L’uomo nuovo nell'epistolario paolino
di Ettore Franco
In un'epoca di transizione molte sono le proposte di cambiamento, ma spesso la delusione succede all'illusione quando le speranze riposte in "novità" risolutrici e decisive rivelano poi la loro fallacia nella contingenza storica e mostrano il limite ineliminabile di ogni progetto umano, sempre inadeguato e mai definitivo. Per quanto velata di scetticismo, resta profondamente saggia, perché inverata dall'esperienza, l'antica affermazione: "Quel che è stato sarà / Quel che si è fatto si farà ancora / Niente è nuovo di quel che è sotto il sole / Di certe cose si dice - Guarda / Questa mai vista cosa - / E sono cose che già sono state / Nei tempi stati prima di noi" (Qo 1,9s).
Le affermazioni paoline sulla "novità" dell'essere dell'uomo, pur in scrivendosi nell'anelito profondo e perenne verso un cambiamento positivo, non si collocano su un piano emotivo o sociologico; non rispondono a un "prurito" per qualcosa di diverso (cf 2 Tm 4,3). Si fondano invece sulla consapevolezza di una trasformazione comunitaria e personale, già avvenuta e insieme tendente a una piena realizzazione, a partire da un evento decisivo, che ha segnato la vita dell'apostolo e di altri con lui, ovvero la "novità", il senso nuovo eppure antico e futuro della vita, della storia e del mondo. In questa prospettiva vogliamo leggere le poche espressioni paoline sull'"uomo nuovo", cercando di puntualizzare quale sia e come sia stata compresa l' esperienza che ha segnato la "novità" della vita di Paolo; come e in quali contesti la sua comprensione di fede sia diventata annuncio ed esortazione a camminare "in novità di vita"; come infine ciascuno di noi sia oggi chiamato a vivere e riproporre lo stesso "annuncio di novità".
1. Paolo "nuova creatura"
Nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo scrive: "Se uno [è] in Cristo, [è] nuova creatura" (2 Cor 5,17). L'espressione dipende dall'affermazione principale, che, con formulazione concisa, presenta l'evento del Cristo per noi e la nostra nuova relazione vitale con lui: "Uno è morto per tutti: dunque tutti sono morti; ed egli per tutti è morto, affinché quelli che vivono, non più per se stessi vivano, ma per colui che per loro è morto ed è risorto" (5,14s). Il senso è poi ripreso ed esplicitato nell'affermazione finale: "Colui che non aveva conosciuto peccato, per noi peccato [Dio] lo rese, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui" (5,21). In una sola parola l'evento Cristo è "riconciliazione" (5,19s), passaggio dalla schiavitù del peccato e della morte, cioè dalla non-relazione con Dio, alla libertà dei figli, cioè alla relazione con Dio. In Cristo morto e risorto si è manifestata la giustizia di Dio che, chiamando alla comunione col Figlio (cf 1 Cor 1,9), fa diventare ciascuno quello che deve essere in relazione a Dio e agli altri, già ora in questo mondo e per sempre alla fine.
Firmando la lettera ai Galati, Paolo, riprende concisamente l'argomento centrale del dibattito: "Quanto a me non sia mai che mi vanti se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, attraverso il quale per me il mondo è stato crocifisso e io per il mondo. Né la circoncisione infatti vale qualcosa, né l'incirconcisione, ma [l'essere] nuova creatura (o creazione)" (Gal 6,14s). In termini personali Paolo pone al centro della sua esistenza, come segno discriminante tempo e spazio, la croce di Cristo. Prima di questo evento il mondo è diviso tra circoncisi e incirconcisi, dopo non più. Coloro che pretendono fermarsi al "prima" e imporre il segno esteriore della circoncisione sono schiavi della legge, del peccato e della morte, e vanificano così la croce di Cristo, perché cercano di riportare sotto la schiavitù dalla quale Cristo ci ha liberati (cf GaI5,1). Questo "mondo di prima" non esiste più per Paolo e Paolo non esiste più per questo mondo. Nella croce di Cristo ogni cristiano è diventato "creatura nuova": "lo infatti attraverso la legge alla legge sono morto affinché per Dio viva. Con Cristo sono stato insieme crocifisso: vivo ma non più io, vive in me Cristo. La vita che ora continuo a vivere nella carne, la vivo nella fede, quella nel Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,19s).
Il tema della "nuova creazione" - già presente nell'AT ("il Signore crea una realtà nuova [bara' lhwh hadashâ]", Ger 31,22; cf ls 43,18s; 65,17) e ripreso negli scritti rabbinici per designare sia il proselita che entra a far parte della comunità d'Israele, sia l'israelita rinnovato dal perdono nella festa di capodanno - acquista per il fariseo Paolo una portata unica che illumina la comprensione della sua vita intera a partire dall'incontro con Cristo. Il passato con tutti i suoi titoli di vanto (FiI 3,5s; cf Gal 1,13s) è diventato senza valore, perdita e spazzatura (FiI 3, 7s); il presente è trasfigurato dall'intima relazione personale con il Cristo crocifisso e risorto (FiI 3, 7-11; cf Gal 1,15s), che attraverso il suo Spirito vivificante (cf 1 Cor 15,45) ha reso Paolo "figlio" col Figlio (cf Gal 4,4-6; Rm 8,15-17), "servo" libero col Servo liberatore (1 Cor 9,1.19; cf 2 Cor 4,5; Gal 1,10; Rm 1,1), "nuova creatura" (2 Cor 5,17; Gal 6,15) e "apostolo dei pagani" (Rm 11,13; cf 1,5; Gal 2,8); il futuro orienta e anima tutta la sua esistenza come corsa e lotta (cf Gal 2,2; FiI 2,16; 3,12), come quotidiano con-morire con Cristo (2 Cor 4,10s; cf FiI 3,10) per essere degno della definitiva conformazione a lui (Fil 3,21; cf Rm 8,29).
Avendo sperimentato la trasformazione radicale che l'incontro con Cristo e la conseguente intima relazione vitale con Lui hanno operato nella sua persona, Paolo può dire di se con piena consapevolezza: "Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo" (1 Cor 11,1; cf 4,16; Fil 3,17). Si presenta dunque come un esempio vivente di quella "nuova creatura" che tutti sono chiamati ad essere e a vivere già ora, per diventarlo poi in pienezza alla fine.
2. Cristo e l'uomo nuovo
Ciò che è avvenuto in Paolo sulla via di Damasco (cf At 9,3-18) avviene in ogni credente attraverso l'adesione di fede e il battesimo.
In Rm 6,1-11 non c'è l'espressione "uomo nuovo", ma una equivalente ("camminare in novità di vita" en kainóteti zoês peripateîn, 6,4) e il suo opposto ("il nostro uomo vecchio" ho palaiòs hëmon ánthropos, 6,6). Accomunandosi ai destinatari, Paolo dice: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato" (6,6). Nell'affermazione traspare l'esperienza di un'esistenza inautentica, quella di Paolo e di ogni cristiano prima dell'incontro con Cristo.
L'uomo vecchio è il giudeo reso schiavo dalle pretese della legge (cf Rm 7,75), il pagano schiavo di questo mondo (cf Rm 1,225), l'uomo in genere soggetto alle insidie della "carne" (cf Rm 8,75), sottomesso alla potenza del "peccato" e alla conseguente inevitabilità della "morte" ( cf Rm 5,12). Questo "uomo vecchio" è stato "crocifisso con Cristo" quando, attraverso il rito del battesimo, è stato associato all'evento unico della morte e risurrezione del Cristo: "O ignorate che quanti fummo battezzati in relazione a Cristo Gesù fummo battezzati in relazione alla sua morte? Fummo dunque sepolti con lui attraverso il battesimo in relazione alla sua morte, in modo che, come risuscitò Cristo dai morti in forza della gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita. Se infatti diventammo e rimaniamo dinamicamente uniti a lui in forza dell'espressione percettibile della sua morte, ma allora lo saremo anche della sua risurrezione" (Rm 6,3-5). Sulla croce, attraverso il battesimo, l'uomo vecchio, schiavo del peccato, è crocifisso, morto e sepolto con Cristo e, nella risurrezione di Cristo, grazie alla comunione interpersonale, ricevuta e accolta nell'adesione di fede, il cristiano è già partecipe della vita nuova, anche se lo sarà pienamente con la risurrezione corporea. Ecco l'uomo nuovo, che, partecipe della vita del Risorto, è "morto al peccato e vivente per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6, 11).
