San Paolo è stato informato, forse dalle persone nominate in 1 Cor 1,11 e in 16,15-18, del fatto che alcuni tra i cristiani di Corinto sostenevano che « non c'è una risurrezione di morti » (1 Cor 15,12). L'affermazione erronea di quei cristiani può intendersi in varie maniere: o negavano ogni forma di vita dopo la morte, oppure asserivano che ci sarebbe stata una vita dopo la morte, ma non una risurrezione dei corpi dato che la risurrezione era già avvenuta spiritualmente (come dicevano alcuni al tempo delle pastorali; cf 2 Tm 2,18). La seconda ipotesi sembra la più convincente: gli antichi greci avevano difficoltà ad ammettere una risurrezione (cf At 17,32); tutta l'argomentazione di Paolo asserisce vigorosamente la futura risurrezione della carne.
Paolo incomincia con lo stabilire il fatto della risurrezione di Cristo, che non era negato ma dal quale non si sapevano trarre le conseguenze (cf 15,12). Il fatto della risurrezione di Cristo è parte essenziale del vangelo della salvezza, che Paolo ha già annunziato ai cristiani; essi sono diventati tali quando lo hanno accettato (cf 15,1-2). In questo annunzio del vangelo vi era un nucleo tradizionale: Paolo l'aveva ricevuto e a sua volta l'aveva trasmesso. Vi sono qui i due verbi tecnici della tradizione orale della Chiesa primitiva: paralambano (ricevere) e paradidomi (trasmettere). Paolo li usa quando racconta l'istituzione dell'eucaristia (cf / Cor 11,23-25) e qui (15,3) per introdurre questa formula di fede della predicazione della Chiesa: « Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, è stato sepolto, è stato risuscitato al terzo giorno secondo le Scritture, è apparso a Cefa, poi ai Dodici » (15,3-5).
La Chiesa primitiva credeva e insegnava che la morte di Gesù aveva avuto valore di espiazione delle colpe degli uomini e che essa era conforme alle Scritture, corrispondeva cioè al disegno salvifico di Dio rivelato nelle Scritture dell'Antico Testamento: si allude in particolare al quarto carme del Servo di lahvè (Is 53). Il secondo fatto enunciato nella formula catechetica riprodotta da san Paolo è la sepoltura di Gesù: con ciò appare come una cosa dimostrabile che Gesù era stato messo in un sepolcro distinto, non in una fossa comune, che la morte era stata reale, e che il sepolcro era stato trovato vuoto (come appare dalla menzione che segue immediatamente delle apparizioni).
Il terzo fatto che faceva parte essenziale del kerigma della Chiesa primitiva è quello della risurrezione al terzo giorno. Anche qui si aggiunge che essa avvenne secondo le Scritture: del Servo di lahvè era stata predetta una riabilitazione dopo la morte, una nuova vita nella luce e un potere regale (cf 7s 53, 10-12). Il Salmo 15(16),8-11 era stato già usato nella predicazione della Chiesa primitiva come prova della risurrezione (cf At 2,25-28; cf 13,35). La risurrezione di Gesù è espressa (qui 15,4) con un perfetto passivo: alla lettera «è stato risuscitato »; il passivo esprime l'idea della potenza di Dio in azione nella risurrezione, il perfetto che la nuova vita del risorto è ormai perenne, durerà in eterno. Le apparizioni furono la prova principale della risurrezione per gli apostoli stessi, quella che li condusse alla fede, e quella su cui essi si appoggiavano, come testimoni, per indurre altri alla fede nel risorto (cf i discorsi degli Atti 2,32; 3,15; specialmente 10,40-42; 13,30-31). Perciò il riassunto di fede della comunità primitiva riporta due apparizioni, a Cefa e al gruppo degli apostoli (i dodici). Questa è raccontata da Lc 24,36-43 e Gv 20,19-23. L'importanza dell'apparizione a Pietro è sottolineata anche dall'altra formula di fede conservata in Lc 24,34: « II Signore è realmente risorto ed è apparso a Simone ».
