazione da crapula, il riempirsi sino a scoppiare.
In ciò concordano i maestri medievali. Tommaso (STh, II/II, q. 148,a. 4) recepisce da Alessandro di Ales e da Alberto Magno il verso «praeponere, laute, nimis, ardenter, studiose». In modo stringato e breve, quasi formula da mandare a memoria, questi termini, supportati da un più ampio rinvio a Gregorio Magno (Moralia XXX, 18) ci dicono che alla fine il nodo non tocca il mangiare e il bere quanto piuttosto le circostanze degradanti del mangiare e del bere. Far incetta di cibo, prim'ancora che ne insorga il bisogno, eccedere nella qualità e nella misura, buttarcisi dentro con bramosia, passare di sapore in sapore, di odore in odore, sempre faticosamente ricercando qualcosa di nuovo. Detto altrimenti, è la bestialità che il vizio evidenzia, un regredire dal livello dell'umano, un bloccarsi alla istintualità incapace di ricevere ed elaborare il segnale di sazietà. In questo ritorno all'indietro conta solo l'appagamento immediato e smodato delle esigenze primarie - simmetrico alla immediatezza in cui certa ascesi smodata condiva di cenere il proprio pasto.
Il che però apre la strada non solo al degrado ma alla malattia. «Ne uccide più la gola che la spada», recita un antico proverbio. E, in effetti, la gola, il vizio della gola, incentiva tutta una serie di disfunzioni metaboliche che non stiamo a elencare. Là dove il rapporto con il cibo non è guidato dalla ragione ma dalla cruda animalità, finisce con l'essere irrilevante la conseguenza. Conta solo la soddisfazione immediata e, ripeto, smodata. Ma gli esiti sono quelli che ben conosciamo, comunque autodistruttivi. Proprio per ciò nell'attuale temperie culturale, il vizio della gola non appare tanto nel suo tratto etico di peccato (offesa grave a Dio e ai fratelli, al creato), quanto come segnale di un cattivo rapporto con noi stessi, con il nostro corpo e a seguire con gli altri.
Obesità e, all'opposto, anoressia, e, ancora più infida nell'uso/disuso del cibo, la bulimia, più che come vizi si connotano come malattie, segnaletiche corporee di squilibri profondi a livello psichico. Il cibo, in fondo, è figura dell'accettazione/rifiuto di sé, come tale capace di aprirmi o congedarmi dalla vita e dagli altri, più o meno consapevolmente. Diventa così davvero difficile distinguere tra vizio e malattia, tra responsabilità e irresponsabilità. Si può, se mai, osservare che l'attenzione eccessiva a modelli estetici, l'insistenza unilaterale su un corpo sano/bello, incentiva talune malattie da disfunzione alimentare. Possiamo così più che imputarle ai singoli, imputarle alla società nel suo insieme e ai suoi modelli.
Le nuove generazioni
L'appello alla cultura e ai suoi modelli (devianti o deviati) richiede poi una attenzione speciale al bere. Le cronache registrano gli innumerevoli incidenti legati all'alcolismo e al bere fuori misura. Fragile e facile via d'uscita ai mali dell'esistenza — è una sorta di costante culturale — ci è divenuto drammatico nell'uso che dell'alcool fanno le giovani generazioni. Il che ci riporta ancora a Tommaso (STh Il/Il, q. 148,a. 6) e alle filiazioni del vizio della gola, soprattutto prolifica nella direzione del bere (non a caso, sempre nella Summa le questioni che seguono riguardano la sobrietà e l'ebbrezza). Sbornia lieta/triste senza motivo, scurrilità, indecenza, multiloquio senza senso, scemenza della mente. Aggiungiamo che il cocktail perverso di oralità che intreccia pasticche e alcool, nuova figura del vizio della gola, ci mette dinanzi alla perdita di sé, della propria coscienza, e ci rende capaci di azioni violente riprovevoli: stupro e omicidio inclusi.
Il diletto vizioso del gusto, il ricorso ossessivo al mangiare e al bere non si configurano soltanto come preambolo tacito al suicidio, ma come attentato gravissimo alla vita degli altri. Il che non può non allertarci come comunità ecclesiale e comunità civile circa il senso della vita così fortemente incrinato soprattutto nelle ultime generazioni. Se mi si consente un salto semantico, è la nostra gola profonda, la nostra bestiale cupidità d'avere tutto a ogni costo, il nostro ossessivo consumare la vita, nella frenesia di un oggi che non ha memoria e che non ha futuro, a produrre lo scompenso che viviamo e a cui non riusciamo a dare correttivi.
Si dice "gola" ma s'intende "vita". È la nostra sbornia di potere, la nostra sazietà ad ogni costo, la fame mai sanata di contare e di esserci a "far gola". Perennemente a caccia di successo, avidi come siamo di denaro, sordi e ciechi in nome della carriera, ubriachi di noi stessi e dei nostri cosiddetti principi, ci siamo spinti su una soglia vergognosa, alienante e demenziale che non dà alcun senso alla vita, che non dà più senso al futuro. Rielaborando al contrario il mito di Giove e Urano, abbiamo divorato Dio, facendoci Dio al suo posto. La nostra fame ha divorato il mondo. E ora guardiamo impotenti quelli cui abbiamo sottratto la speranza.
Il vizio della gola, deprecabile e riprovevole com'è, nella sua abdicazione alla ragione, al controllo di sé, al discernimento tra bisogno ed eccesso, diventa dunque metafora del cancro che ci corrode e dal quale dobbiamo pure uscire, noi che la speranza l'abbiamo. Solo la sobrietà, cioè la compostezza del vivere, solo il rispetto degli altri e del mondo, cioè di tutto quanto esiste con noi, solo il riconoscimento del limite, cioè della realtà qual è, solo la professione autentica della nostra creaturalità potrà condurci a quella convivialità agapica, cifra del nostro essere cristiani, sfida utopica per un mondo pienamente redento.
(da Vita Pastorale, n. 4, 2009)