Concludendo il paragone con la donna che alla morte del marito è libera di passare a un altro legame (Rm 7,2s), Paolo afferma che i cristiani, morti a ciò che li teneva legati, appartengono a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti (7,4), e con lui sono servi liberi " nella novità dello Spirito e non nel vecchiume della legge" (en kainótoti pneúmatos kaì ou palaióteti grámmatos, 7,6). Il passaggio è reale per quanto misterioso: la novità dello Spirito, comunicata una volta per sempre nel Crocifisso-Risorto e partecipata attraverso il battesimo e l'adesione di fede, trasforma i peccatori in giusti e santi, i nemici e lontani in familiari di Dio come figli e figlie nel Figlio, l'umanità egoista e dispersa nel corpo di Cristo e nella nuova creazione di Dio.
La trasformazione, avvenuta una volta per sempre sulla croce e applicata al cristiano in forza dell'adesione di fede e del battesimo, è così espressa in GaI 3,26s: "Tutti, infatti, siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in relazione a Cristo, vi siete rivestiti di Cristo". La fede, come adesione personale al Cristo morto e risorto, e il battesimo, come partecipazione sacramentale all'evento unico della morte e risurrezione del Cristo, comunicano il dono della figliolanza, cioè stabiliscono il credente nella nuova relazione filiale col Padre nel Figlio attraverso lo Spirito (cf GaI 4,4- 7; Rm 8,14-17). Non si tratta solo di un passaggio di proprietà/appartenenza dal potere della legge, del peccato e della morte alla potenza della fede, della giustizia e della grazia, ma di una trasformazione dell'essere. L'essere "nuova creatura" è espresso qui con "rivestirsi di Cristo". L'espressione è all'indicativo, non all'imperativo; non implica cioè l'esortazione a un rivestimento esterno e superficiale come imitare o riprodurre gli atteggiamenti o i sentimenti di Cristo, ma l'accoglienza dell'atto gratuito di Dio che comunica in Cristo il nuovo principio vitale di tutta l'esistenza, il punto di riferimento unico che trasforma tutta la vita.
Rivestirsi di Cristo è essere ri-creati in Cristo, essere figli nel Figlio unico, essere già ora incorporati al Risorto. Ed è proprio la relazione vitale col Risorto che fonda l'unità dei credenti e qualifica l'umanità nuova, nella quale le differenze - sul piano religioso tra Giudei e Greci, sul piano civile tra schiavi e liberi e sul piano sessuale tra maschio e femmina - vengono semplicemente negate: "Non c'è Giudeo ne Greco, non c'è schiavo né libero, non c'e maschio e femmina: tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,38). Tutti i battezzati, incorporati a Cristo in forza dell'adesione di fede in Lui, formano quindi un solo "uomo nuovo" in Cristo (cf Ef 2,15), l'umanità nuova inseparabile dal Risorto.
La lettera agli Efesini così ricapitola e sviluppa in una mirabile sintesi teologica l'evento che rivela la "creazione dell'uomo nuovo" (Ef 2,14-18):
" Proprio lui infatti è la nostra pace;
egli che ha fatto dei due uno, abbattendo il muro di separazione, l'inimicizia, nella sua carne, abolendo la legge dei precetti [espressi] in prescrizioni, per creare entrambi in se stesso in relazione a un solo uomo nuovo, facendo pace, e per riconciliare con Dio ambedue in un solo corpo attraverso la croce, uccidendo in se stesso l'inimicizia.
Egli venendo annunciò pace a voi i lontani e pace ai vicini, poiché attraverso di lui e gli uni e gli altri possiamo avere accesso in un solo Spirito presso il Padre".
Il contesto richiama la divisione religiosa esistente prima di Cristo tra giudei e pagani (Ef 2,11s); "ora, in Cristo" (nynì dè en Christôi, 2,13) ogni divisione è superata in una "comunione nuova" che non mortifica nessuno, ma valorizza tutti. Non si tratta di giudaizzare i pagani odi paganizzare i giudei, ma di "creare" un nuovo modo di essere, una umanità nuova, al di là di ogni diversità. Questa è l'opera di Cristo, qualificata non solo negativamente ("abbattere", "abolire", "uccidere"), ma molto più positivamente ("fare uno", "creare", "riconciliare", "fare/annunciare pace", "diventare via d'accesso", "essere pace") .Questo è il "mistero" di Dio che si attua in Cristo e mediante Cristo. li, C'è chi riferisce " uomo nuovo " a Cristo, nuovo Adamo, capo dell'umanità nuova; ma ritengo che non si debba ridurre la pregnanza dell'espressione. Sottolineando il senso dinamico della preposizione eis "in relazione a", sembra emergere un significato più profondo. Certo, Cristo è l'uomo nuovo, perché egli ri-crea "in se stesso" coloro che rende partecipi della sua vita di Risorto; ma i riconciliati nel suo corpo dato sulla croce, pur diventando il suo corpo ecclesiale, non si confondono con lui e tra di loro, anzi, proprio per la nuova relazione ricevuta, ciascuno diventa sempre più se stesso a partire dall'unità già donata e ancora da realizzare. L'intima profonda e vitale comunione, partecipata dal Crocifisso-Risorto a chiunque aderisce a lui nella fede, è il segno distintivo della "umanità nuova" già presente storicamente nella comunità del Risorto, ma è destinata ad abbracciare e rinnovare il mondo intero in Cristo. L'uomo nuovo non è solo Cristo e non sono solo i suoi, ma Cristo con i suoi, anzi Cristo tutto in tutti (cf Col 3, 11), attraverso lo Spirito, in relazione con l'unico Padre.
3. La nuova esistenza nel Signore
Tra l'essere già "nuova creatura" e il diventarlo completamente e definitivamente, c'è tutta la responsabilità personale e comunitaria dell'esistenza in questo mondo. Il dono di Dio, comunicato una volta per sempre nell'evento della croce e partecipato a ciascuno attraverso l'adesione di fede e il battesimo, esige l'impegno a vivere nella libertà dei figli e nella fedeltà al dono ricevuto. L'indicativo dell'agire salvifico di Dio per noi fonda l'imperativo della nostra risposta coinvolgente, della nostra partecipazione all'unica opera del Cristo, alla realizzazione dell'umanità nuova. Perciò l'Apostolo esorta: "Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi nella novità (têi anakainosei) della mente, per poter discernere qual è la volontà di Dio" (Rm 12,2).
La "novità della mente" implica la "nuova mentalità" del cristiano in forza della sua relazione interpersonale con Cristo: "Noi abbiamo la mente di Cristo" (1 Cor 2,16). La conformazione alla "mentalità" di Cristo continua a operare il rinnovamento dell'esistenza cristiana in questo mondo, sotto la guida dello Spirito. Nella lettera ai Galati così si conclude l'esortazione a "camminare secondo lo Spirito" (Gal 5,16): "Coloro che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo secondo lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (GaI 5,24s).
Il cammino nello Spirito segna la nuova esistenza in Cristo. Pur rimanendo esposto all'ambiguità di questo mondo e alla precarietà di un'esistenza sempre minacciata dalla debolezza individuale e sociale delle persone e delle strutture, il cristiano, già "nuova creatura" e già "ri-creato in Cristo", deve lasciarsi conformare sempre più dallo Spirito a immagine di Colui che è e deve essere "primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29; cf 12,2; 2 Cor 3,18; GaI 4,19; FiI 3,10.21), vivendo le relazioni autentiche proprie dell'"uomo nuovo".
È quanto emerge in tutte le esortazioni, ma particolarmente in quelle della lettera ai Colossesi, dove troviamo l'espressione "svestirsi dell'uomo vecchio per rivestirsi del nuovo" (CoI 3,9s).
Per la nuova relazione vitale con Cristo, il crocifisso Risorto, lo sguardo del credente è rivolto alla nuova dimensione, al senso nuovo che la realtà acquista dall'alto, cioè dal modo con cui Dio vede e provvede a partire dalla risurrezione. La vita dei cristiani partecipa già di questa realtà nuova (3,1.2), ma è ancora "nascosta con Cristo in Dio" (3,3). Sarà manifestata visibilmente alla fine, "quando si manifesterà Cristo, la vita nostra" (3,4). Nel frattempo spetta ai cristiani far vedere nella contingenza storica la novità di vita di cui sono già partecipi. Perciò le esortazioni negative "fate morire... deponete... non mentitevi" (3,5.8.9), con due cataloghi di vizi della condotta di una volta (3,5.8), e la serie di quelle positive introdotte da "rivestitevi" (3,12-17), con il catalogo delle virtù, orientate e animate dal vertice dell'"amore, che è il vincolo della perfezione/compimento" (3,14).