Con la menzione delle due principali apparizioni finisce propriamente la formula catechetica della Chiesa delle origini che Paolo riporta (traducendola, come pare, egli stesso o trovandola già tradotta dall'aramaico) (15,3-5). Egli aggiunge ora altre tre apparizioni per confermare ancora la fede nella risurrezione: quella a un numeroso gruppo di discepoli di Gesù (Paolo sottolinea che la maggior parte è ancora in vita: possono testimoniare), quella a Giacomo (personaggio di primo piano nella comunita primitiva, come capo della Chiesa locale di Gerusalemme: cf At 15,13; 21,18; Gai 1,19; 2,9.12), e finalmente quella agli apostoli riuniti che può identificarsi con l'apparizione in cui Gesù diede loro la missione universale (cf Mt 28,16-20; Le 24, 44-49) (15, 6-7).
Alle altre testimonianze Paolo aggiunge la sua: anche egli ha visto il Signore risorto. A lui Gesù è apparso « come a un abortivo » (15,8). L'immagine sembra aver origine dall'accusa degli avversari lanciata contro Paolo: egli non è apostolo come gli altri, è un aborto di apostolo. Paolo accetta in qualche modo l'insulto: la sua vocazione ad apostolo è avvenuta fuori tempo, e ha avuto un carattere straordinario, subitaneo e Violento. Ma tutto ciò ricorda a Paolo che egli non ha avuto nessun merito nella sua vocazione, anzi aveva tutto in contrario: era un persecutore. Egli è l'ultimo degli apostoli; per pura bontà di Dio è quello che è; ad essa deve di aver lavorato più di loro, di quelli chiamati prima (15,9-10).
L'apparizione di Gesù risorto a Paolo è della stessa natura di quella fatta agli altri, reale, oggettiva, come quella a Cefa e le altre: è usato lo stesso termine greco ophte. Sull'aver visto il Signore, come i dodici, Paolo ha fondato già la sua dignità di apostolo: egli è alla pari con i dodici (cf 1 Cor 9,1). Perciò può concludere che la sua predicazione sul risorto è valida come quella dei dodici: « Sia io sia quelli così predichiamo e così avete creduto » (15,11).
Dal fatto della risurrezione di Cristo, stabilito sulla testimonianza egualmente valida e concorde dei dodici e di Paolo e diventato ormai oggetto di fede trasmesso in formule fisse, Paolo conclude subito alla futura risurrezione dei morti. Si meraviglia anzitutto che alcuni cristiani di fronte a quella predicazione su Gesù risuscitato possano negare la risurrezione dei morti (15,12) e asserisce con forza il nesso tra le due risurrezioni: se non ci sarà una risurrezione dei morti, non c'è stata neppure risurrezione di Cristo: se Dio non ha il potere di risuscitare i morti, neppure l'ha avuto per risuscitare il Cristo; se non ci sarà una risurrezione di morti, neppure c'è stata la sua causa esemplare ed efficiente che è la risurrezione di Cristo (15,13).
Ora Paolo dimostra ancora che la risurrezione di Cristo c'è stata (15,14-19) e se c'è stata, essa porterà con sé la risurrezione dei morti (15,20-28). C'è stata la risurrezione di Gesù: essa non è solo testimoniata, ma è supposta dalla predicazione stessa: se Cristo non fosse risorto, la predicazione degli apostoli sarebbe assurda: a che scopo predicare un morto, come annunziare in un morto la salvezza? E sarebbe assurda la fede dei cristiani: perché riporre la propria speranza in un morto? Assurde la predicazione e la fede, perché sarebbero senza contenuto e senza appoggio: solo la risurrezione di Cristo da valore ed efficacia di salvezza al messaggio e alla sua accettazione (15,14). Il fatto stesso che gli apostoli predicano la risurrezione, è segno che essa è avvenuta; altrimenti bisognerebbe dire che essi sono dei falsi testimoni: essi asserirebbero come compiuto da Dio un gesto che egli di fatto non avrebbe compiuto (15, 15-16).
