Nella mattinata del 14 luglio 1902 il campanile di Piazza S. Marco a Venezia si schiantò al suolo accompagnato da un immenso boato e da una nube di detriti e di polveri. Il lugubre crollo venne immortalato da alcune fotografie in bianco e nero? Che dire dei fortunati fotografi? Furono bravi, in realtà, nel manipolare false fotografie, nessuno trovandosi già pronto, in attesa della catastrofe, con il cavalletto e la macchina predisposta. Se l'avvenimento fosse capitato un secolo prima, magari in concomitanza con la firma del trattato di Campoformio o, meglio ancora, nel corso dello sfrenato carnevale del 1796 (ritenuto il più lussuoso, febbrile e sfrenato che la memoria abbia conservato) avrebbe avuto ben altre valenze simboliche.
In realtà, la caduta del campanile veniva a suggellare quanto già da tempo accaduto. E non bastò la fulminea delibera del Consiglio comunale per la sua immediata ricostruzione. Venezia era ormai scomparsa e quello che resta non sono altro che frammenti d'una antica, ma ormai perduta, consunta esistenza.
Babilonia la grande, la possente città che dominava popoli e nazioni era sicura, circondata dalle sue ciclopiche mura. E se il persiano Ciro avanza, cingendo d'assedio la città, quale altro modo può dimostrare il sommo disprezzo per l'invasore straniero se non celebrare una magnifica festa? Gli storici greci Erodoto e Senofonte e l'ebreo Giuseppe Flavio (che cita il babilonese Beroso) narrano la rapida conquista di un regno che si reputava invincibile. Ciro non affronta la dura resistenza delle mura, ma fa deviare le acque dell'Eufrate in alcuni canali che circondano Babilonia. I suoi uomini hanno così modo di risalire il greto del fiume fin oltre le mura della città. In soli tre giorni Ciro può penetrare nella città, praticamente senza combattere. Era il 16 del mese di tishri del 539 a.C. «Ciro prese Babilonia e diede ordine che le mura esterne fossero demolite, perché la città gli aveva causato molti guai» (Giuseppe Flavio, Contro Apione).
Anche Cartagine era una grande città, potenza marittima e commerciale. Colonia fenicia, ben presto superò lo splendore delle città della madrepatria fondando a sua volta colonie in Spagna e conquistando l'intera costa occidentale nordafricana. Contese con continue guerre ai greci il comando sulla Sicilia, dominando a lungo la parte occidentale del Mediterraneo. Cartagine, che per molti anni rese insonni le notte dei senatori e dei consoli romani, venne alla fine sconfitta e Scipione, dopo aver ordinato la demolizione delle mura, sparse sulle sue macerie il sale, gesto intriso di sinistri adombramenti, imponendo così l'impraticabilità di possibili rinascite e rivincite.
La vincitrice, Roma, non subì pari sorte della rivale, ma giunse il tempo in cui le schiere di Alarico la misero al ferro e al fuoco, saccheggiandola. Odoacre, deponendo Romolo Augustolo - ricordato unicamente perché fu l'ultimo imperatore romano - sancì la caduta dell'impero anche se a cadere fu soltanto la testa del padre dell'imperatore, Oreste. E se in tempi moderni bastò una piccola breccia, nei pressi di Porta Pia, per decretare la fine del potere temporale dei Papi, cosa lega l'antica Roma alla caotica città moderna?
Gli storici tramandano la fine di Bisanzio ad opera delle armate del sultano Maometto II fornendoci una data: 1453 d. C. La caduta della millenaria Costantinopoli compie l'esaurirsi di una crisi prolungatasi per secoli. Per quanti anni le matrone bizantine salirono la sera sui bastioni della città per scrutare l'orizzonte, turbate dalla preoccupazione, dal timore dell'imminente arrivo di orde arabe, bulgare o turche? Il senso della fine e della catastrofe, diffuso da un perenne stato d'assedio - i confini dello stato che andavano sempre più restringendosi, racchiudendosi intorno alla città - scorreva nelle vene degli abitanti, sommergendo le loro notti ed i loro sogni.
«Quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?» (Luca, 13,4).
Gli studi di ingegneria civile spiegano che una torre od un campanile hanno spesso una vita limitata nel tempo. Dopo circa otto/nove secoli sopravviene il collasso e la costruzione si schianta al suolo. Gli antichi egizi, che vollero lasciare segni della loro credenza nell'immortalità - dopo la morte le loro anime navigavano verso lo splendido Occidente - costruirono con le piramidi strutture che avrebbero potuto resistere al logoramento del tempo.
La torre è la costruzione maschile per eccellenza. Il simbolo del potere e della virilità. Esprimere la propria affermazione su di una città, su di un territorio o, come nel racconto biblico di Babele, il tentativo dell'uomo di affrancarsi dagli Elohim - con il suo esperimento di arrampicarsi nel loro mondo, i cieli, e di abitarci. Ed il crollo di una torre, per un maschio, mette in movimento inconsci drammi. Le paure di una sua mancata virilità. Il terrore che il suo oggetto di desiderio resti lontano, non irraggiungibile, ma negato al possesso, al proprio appagamento nel piacere, dalla più frustrante delle delusioni maschili, l'impotenza. Quando crolla una torre, crolla il mondo dei maschi, con tutta la loro pretesa di potere, di durata e di dominio.
Narra una leggenda che la Grande Muraglia sia visibile anche dalla Luna. Ma si tratta soltanto di una leggenda. La costruzione, benché possente e maestosa, è ben poca cosa e già da un cielo prossimo si vanifica in un indistinto, breve orizzonte. I grandi imperi sono come le torri, come le antiche mura di una città o di un limen che fu eretto per sbarrare l'avanzare di nemici. Che durino millenni o anche solo il volgere di pochi grappoli di anni. Che siano intessuti di lacrime e sangue o percepiti come concordia di popoli diversi. Crollano. Nel silenzio dell'indifferenza o nel frastuono delle armi. Tra i pianti degli arroganti e le grida di gioia, i canti di giubilo degli oppressi.
E viene il vento e disperde la polvere.
Faustino Ferrari