Il passaggio dalle relazioni negative a quelle positive è fondato sulla trasformazione già avvenuta e tendente al suo pieno compimento: "vi siete svestiti dell'uomo vecchio con le sue azioni evi siete rivestiti del nuovo, quello che si rinnova in rapporto alla conoscenza secondo l'immagine di colui che lo ha creato" (3,9s). La trasformazione già donata implica l'impegno di un passaggio quotidiano dal vecchio al nuovo e una crescita continua nella conoscenza che conforma all'immagine del Cristo e attraverso Cristo all'immagine di Dio.
Come ha scritto R. Schnackenburg, l'uomo nuovo è l'uomo intimamente chiamato alla comunità, l'uomo che esercita e irradia l'amore comunicativo di Dio, che si pone a disposizione anche della "edificazione della società umana" non soltanto in un significato esteriore, ma edificando e consolidando dall'interno i gruppi umani e le strutture sociali. Egli non può abbandonarsi, a causa di una responsabilità morale, a nessun egoismo, a nessuna particolaristica tendenza al potere, a nessun desiderio di un proprio arricchimento a danno degli altri; in breve, egli è I'uomo sociale che, tuttavia, non perde mai di vista la sua dignità personale".
Volendo formulare in annuncio per l'uomo d'oggi il messaggio di Paolo, possiamo dire con le parole di un altro grande teologo: "Come a nessuno è permesso di sfuggire all'umanità, per rivendicare un destino speciale, così anche tutta I 'umanità deve morire in ogni suo membro per vivere - trasformata - in Dio. Questo è l'inizio e la fine dell'annuncio cristiano. Questa è la legge che è stata data all'umanità in ciascun singolo uomo, poiché ciascuno è responsabile per tutti e porta, secondo la sua parte, il destino di tutti".
(da Parole di Vita)
I libri della Bibbia
e gli "apocrifi"
di Gaetano Castello
Una qualunque edizione cattolica della Bibbia elenca settantatre libri, divisi nelle due grandi sezioni dell'Antico (quarantasei libri) e del Nuovo Testamento (ventisette libri). Anche la loro successione è costante. È tuttavia naturale, per la natura stessa della Bibbia, per il suo lungo processo di formazione durato oltre un millennio, che la sistemazione dei libri riconosciuti dalla Chiesa come "ispirati" sia avvenuta nel tempo. Può meravigliare sapere che il "canone", la lista completa dei libri biblici, fu fissato in maniera autorevole e definitiva solamente nel 1546, con i Decreta de Sacris Scripturis del Concilio di Trento. Prima di quel momento non mancava certamente il riferimento a liste ritenute ufficiali, ma la crisi determinata all'interno del mondo cristiano con la riforma protestante che rifiutò la canonicità di alcuni libri, impose con urgenza il problema di stabilire in maniera definitiva "semel pro semper", quali fossero i libri ritenuti "ispirati" dalla Chiesa.
Il canone della Scrittura
Con questo breve accenno al problema del canone biblico, risulta chiaro che anche per questo aspetto bisogna parlare della Bibbia in termini storici. È già accaduto quando si è accennato alla formazione della Bibbia ed alla sua natura divino-umana. E per questa sua caratteristica fondamentale che la Sacra Scrittura non può essere assimilata a una sorta di scritto preconfezionato da Dio e semplicemente consegnato nelle mani dell'uomo. La collaborazione tra Dio e l'uomo iniziò già prima che nascessero i testi sacri, quando chiamò Abramo, quando svelò a Giacobbe il destino suo e del suo popolo: continuò nell'impulso divino che mosse alcuni uomini a mettere per iscritto esperienze e parole che avrebbero continuato a rivelare nel tempo la volontà e la natura di Dio; proseguì nell'opera di discernimento a cui i credenti furono chiamati per accogliere le divine Scritture distinguendole da tanti scritti simili per forma ma non ispirati da Dio. Questo processo continua oggi con l'azione dello Spirito che accompagna la lettura e la comprensione delle sacre Scritture nella comunità dei credenti, e nel servizio di discernimento, affidato ai successori degli apostoli, sull'interpretazione autentica della Scrittura.
È in quest'ampio contesto, storico e di fede, che va affrontato anche il problema del canone, altrimenti incomprensibile. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, al n. 8, afferma perciò che "la stessa tradizione (che trae origine dagli apostoli) fa conoscere alla Chiesa il canone integrale dei libri sacri".
A determinare la canonicità, il riconoscimento cioè che quei libri sono frutto dell'azione ispiratrice dello Spirito Santo, non fu un unico e determinato elemento, ma l'uso e l'accoglienza di essi nelle comunità cristiane vagliato dal discernimento attento di chi nellaChiesa continuò la missione degli apostoli.
Il canone ebraico
La definizione del canone biblico fu dunque graduale. Già molto tempo prima di Gesù Cristo, nel mondo ebraico venivano venerati come scritti sacri i rotoli della Torah, i primi cinque libri della Bibbia definiti dai cristiani, con termine greco, Pentateuco. La loro origine divina non fu messa in dubbio nemmeno nelle travagliate vicende storiche che portarono a conflitti e separazioni all'interno stesso dell' ebraismo. Così, per es., i samaritani, pur divisi ed in lotta con i giudei, conservarono e venerarono sempre, fino ad oggi, la Torah come parola di Dio. Anche per gli scritti profetici, che per gli ebrei comprendono i "profeti anteriori" (Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele e 1 e 2 Re) ed i "profeti posteriori" (Isaia, Geremia, Ezechiele, e i dodici profeti minori) vi sono testimonianze molto antiche circa il loro uso liturgico ed il riconoscimento della loro ispirazione.
Ne dà testimonianza, in particolare, il prologo del Siracide che parla, già alla sua epoca (II sec. a.C.), di Torah, Profeti e Scritti. Proprio la terza categoria fu quella più fluttuante. Comprendeva infatti libri di diverso genere, dai salmi ai libri sapienziali, a libri di tipo storico. Dall'altra parte vi sono testimonianze antiche circa l'uso di libri che poi non entreranno nel canone ebraico né in quello cristiano. Ciò non deve meravigliare. La definizione del canone avvenne, come si è detto, non per un principio unico prestabilito, ma per la graduale, comune presa di coscienza che alcuni di quei libri presentavano autenticamente la parola di Dio a differenza di altri che pure utili, consigliabili per la consultazione e per l'edificazione, non esprimevano autenticamente la parola di Dio.
Gesù e i suoi discepoli condivisero, all' inizio dell' era cristiana, quest'uso spontaneo delle scritture sacre dei giudei, il cui primo posto era senza dubbio assegnato alla Torah. La liturgia sinagogale, come riferiscono gli stessi Vangeli, sin da allora prevedeva la lettura di pagine dei profeti, come Gesù stesso ebbe modo di fare (cf Lc 4,16-19). Tuttavia ancora a quell'epoca non si può parlare di un "canone" ebraico, di qualcosa che corrisponda alla nostra idea di una lista ben fissata e definita di tutti i libri ispirati. Il bisogno di una definizione dovette farsi sentire soprattutto nel conflitto crescente tra sinagoga e Chiesa. Il fatto che i cristiani si ritenessero gli eredi legittimi delle scritture di Israele portò, tra le prime conseguenze, al rifiuto ebraico della traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta (in sigla L XX). Il largo uso che i cristiani fecero delle scritture ebraiche nella loro versione greca, portò i giudei a sostituire quella traduzione, nata per i tanti giudei sparsi nell'area mediterranea e che comprendevano ormai solamente il greco, con nuove versioni greche comparse nel secondo secolo dopo Cristo (Aquila, Simmaco, Teodozione).
È dunque in questo contesto di tipo polemico, soprattutto a difesa della propria identità, che si andò a mano a mano precisando quali fossero i libri sacri per il mondo giudaico. Il processo di definizione fu sollecitato anche dal grande disastro determinato dai Romani che nel 70 d.C. ad opera di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme, deportarono molti giudei, annientando dal punto di vista organizzativo, politico, militare, religioso, quello che era sino ad allora il mondo giudaico. Dopo una simile catastrofe è indubbio che fosse avvertito con urgenza il problema di una ricostituzione, del recupero della propria identità nazionale e religiosa che dovette passare, tra l'altro, attraverso la distinzione da quel gruppo di giudei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia atteso e che utilizzavano gli scritti sacri dell'ebraismo.