L'apostolo ritorna sull'idea, già espressa in 15,14, della inutilità della fede, con un altro termine (màtaios; là era kenós). Se non c'è stata risurrezione, la fede sarebbe futile, inutile, senza nessuna efficacia: i cristiani sarebbero ancora immersi nei loro peccati. Se non c'è stata risurrezione, neppure c'è stata la redenzione: solo perché è risorto, Gesù può dare la vita divina (come sarà detto più sotto in 15,20-23.45-49). Se quelli che hanno creduto non sono stati liberati dai peccati anche i morti in unione con Cristo sono perduti: se non c'è stata risurrezione di Cristo né vi sarà risurrezione dei morti, essi non sarebbero veramente salvi, perché la salvezza piena è dell'uomo, anima e corpo. Se nell'altra vita non c'è salvezza intera allora i credenti avrebbero riposto una illusoria speranza in Cristo solo per questa vita, e sarebbero veramente i più degni di compassione fra tutti gli uomini: dopo le rinunzie e i sacrifici della vita presente per amore di Cristo, questi li deluderebbe nell'altra (15,17-19).
Tutte queste assurde conseguenze della negazione della risurrezione di Cristo mostrano che essa c'è stata. Se c'è stata, aggiunge Paolo, ci sarà anche la risurrezione dei morti. Perché c'è un nesso tra le due, stabilito da Dio stesso, che ha fatto di Gesù il capostipite dell'umanità redenta e destinata alla vita, contrapposto al primo uomo capostipite dell'umanità peccatrice e sottoposta alla morte. Gesù non è un individuo isolato; ciò che avviene in lui ha influsso su tutti quelli che aderiscono a lui. Questo è detto con l'immagine delle primizie: alle primizie del raccolto segue la messe. Cristo è stato il primo a risorgere tra gli uomini che si addormentano nel sonno della morte: anche questi risorgeranno. La stessa idea con altra espressione ricorrerà in Col 1,18: Cristo è il primogenito di tra i morti. L'idea delle primizie qui è di nuovo espressa in 15,23: ciascuno risorge al suo tempo: prima è risorto Cristo, poi al tempo della sua parusia quelli che sono di Cristo, i cristiani che gli appartengono, che sono sua proprietà per la fede in lui.
La solidarietà che unisce Cristo ai suoi è espressa più ancora che con l'immagine delle primizie-raccolto intero, con il parallelo antitetico tra Cristo e il primo uomo: come c'è una solidarietà tra Adamo e tutti gli uomini: tutti muoiono a causa di Adamo; così c'è tra Cristo e i credenti in lui: tutti da lui riceveranno la vita nella risurrezione (15,21-22). Il parallelo tra Adamo e Cristo ritornerà tra breve (15,45-49) e sarà sviluppato in Rm 5,12-21 con il concetto, qui solo implicito, della morte attraverso il peccato, per la disubbidienza di Adamo, e della vita nella giustizia per l'obbedienza di Cristo.
Il disegno di Dio che legava Cristo e i credenti in un vincolo di solidarietà aveva anche un'altro aspetto: esso destinava a Cristo capo della nuova umanità il trionfo sui nemici perché questa nuova umanità potesse essere presentata a Dio da Cristo, alla fine della storia, come un regno senza nemici, perfettamente sottomesso a Cristo e a Dio stesso. Ora tra i nemici del regno di Dio e di Cristo c'è la morte. Se questa non venisse vinta con la risurrezione, il regno non sarebbe perfetto, la regalità di Cristo (che è in funzione della sovranità di Dio) non sarebbe totale, perché la salvezza dell'uomo, nella quale Dio pone la sua regalità e quella di Cristo, è vera e totale solo se il corpo risorge; la vittoria sulla morte consiste appunto nella risurrezione. La fine, dice Paolo (in 15,24), verrà, quando Gesù avrà rimesso nelle mani del Padre il regno, e ciò avverrà dopo l'annientamento delle forze del male (personificate, con termini desunti dall'angelologia giudaica, come principati dominazioni potenze). Esse sono già vinte e Cristo già regna, esercita su di esse il suo dominio e sta già conducendo gli uomini alla salvezza. Ma ciò deve avvenire sempre di più progressivamente, fino alla vittoria totale, espressa con l'immagine orientale dei nemici posti come sgabello del re che li ha vinti: c'è allusione al Salmo 109 (110),1 (cf 15,25).