Gli ebrei esclusero così alcuni libri di cui non si conosceva l'originale ebraico o che furono addirittura composti in greco. Si tratta dei cosiddetti deuterocanonici: Tobia, Giuditta, i due libri dei Maccabei, Baruk ed epistola di Geremia ( = Bar 6), Siracide, Sapienza, con le sezioni di Daniele ed Ester scritte in greco (Dn 13-14; Est 10,4-16,24). È per questo che la Bibbia ebraica presenta sette libri in meno rispetto all'AT dei cattolici. Al canone ebraico si uniformeranno più tardi i riformatori protestanti che definiranno "apocrifi" i libri deuterocanonici sopra elencati, escludendoli dalle loro Bibbie.
Come si diceva, la Chiesa primitiva condivise la comune fede ebraica nell'autorità dei libri ritenuti sacri. Vi sono testimonianze, anche presso alcuni antichi autori cristiani, circa l'uso di libri che non entreranno a far parte del canone biblico, né di quello ebraico né di quello cristiano; il caso più evidente è quello della lettera di Giuda che al v. 14 cita il libro di Enoch, uno scritto giudaico che non entrerà nel canone ebraico né in quello cristiano. Segno evidente che l'estensione del canone dell'AT andrà chiarendosi solo gradualmente.
Il canone del NT
Sempre in questa chiave storico-religiosa, va individuata l'origine del canone del Nuovo Testamento. Anche per le comunità cristiane delle origini abbiamo testimonianze di un uso antichissimo e costante di alcuni libri ritenuti universalmente come ispirati (è il caso dei Vangeli, delle lettere di Paolo), ed un uso diversificato di altri libri, ritenuti sacri ed utilizzati in alcune comunità e non in altre.
È il caso della lettera agli Ebrei, quella di Giacomo, la seconda lettera di Pietro, la seconda e la terza di Giovanni, quella di Giuda e l'Apocalisse.
Al contrario, vi furono testi utilizzati da alcune comunità che saranno abbandonati e non riconosciuti, alla fine, come testi ispirati. Anche per il NT non esistette un unico criterio per decidere della canonicità, benché l'origine apostolica (reale o apparente) e la conformità degli scritti alla fede apostolica dovettero essere elementi importanti nel discernimento.
La formazione del canone dipese, insomma, dalla coscienza dell'ispirazione. Nella misura in cui ebraismo cristianesimo si andarono organizzando e uniformarono gli usi nelle diverse comunità, sorse il problema di elencare con precisione i libri da proporre alla comunità dei credenti come "parola di Dio". Testimonianze di questa esigenza risalgono a tempi molto antichi. È il caso della lista contenuta nel famoso "Frammento muratoriano", del II secolo d.C.; della lista di Origene (III sec.) o di quella di Eusebio (IV sec.). Tuttavia solo alla fine del IV sec., con le liste di Atanasio e di Agostino, e soprattutto con quelle dei Concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) si avrà la lista lunga valida nell'Occidente cristiano. Si tratta del canone che sarà poi ripreso dal Concilio di Firenze (1441).
Nessuno dei Concili citati aveva tuttavia affrontato il problema in maniera esplicitamente definitiva, quasi non avvertendone il bisogno, che invece si presentò come urgenza quando i riformatori esclusero dal canone i libri deuterocanonici. Essi designarono, tali libri con il nome di "apocrifi", riservato dai cattolici a quei testi che pur trattando di argomenti simili ai libri biblici, ed in forma simile, furono esclusi dal canone delle Scritture Sacre perché non riconosciuti come libri "ispirati".
Questi libri conservano naturalmente un interesse del tipo storico e culturale sempre meglio apprezzato, nella misura in cui si distingue anche per essi il genere letterario, le circostanze e le finalità per le quali vennero scritti. In relazione all’ AT è il caso di quella vasta produzione letteraria che si sviluppò nell’ambito della cosiddetta "apocalittica giudaica", tra il II sec. a.C. ed il I d.C.
Un caso particolarmente interessante per i cristiani è quello dei cosiddetti Vange li apocrifi da cui derivano addirittura notizie mantenute nell'ambito della tradizione cristiana (come per es., le notizie sull'infanzia e sui genitori di Maria, Gioachino è d Anna, dei quali si ha notizia nel Protoevangelo di Giacomo, del 200 d.C., ca.).
Sempre relativamente ai vangeli apocrifi non è difficile notare come si differenzino notevolmente dai Vangeli canonici. Mentre questi ultimi conservano una certa sobrietà nel raccontare le vicende di Gesù di Nazaret, finalizzata alla testimonianza di fede, vero scopodegli scritti evangelici (cf Gv 20,30-31), gli apocrifi abbondano di tratti descrittivi che hanno a che fare con la ricerca del prodigioso.
Ne sono testimonianza alcune storie di cui ritroviamo l'eco in racconti tramandati soprattutto ai bambini sull'infanzia di Gesù, o alcune rappresentazioni della passione di Gesù (per es. il Vangelo di Nicodemo) con evidenti tendenze pro-romane, in cui Pilato, rappresentante del vittorioso mondo di Roma, appare quasi come un eroe del cristianesimo, vinto dalla protervia giudaica. Altri scritti apocrifi, come il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo ecc., ebbero una più chiara origine di elaborazione gnosticheggiante del messaggio cristiano. Proprio l’uso di alcuni di questi scritti da parte di gruppi eterodossi fu uno degli elementi che ne determinarono l'esclusione dal canone.
Oggi nel mondo protestante le Bibbie presentano l'AT nella forma ridotta dei primi riformatori. Come nei primi tempi della Riforma, tuttavia, i sette libri deuterocanonici vengono spesso raccolti in appendice all'AT chiarendo che essi sono esclusi dal canone ebraico. Non si presentano invece differenze per quanto riguarda il canone del NT.
Proprio la questione del canone biblico, uno dei motivi originari della rottura tra cattolici e protestanti, si presenta oggi come un campo fecondo di riflessione e di la dialogo ecumenico.
(da Parole di vita)
Maria di Magdala
di Carla Ricci
Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che significa: Maestro! Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto. (Giovanni 20,11-18)
"Maria chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni" (Lc 8,2) è la prima donna del gruppo delle discepole itineranti con Gesù ad essere nominata nel Vangelo di Luca. Sempre prima la ritroviamo nella lista dei sinottici quando viene descritta la crocifissione e si nomina la presenza del gruppo delle donne, fedeli seguaci del Nazareno fin dalla predicazione sulle strade della Galilea, mentre assiste alla passione (Mc 15,40; Mt 27,56; Lc 23,49-55; 24,10).
Nel racconto giovanneo la troviamo menzionata sotto la croce con la "madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa" (Gv 19,25). Se nelle altre liste ha il privilegio di essere la prima, qui ha quello di essere associata al gruppo delle parenti strette. Già dalla lettura di questi primi testi biblici emergono elementi che indicano un primato di Maria di Magdala nel gruppo. Essa è il solo nome ad essere comune a tutte le liste: le altre donne ricordate cambiano, lei sola è presente in tutte le fonti. Che questi dati suppongano anche un rapporto particolare e privilegiato con Gesù è confermato dal seguito delle narrazioni evangeliche.
Discepola prediletta
Secondo i sinottici, dopo aver assistito alla sepoltura (Mc 15,47; Mt 27,62; Lc 23,55-56), il gruppo delle discepole si raccoglie attorno a Maria Maddalena e all'alba si reca al sepolcro (Lc 24,1-10; Mt 28,1; Mc 16,1-2); Giovanni invece narra di Maria di Magdala sola che va alla tomba "di buon mattino, quand'era ancora buio" (Gv 20,1).
L'intensa partecipazione della discepola prediletta al dramma della morte è ben espressa dall'ampia narrazione che segue. Molte delle annotazioni rimandano alla profondità del rapporto che Gesù aveva realizzato con lei. Ella non può attendere la luce del giorno e va al sepolcro quando è ancora notte, trovatolo vuoto corre da Simon Pietro e da Giovanni per condividere con loro quanto sta accadendo. La scomparsa del corpo del Signore la sconvolge e non può contenere in se le emozioni che la pervadono. Ritorna coi discepoli alla tomba, ma quelli, dopo aver constatato che è vuota, tornano a casa. Maria Maddalena, invece, non può allontanarsi dal posto che aveva accolto il corpo dell' Amato. Non va con loro per consolarsi insieme della perdita, ma resta vicina all'ultimo luogo dove è giaciuto il corpo di Gesù, non può allontanarsi e si abbandona al dolore e al pianto. Non sono lacrime momentanee, ma un pianto intenso e continuo tanto che sia gli angeli prima, sia Gesù poi, le chiedono il perché delle sue lacrime. La gravità della perdita, che dice la profondità del legame nei confronti del Maestro, spinge tutto il suo essere a cercare.
Il Risorto si lascia trovare, si lascia raggiungere, si lascia riconoscere e si manifesta a lei pronunciandone il nome: "Maria!" cui viene risposto prontamente: "Maestro mio!". Il lasciarsi i riconoscere dal Cristo nel dire il nome di Maria raccoglie una indicazione suggestiva della comunicazione esistente; nel sentirsi chiamata la donna trova insieme la voce che conosce, la voce dell'altro, e qui poi dell'Altro, e trova se stessa, la percezione, la consapevolezza del proprio essere profondo. La relazione, questo contemporaneo duplice incontro dell'altro e di se, in cui sono presenti alterità e identità, questa unità che comprende dualità, poteva essere tale compiutamente solo nella manifestazione del Risorto a una donna, in armonia con la creazione di Dio di un essere umano, l'adam dai due volti: l'uomo e la donna.
"Io ho qualcosa da dire ma nessuno a cui dirlo!"
È un antico ágraphon che sottolinea la sofferenza di Maria Maddalena come determinante per il rivelarsi del Risorto.
"lo (...) non sono apparso a te
finché non ho visto le tue lacrime e il tuo dolore (...) per me.
Getta via la tua tristezza
e compi questo servizio,
sii il mio messaggero per gli orf[ani] [sm]arriti.
Affrettati a gioire e va' dagli undici.
Li troverai riuniti sulla riva del Giordano.
Il traditore li ha pèrsuasi ad essere pescatori
come prima
e a gettare le loro reti,
con le quali conquistarono uomini alla vita.
Di’ loro: Su, andiamo, vostro fratello vi chiama.
Se disdegnano la mia fraternità,
di’ loro:
È il vostro maestro.
Se trascurano la mia autorità di maestro,
di’ loro: È il vostro Signore.
Usa ogni arte ed intelligenza
finché tu non abbia condotto il gregge al pastore.
Se vedrai che si sono turbati per te
prendi Simon Pietro con te;
digli: Ricorda cosa ho detto tra te e me.
Ricordati che cosa ho detto, tra te e me,
sul Monte degli Olivi;
lo ho qualcosa da dire,
ma non ho nessuno a cui dirlo!".
L'invio di Maria Maddalena ad annunciare la risurrezione è confermato dal seguito del racconto di Giovanni. "Gesù le disse: "... va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e al Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto" (Gv 20,17-18). Forse l'ágraphon sopra riportato apre uno squarcio di maggior luce su quanto altro il Risorto "le aveva detto" e anche in quel testo, come in Giovanni, la risposta di Maria è descritta come pronta, totale e intensa. "Rabbi, mio maestro, io servirò il tuo comandamento nella gioia del mio cuore intero. Non darò riposo al mio cuore, non darò sonno ai miei occhi. Non darò riposo ai miei piedi finché non abbia portato il gregge all'ovile". È di grande rilevanza che in un tempo nel quale la testimonianza delle donne, e quindi la loro parola, non aveva valore giuridico, il Cristo affidi il messaggio di risurrezione a Maria di Magdala, facendo di lei la prima mediatrice della Parola, del Logos incarnato, rendendola apostola degli apostoli.
La "durezza di cuore" degli apostoli
È significativo rilevare come nell'antico testo copto venga attribuita a Gesù la sollecitazione a Maria di Magdala di ricordare a Pietro parole che già lei gli aveva rivolto: "lo ho qualcosa da dire ma non ho nessuno a cui dirlo!". Nessuno; cioè capace di riconoscere e accogliere il valore delle parole di una donna, nessuno capace di questo ascolto profondo al di là delle limitazioni culturali e giuridiche del tempo.
Ampia testimonianza riportano i Vangeli canonici della difficoltà degli apostoli a prestar fede a quanto riferito dalle discepole: "Alcune donne, delle nostre... son venute adirci..." (Lc 22,22): "Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse" (Lc 24,11).
Nella finale del Vangelo di Marco si racconta proprio di Maria di Magdala che andò ad annunziare ai suoi seguaci la risurrezione. "Ma essi, udito che (Gesù) era vivo ed era stato visto da lei non v-ollero credere" (Mc 16,11) e Gesù poi apparendo infine agli Undici, "li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore" (Mc 16,14).
Forse questa "incredulità e durezza di cuore", evidenziata dalle parole del Risorto, si è protratta nello sviluppo della comunità cristiana ed è divenuta nella storia dell'esegesi biblica un travisamento dell'identità di Maria di Magdala che, invece di emergere per la predilezione di discepola fedele e amata, è stata confusa con la peccatrice di cui il Vangelo di Luca racconta il pentimento e il perdono da parte di Gesù. È stata resa una prostituta e dopo secoli di omelie, raffigurazioni artistiche, letterature le più varie, il suo nome, o meglio il suo soprannome, Maddalena riferito alla città di provenienza, ha assunto il significato di donna traviata e penitente.
Quale distanza dalla scelta di Gesù che proprio del nome Maria fa la chiave di apertura per la rivelazione e il riconoscimento dell'essere risorto, dell'essere Alterità incarnata. Logos relazionante in se il divino e l'umano, Luogo di incontro di finito ed infinito, di morte e vita inesauribile.
Il travisamento esegetico di cui è stata vittima Maria di Magdala ha avuto tanto larga eco perché ha trovato fertile terreno in una millenaria concezione della donna limitata e schiacciata all'interno di una sovrapposizione della sua realtà con quella di una sessualità intesa per lo più negativamente.
La sordità e la "durezza di cuore", la incapacità di aprire la propria mente e il proprio animo le realtà più interiori ed autentiche del femminile, contrassegnano purtroppo ambiti di culture e tempi ben più ampi del discepolato di Gesù.
Restituire a Maria di Magdala la sua identità e riscoprire il significato profondo rapporto che Gesù aveva con lei porterà nuova luce nella ricerca della pienezza della verità.
La Bibbia immaginaria
del "Codice Da Vinci"
Domande rivolte a Daniel Marguerat (professore di Nuovo Testamento alla facoltà teologica dell’Università di Losanna) da Anne Soupa (redattrice capo di Biblia).
D. Quali sono le sue prime impressioni su questo romanzo?
R. Debbo dire, innanzi tutto, di aver letto con piacere il romanzo "Il Codice da Vinci". Dan Brown è un buon narratore e nella sua opera vi è quel tanto di credibile e di inverosimile che serve per caratterizzare un romanzo di questo genere, e questo spiega il suo successo. Ma, trattandosi di un genere particolare e difficile come il romanzo storico (ammettendo che la definizione sia appropriata) io mi pongo alcune domande.
Innanzi tutto,di fronte all’affermazione che l’autore fa "tutte le descrizioni sono documentate e non sono frutto di fantasia" si rimane sconcertati; questa affermazione non risponde a verità, perché al di là delle molte libertà che l’autore si prende e che si possono accettare, Dan Brown commette degli errori madornali dal punto di vista storico, che nessuno studioso può far passare sotto silenzio. La sua dichiarazione iniziale, induce in errore il lettore che pensa così di trovarsi davanti ad una seria opera storica, riponendo inoltre la sua fiducia in uno scrittore che non la merita completamente.
D. Quali sono questi errori?
R. Innanzi tutto posso dire che il libro è nel complesso attendibile quando tratta dei Templari, della proporzione divina e della sequenza di Fibonacci; le cose cambiano quando affronta altri temi di carattere storico, che l’autore mostra di conoscere solo approssimativamente.
Prima grossolana affermazione: "La Bibbia come la conosciamo, è stata collazionata da un pagano, l’imperatore Costantino". A questo proposito, possediamo fonti sicure. Nel 4° secolo Eusebio di Cesarea scrive una Vita di Costantino in cui parla di un’ordinazione fatta dall’imperatore, di quaranta codici, la più importante dell’antichità. Questi codici erano destinati alle chiese, dopo che, a seguito dell’editto di Milano nel 313, i cristiani erano stati autorizzati al culto. Probabile fonte di questa notizia è il Codex Vaticanus scritto nel 350. Si è poi diffusa una versione, più tardi definita "bizantina".
Anche se non possediamo Bibbie complete anteriori a Costantino, è evidente che esistevano versioni dell’Antico e Nuovo Testamento a disposizione delle comunità che i Padri della Chiesa leggevano e delle quali ci hanno lasciato delle liste. Queste liste figurano, fin dal 2° secolo nell’opera di Ireneo di Lione, Contro le eresie, ed anche nel frammento detto di Muratori,Vetus Latina, molto in uso presso le comunità di lingua latina, non possediamo che versioni del 4° secolo. nome dello studioso italiano che lo ha scoperto. Da parecchie fonti, sappiamo che alla fine del 2° secolo, il canone è stabilizzato. Della
Naturalmente Costantino ha rivestito un ruolo in tutto questo, ma non certo quello che Dan Brown immagina, cioè di decidere ciò che può far parte della Bibbia e ciò che deve essere escluso.
D. Dan Brown si spinge ancora più in là affermando persino che Costantino ha manipolato i testi ponendo l’accento sulla divinità di Gesù, a scapito della sua figura umana. Che cosa ne pensa?
R. Dan Brown in effetti dice: "Costantino ha ordinato e finanziato la redazione di un Nuovo Testamento che escludeva tutti i vangeli che evocavano gli aspetti umani di Gesù, privilegiando - adattandoli se necessario - quelli che mettevano maggiormente in luce la sua divinità. I primi Vangeli furono dichiarati contrari alla fede, raccolti e bruciati".
Queste affermazioni attestano una profonda ignoranza dell’intensa e laboriosa costruzione teologica dei primi secoli. Innanzi tutto c’è da osservare che ci sarebbe voluto di più di un imperatore convertito da poco per influire su Scritture così profondamente inserite nella tradizione. Inoltre, il Credo adottato dal concilio di Nicea (325) convocato da Costantino, riprende le professioni di fede già in uso ed è già centrato sulla doppia natura, divina e umana, di Cristo.
Infine, se è vero che questo concilio aveva come scopo combattere l’eresia ariana che contestava la divinità di Gesù, è anche vero che non viene in alcun modo sottovalutata la natura umana di Gesù. Al contrario, è proprio la tensione tra un’umanità pienamente vissuta e una divinità accertata, che successivi concili di questo periodo hanno messo in evidenza. Quando Dan Brown deduce inoltre dalla sua "dimostrazione" che "i primi eretici furono quelli che avevano scelto di credere alla storia originale di Gesù" fa un’affermazione aberrante che può essere smentita da qualsiasi storico.
D. Che cosa pensa della tesi del "matrimonio di Gesù"?
R . Il Nuovo Testamento presenta Gesù come un rabbi, ed un rabbi ha una sposa ed è circondato da numerosi figli, segno della benedizione di Dio. Gesù si mostra tollerante verso le donne, anche quelle di malaffare e non intende dare forma di legge alla sua scelta di celibato. Bisogna far notare che nessuno dei quattro Vangeli fa menzione di una donna che sia intima di Gesù. In sé, questo fatto non mi scandalizzerebbe certamente e rientrerebbe perfettamente nel genere di vita dei rabbi. Ma come potrebbe allora non esserci nei Vangeli alcuna traccia di una donna di Gesù?
D. Dan Brown avrebbe dunque inventato di sana pianta il rapporto di Gesù con Maria Maddalena? Da dove provengono i fatti che egli cita?
R .Egli traduce, con una buona dose di approssimazione, alcuni versetti dei vangeli apocrifi di Maria Maddalena (2° secolo) e di Filippo (4° secolo), che però sono dei testi incompleti, in quanto mancano di alcune parti e la loro traduzione è approssimativa. Per esempio, nel vangelo di Filippo, si trova questa frase: "Il Salvatore aveva per compagna Maria Maddalena che baciava [i piedi, la bocca o la fronte o la guancia]. Gli Apostoli erano offesi e gli esprimevano la loro disapprovazione". Dan Brown cita questa frase, scrivendo solo "soleva spesso baciarla sulla bocca" omettendo le altre versioni che esprimono i diversi significati possibili. Nessun esegeta degno di questo nome agirebbe in questo modo. In maniera più precisa bisogna osservare che questi due scritti gnostici, sono ricchi di una spiritualità esoterica. Come molte scuole di spiritualità, essi utilizzano una finzione, in questo caso la metafora nuziale, per accreditare un insegnamento. Questo linguaggio, a connotazione sessuale, è in realtà un vocabolario iniziatico. I termini usati stanno ad indicare la vicinanza e il rapporto creatura-creatore tra la donna e il Maestro.
Tirando fuori questo versetto dal suo contesto, Dan Brown da l’impressione di citare una frase di valenza sessuale, dando una connotazione erotica a un vocabolario didattico.
Il carattere iniziatico di questo episodio, appare ancora più chiaro se si aggiunge quanto omesso da Dan Brown. Alla domanda: "Perché la ami più di tutti noi?" il vangelo di Maria (Bodmer pag. 37) spiega: "perché Maria Maddalena riporta delle parole che Gesù ha rivelato a lei e non agli altri". Dan Brown omette questa spiegazione che invece serve a chiarire la ragione e il significato delle rimostranze degli Apostoli.
D . In ogni caso, quando un uomo è legato sessualmente ad una donna, sembra fuori luogo che i suoi compagni si lamentino di non essere trattati alla stessa maniera, in quanto si tratta di due tipi di relazione che non possono essere paragonati.
R .Questa osservazione è assolutamente pertinente e conferma quanto detto dell’interpretazione di Dan Brown. Rimane comunque l’enigma di questo rabbi che è completamente differente da tutti gli altri rabbi…
D . Cosa si deve poi pensare dell’accusa di antifemminismo che è stata fatta da Don Brown al cristianesimo?
R . Bisogna riconoscere a Don Brown il merito di aver messo in rilievo l’atteggiamento innovatore di Gesù nei riguardi delle donne. Per Gesù la morale è più importante della legge rituale che considera le donne degli esseri impuri e le tiene lontane dalla vita sociale e religiosa. Inoltre Gesù associa delle donne al suo insegnamento e concede loro persino accesso alla Torah, cosa che non era ammessa dalla legge ebraica. "Piuttosto bruciare che dare la Torah alle donne!" recita un passaggio del Talmud. Ricordiamo inoltre che nell’ebraismo è il padre e non la madre che si occupa dell’educazione religiosa dei figli.
D. In tutto il Nuovo Testamento si trovano analogie con questo comportamento di Gesù nei confronti delle donne?
R. La posizione trasgressiva di Gesù a questo proposito si ritrova nelle comunità paoline. Le donne pregano nell’assemblea e profetizzano. Nella 1° lettera ai Corinti, v.11, nelle sue esortazioni a proposito del velo, Paolo, contrariamente a quanto si crede, non si mostra antifemminista, ma, in quanto erede di Gesù, procura di differenziare uomini e donne in comunità di discepoli uguali tra loro come identità spirituali. In seguito, vi sarà però un passo all’indietro, nelle lettere più tarde, agli Efesini e ai Colossesi: le donne sono relegate al loro ruolo privato di madri di famiglia; esse spariscono dallo spazio pubblico e della comunità. Nell’intervallo di una generazione, ritorna ad essere restaurata la differenza donna-uomo.
D. Dappertutto?
R. Non dappertutto: gli Atti degli Apostoli che sono contemporanei alle lettere agli Efesini e ai Colossesi, seguono l’eredità paolina. Il dramma è che nel 2° secolo, l’istallarsi di una gerarchia ministeriale maschile emarginerà le donne in maniera sistematica. Nelle comunità saranno presenti attivamente solo le vedove e come semplici ausiliarie. La Chiesa installa un’ortodossia esclusivamente maschile. Di conseguenza il ruolo delle donne viene riconosciuto solamente in comunità marginali anche se molto numerose. È così nei vangeli di Maria, di Filippo e negli Atti di Paolo e la figura di Tecla ne è un esempio. Queste comunità marginali sono anche le più eterodosse e dunque spesso combattute dalla gerarchia della Chiesa centrale.
D. Così le donne, oltre ad essere escluse, erano anche considerate eretiche, quindi pericolose.
R. Certamente. Sono loro, le donne, che hanno fatto le spese nella lotta condotta dalla Chiesa per affermarsi. Combattendo contro le eresie, la Chiesa sacrificherà le donne. Più si mascolinizzerà, più si crederà ortodossa. E questo è l’effetto perverso, l’erosione, lo snaturamento della posizione innovatrice di Gesù nei confronti delle donne.
D. Il mondo romano però, non è misogino?
R. Certamente, la matrona romana aveva un ruolo importante, ma si trattava di donne ricche che governavano la loro casa e avevano sotto di sé molti schiavi. Gesù ha un atteggiamento democratico, qualunque donna che crede può trovare posto accanto a lui e accedere alla dignità di discepolo.
D. Che giudizio ha della posizione che la donna occupa oggi?
R. Mi sembra che, tra le grandi religioni monoteiste, il cristianesimo riconosca più dell’ebraismo e dell’islam, il ruolo e la libertà della donna nello spazio pubblico. Il cristianesimo resta il solo a riconoscere alla donna lo stato essere religioso adulto,anche se, in alcune realtà, si tratta di un fatto non ancora realizzato. La donna ha trovato la sua autorevolezza nel mondo cristiano, in maniera molto più netta che nelle altre due religioni monoteiste.
(Traduzione dal francese di M. Grazia Hamerl - staff di Dimensione Speranza)
Maestri da non imitare
Mc 7,1-23
di Karin Heller
Questo popolo mi onora con le labbra,Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E aggiungeva: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: È Korban, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
I profeti biblici di fronte a Babilonia
di Jesus Asurmendi*
La parola "canone", deriva dalle lingue semitiche, dove qanáh, significa "misura", "regola", "norma".
La condizione della donna
ai tempi di Nazaret
di Enrica Varaldi
«Mercati, consigli, tribunali, processioni festive, assembramenti di grandi folle, in breve tutta la vita pubblica, con le sue discussioni e i suoi affari, in tempo di pace e di guerra, è un fatto di uomini. È conveniente che le donne restino a casa e vivano ritirate. Le donne devono stare nei loro appartamenti privati, fissandosi come limite la porta di comunicazione (con le stanze degli uomini); e le donne sposate come limite la porta del cortile» (Philo Alexandrinus, De specialibus legibus, III, 169-171).
L’ambito ristretto delle pareti di casa circoscrive tutto l’orizzonte di una donna ebrea. Non è richiesta la sua partecipazione alla vita dello stato, né alla vita economica del commercio, né a quella della maggior parte delle cerimonie religiose. Tutti questi ambiti sono aperti alla partecipazione degli uomini che vivono la dimensione pubblica e la amministrano.
Raggiunta la maturità sessuale, intorno ai dodici anni, secondo la volontà del padre, le ragazze vengono assegnate ad un uomo, spesso appartenente ad uno dei due rami della famiglia e a lui cedute attraverso un contratto matrimoniale, inteso come un atto di acquisto. Veniva infatti fissato un prezzo diverso a seconda dello status della ragazza, che serviva a risarcire la donna in caso di morte del marito o di divorzio. Non c’era alcuna differenza né a livello legale né nella mentalità comune tra l’acquisto di uno schiavo e quello di una sposa. Era l’uomo soltanto a poter ripudiare la moglie o a divorziare da lei, mentre la donna era autorizzata a tornare nella casa paterna solo in casi eccezionali.
Il trattato Ketubot del Talmud dice dei doveri di una donna: «Questi sono i lavori che una donna deve fare per il marito: macinare (la farina) e cuocere (il pane), lavare (i panni) e cucinare, allattare i bimbi, rifargli il letto e lavorare la lana. Se ha portato con sé una serva non macina né cuoce il pane, né lava; se ne ha portate due...» (V, 5).
Il ritratto della donna che emerge, reclusa tra le pareti domestiche, intenta ai lavori di casa e completamente sottomessa al volere del padre prima e del marito poi, non è tuttavia così generalizzabile. Esso rispecchia la vita di donne del ceto medio, alleviate nel loro lavoro dalla presenza di una o più serve. Diversa era la condizione di vita degli strati popolari, in città o in campagna. La difficoltà della vita quotidiana portava a condurre l’attività lavorativa, per esempio, dei campi o di vendita dei prodotti, tutti insieme, i coniugi con i figli e le figlie. La donna poteva allontanarsi per attingere acqua alla fontana o addirittura partecipare a feste popolari dove si danzava uomini e donne insieme.
Anche per quanto riguarda l’istruzione si sa che essa non era impartita alla donna. La scuola (andreîon) era aperta, come testimonia il suo stesso nome, unicamente agli uomini. Non venivano istruite, le donne, neppure nella Legge giacché «meglio bruciare la Torah che trasmetterla alle donne» (Talmud di Gerusalemme, trattato Sota III, 4).
Per la vita religiosa essa era tenuta a rispettare i comandamenti negativi della Torah, ma non quelli positivi; non aveva l’obbligo, dunque, di partecipare al pellegrinaggio a Gerusalemme, alla recita dello Shema’, non poteva offrire vittime imponendo le mani per la benedizione, non pronunciava preghiere ai pasti. Era esclusa dall’area più interna del Tempio e doveva osservare norme di purità precise e severissime dopo il ciclo mestruale o dopo il parto (era doppio il periodo di purificazione previsto dopo il parto di una femmina rispetto a quello per un maschio). Non è mai attestato il fatto che una donna avesse potuto svolgere funzioni di sacerdotessa né in epoca antica, né in epoca ellenistica, come invece avvenne in altre culture antiche.
A carico della figura femminile dobbiamo ancora aggiungere una intensa misoginia, non estranea peraltro neppure alla cultura greca e latina in epoca antica e tardoantica. Dice il Siracide: «Dalla donna ha avuto inizio il peccato e per causa sua tutti noi moriamo» (Sir 24-25). Si riscontra qui come in alcuni testi talmudici, non un giudizio parziale sulla donna, difficilmente buona e saggia e molto più frequentemente pettegola, litigiosa, frivola e avventata; ma piuttosto una condanna radicale e assoluta poiché la donna è causa della caduta dell’umanità (cf ad esempio anche Qo 7,26-28 cronologicamente precedente al passo citato). La donna, trasgredito all’origine dell’umanità il volere di dio, diventa per sempre la tentatrice dell’uomo, attaccata alla realtà dei sensi e della materialità. Direttamente o indirettamente, dunque secondo la mentalità giudaica la donna è causa del male. È ovvio che in misura maggiore o minore tutta la cultura ebraica visse il contatto con la donna come una condizione pericolosa e inquietante.
Se è vero che attraverso questa prospettiva possono essere letti in modo più chiaro il confinamento della donna in ambiti ristretti, la sua estraneità dalla vita pubblica civile e religiosa, non va tuttavia dimenticato che anche in quegli stessi autori più metafisicamente misogini si leggono passi che riconoscono alla donna come madre e come sposa un ruolo di particolare dignità. Sappiamo che un uomo è ritenuto ebreo se la madre lo è: nel giudaismo antico la discendenza è matrilineare, fatto che ha permesso di ipotizzare un antico istituto matriarcale.
In questo ruolo di sposa-madre, la donna è sentita come compagna e complemento indispensabile per l’uomo. Qoelet stesso insegna di godere la vita con la donna che si ama (9,9). Ben Sirac sostiene che l’aiuto reciproco tra moglie e marito è da porre al di sopra di quello tra amici (40,23).
Nell’epoca ellenistica in cui tutta la cultura giudaica subì una profonda trasformazione, anche la figura femminile venne riletta in modo meno duro ed emarginante. Ci si sposa non solo per via di parentele ed interessi, ma per amore e in molte opere si sottolinea l’importanza del sentimento nell’unione matrimoniale. I nuovi diritti che essa acquista e la nuova libertà di cui gode da questo periodo storico fanno acquisire alla donna una nuova condizione; esempio ne sia il fatto che possa accedere a scuole miste o, nel caso più eclatante, governare in luogo del figlio, senza che però né in ambito giuridico, né culturale, né religioso essa abbia mai raggiunto una piena equiparazione all’uomo.
Cf LILIANA ROSSI UBIGLI, La donna nel Giudaismo antico, in Parole di Vita, 30 (1985) 352-360, con bibliografia.
I due decaloghi nella Bibbia
di Olivier Artus *
Fra tutti gli insegnamenti biblici, quello sullo straniero è forse il più disatteso. Oggi si «crea» lo straniero quando l’altro non è assimilabile a noi. E lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo, non per accoglierlo, come ci insegnano le Scritture, ma per scacciarlo, per spingerlo oltre le frontiere.
«Non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete la vita dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (Es 23,9). Il pensiero e la normativa biblica riguardo al forestiero e allo straniero (chiariremo più avanti la differenza semantica) si compendiano in questo versetto, uno degli innumerevoli che toccano il tema. Ma, prima di illustrarne alcuni, poniamoci una domanda: perché lo straniero? Come nasce lo straniero?
L’incomunicabilità linguistica
La risposta ci porta molto indietro, a un gesto di Dio. Creando un solo uomo, Dio aveva posto una barriera alla possibilità dello straniero e alla delegittimazione del diverso: «Fu creato un solo uomo... perché nessuno dica al suo compagno: Mio padre era più grande di tuo padre» (Mishnà, Sanhedrin 4.5). Ma poi, fu Dio stesso che da questa ideale identità fece emergere il diverso, lo straniero. «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (Gen 11,1). Sono gli uomini della torre di Babele che così motivano il loro progetto: «Facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (ivi, 4). Ma Dio non volle che rimanessero un solo popolo con una lingua sola, confuse la loro lingua, e «li disperse di là su tutta la terra» (ivi, 8). Proprio l’incomunicabilità linguistica è il più importante elemento dell’essere straniero (si pensi all’origine del vocabolo greco bàrbaros, cioè balbuziente, in quanto incomprensibile). Ma il mito biblico contiene un insegnamento fondamentale: non pone un centro rispetto a cui essere straniero, tutti sono reciprocamente stranieri, al centro non rimane nessuno: «Essi cessarono di costruire la città» (ivi, 8). Così come l’altro da me è un io di cui io sono l’altro, allo stesso modo lo straniero è uno (individuo, gruppo, popolo) di cui io sono straniero. Si tratta di una reciprocità che, a ben pensarci, fonda l’identità e la responsabilità dell’uomo.
Tutto questo è messo alla prova non solo a livello individuale, ma ancor più a livello sociale, quando una comunità vive sulla propria terra, e quando perciò lo straniero è – proprio etimologicamente – un extracomunitario. La preoccupazione di tutelare lo status dello straniero ha spinto i legislatori biblici a moltiplicare le norme in proposito, tanto che si potrebbe indicare in questo tema una delle linee tecnologiche fondamentali della Bibbia ebraica.
Lo straniero nella tradizione ebraica
Innanzitutto, occorre un’attenzione alla terminologia: in ebraico la nozione di straniero si «incarna» in vari vocaboli, che contengono sfumature diverse o addirittura opposte. Abbiamo così i vocaboli zar, gher, nokrì o nekhar: approssimativamente, potremmo tradurre il primo con «estraneo», il secondo con «straniero residente», il terzo con «forestiero». Zar designa la cosa o la persona con cui non esiste reciprocità di diritti e doveri, per esempio un culto «estraneo», cioè idolatrico, o una persona estranea, come il laico rispetto al sacerdote. Nokhrì o nekhar è sì lo straniero, ma non residente, di passaggio, come il mercante: non è inserito nella società, e quindi non ha i diritti e i doveri relativi; per esempio non vale verso di lui il divieto del prestito ad interesse (cf Dt 23,21), ma anch’egli può prestare ad interesse. Il vocabolo fondamentale è dunque gher, lo straniero residente (solo in tempi più vicini a noi ha assunto il significato di convertito nell’ebraismo). Secondo 2 Cron 2,16, i gherim – plurale di gher – contati nel censimento di Salomone sarebbero stati 153.600 (si veda il fondamentale articolo di Amos Luzzatto, Lo straniero nella tradizione ebraica, «Studi, Fatti, Ricerche», n. 46, 1989).
I rapporti con lo straniero residente non sono regolati da esortazioni morali, non sono affidati al buon cuore, ma fanno parte della halakhà, ossia della «via» prescritta da Dio sul Sinai a Israele come base dell’alleanza. Si tratta di diritti e doveri che costituiscono una sorta di «contratto sociale», di cui potrebbe essere considerato proemio questo testo del Levitico: «Quando un gher dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il gher dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati gherim nel paese d’Egitto. Io non il Signore, vostro Dio» (Lev 19,33-34). È importante sottolineare la conclusione «Io sono il Signore, vostro Dio», perché è il suggello di tutti i grandi precetti sinaitici, vincolanti perché ispirati non da una coscienza etica umana, ma dalla immediata volontà divina.
Diversità e uguaglianza, lontananza e prossimità
Il primo e più importante diritto del gher è l’uguaglianza giuridica: «Ci sarà per voi una sola legge per il gher e per il cittadino del paese» (Lev 24,22). Perciò il gher condivide con l’orfano e la vedova da un lato, con il sacerdote dall’altra – ossia con coloro che non hanno proprietà terriere – alcuni diritti: come la straniera Rut può spigolare e cogliere ciò che cresce all’ «angolo» del campo, e ha parte alle primizie, alle decime e ai frutti dell’anno sabbatico. Può offrire un olocausto allo stesso titolo di un figlio d’Israele (cf Lev 17,8), e ha il diritto-dovere di osservare il sabato e le feste. E qui si apre la tavola dei suoi doveri: come l’ebreo, non deve cibarsi di cibi lievitati a Pasqua, di sangue, forse (ma la cosa è incerta) di animali non uccisi ritualmente. In sostanza, i divieti imposti al gher mirano a includerlo senza discriminazione alcuna nella società: lasciando però a lui la scelta di farsi pienamente ebreo mediante la circoncisione, e potendo così partecipare alla pienezza del culto, compresa la cena pasquale con l’agnello, oppure rimanere un «timorato di Dio», come si dirà molto più tardi, o, in greco, sebòmenos ton theòn. Tra i proseliti più famosi sono da ricordare la dinastia idumea di Erode e quella, sotto Claudio, del re di Adiabene.
Tutto questo mostra come il popolo ebraico abbia sempre rifiutato una concezione etnico-razziale della propria comunità: è simbolico il caso di Davide, genealogicamente discendente dalla moabita Rut (secondo il diritto rabbinico l’ebraicità si trasmette per via matrilineare, e Rut «entra» nell’ebraismo, non «nasce» nell’ebraismo).ma è altrettanto simbolico che i diritti dello straniero siano indipendenti dalla conversione. In fondo, quando il Levitico comanda: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lev 19,18), non pone condizioni di scelta religiosa; e il gher è prossimo, reá, cioè vicino. Si potrebbe dire perciò dello straniero quello che i maestri dicono di Dio: egli è lontano e vicino, viene da lontano ed è vicino. Questo rapporto con la lontananza che diventa vicina, con lo straniero che diventa prossimo, in realtà è un elemento essenziale della mia identità. Il versetto sopra citato «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella esegesi rabbinica offre anche un’altra lettura, alternativa: «Ama il prossimo tuo perché è te stesso».
Del resto, l’identità di straniero è iscritta fin da principio, ben prima della permanenza in Egitto, nell’ebreo. Il primo a essere chiamato «ebreo», Abramo, incontrò Dio diventando straniero: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”» (Gen 12,1).
Abramo, o Abram come allora si chiamava, era così straniero da non sapere neppure dove Dio lo avrebbe condotto. E di suo nipote Giacobbe, così si recita nella formula di offerta delle primizie, il cosiddetto «piccolo credo storico»: «Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto, vi sette come un gher con poca gente...» (Dt 26,5). E alcuni popoli stranieri escono proprio dalla famiglia patriarcale: gli ismaeliti da Ismaele, gli edomiti da Esaù, gli ammoniti e i moabiti da Lot. Sono genealogie leggendarie, ma che suggeriscono come la diversità, l’alterità non è mai assoluta. E tuttavia – ricordiamo ancora una volta la torre di Babele – è un aspetto del genere umano disegnato da Dio. Scrive il rabbino Riccardo Di Segni: «La strada ebraica della convivenza dei popoli passa attraverso questa coscienza della diversità, dell’impossibilità dell’imposizione e della coercizione, nella presunzione comunque che vi sia uno spirito che parli e chiami tutti, ciascuno nella sua strada...La particolarità non è ostacolo all’universalità» (L’ebreo: straniero e residente, «Rocca», 15 ottobre – 1° novembre 1986).
Un insegnamento alto e disatteso
Forse, tra tutti gli insegnamenti della Bibbia, questo sullo straniero è oggi il più disatteso: non solo, ma oggi si crea lo straniero appena l’altro non è assimilabile a me, a noi, e lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo e se è possibile per scacciarlo. Come accade a Dio, a cui un grande maestro chassidico, rabbi Parukh, riferiva le parole del salmo 119,19: «io sono straniero sulla terra».
Diceva rabbi Parukh: «Chi è sbattuto lontano in terre straniere e finisce in un paese sconosciuto, costui non ha commercio con alcun uomo e non può intrattenersi con alcuno. Ma se allora appare un altro forestiero, anche se la sua patria è un’altra, i due possono diventare amici... E se non fossero stati ambedue stranieri non sarebbero diventati così intimi. Questo intende il salmista: “Tu sei come straniero sulla terra e non hai dove posarti: dunque non sottrarti a me, ma svelami i tuoi comandamenti, perché io possa diventare il tuo amico”» (M. Buber, I racconti dei Hassidim, Guanda, Parma 1992, p.57).
E, aggiungiamo noi, perché io possa riconoscere lo straniero che è in me.