Tra i nemici da sopraffare c'è la morte: è l'ultimo nemico, perché la morte (personificata anch'essa) riterrà la sua preda fino alla risurrezione dei morti (15,26). Così si verificherà in Cristo nuovo Adamo ciò che nel Salmo 8,7 era detto dell'uomo: Dio ha sottoposto al dominio dell'uomo tutte le cose, la creazione intera. È ovvio che nel « tutte le cose » sottomesse a Cristo non è compreso Dio (15,27). Egli anzi è il termine ultimo di questo movimento della creazione sotto l'influsso della regalità salvifica di Cristo: questa farà tornare tutto a Dio, in modo che egli sia tutto in tutti: non esisterà nessuna vera realtà all'infuori di quella di Dio: la realtà di Dio penetrerà totalmente nei salvati. E anche la regalità di mediazione di Gesù uomo continuerà in sottomissione al Padre: essa sarà sempre in funzione della sovranità di Dio, del Padre. Questa si manifesterà nell'essere « il Tutto » negli uomini che il Cristo avrà consegnato come suo regno a Dio, dopo averli strappati alla morte e agli altri nemici; e sarà « il Tutto » anche nell'umanità di Gesù (15,28).
La risurrezione dei morti provata così come parte essenziale del disegno di Dio per la salvezza viene ora confermata da due argomenti dedotti dalla vita, che mostrano ambedue una convinzione di fede (che non può andare delusa). Credono nella risurrezione anzitutto quei cristiani che si fanno battezzare per i morti. Della difficile espressione di Paolo sono state date parecchie spiegazioni. La più accettabile è questa: alcuni cristiani, quando un loro parente moriva senza battesimo che pure aveva mostrato di desiderare, facevano ripetere su se stessi alcune cerimonie del medesimo persuasi che ciò servisse al defunto. Con questo essi mostrano di credere alla risurrezione (15,29).
Di questa fede da prova lo stesso Paolo quando si espone continuamente a pericoli di morte, lotta contro temibili avversari (indicati con l'immagine delle fiere): se non ci fosse una vita ultraterrena e una risurrezione, sarebbe meglio fare ciò cui si invitano tra loro quelli che vogliono godersi la vita (15, 30-32).
Questi discorsi (quelli che negano la risurrezione e quelli che spingono alla vita facile: forse fatti dagli stessi?) corrompono i buoni costumi (proverbio che si ritrova in Menandro); mentre la serietà della vita cristiana esige di essere svegli, non peccare, avere una vera conoscenza di Dio (15,33-34).
Date così le prove della risurrezione, Paolo passa a descrivere come essa avverrà: si negava il fatto perché non se ne comprendeva la natura. San Paolo mostra, con l'immagine del seme e della pianta, che la risurrezione sarà un passaggio da uno stato embrionale germinale allo stato di sviluppo pieno: da diversi germi nascono diversi organismi (15,37-41); si esige solo la morte del seme (15,36) e la trasformazione della condizione di animalità con le sue caratteristiche di corruzione, abiezione, debolezza, alla condizione di spiritualità che avrà le doti opposte, incorruttibilità, gloria, forza (15,42-44).
Questa trasformazione avverrà per influsso di Cristo. San Paolo ritorna alla tipologia antitetica, già accennata nei vv. 20-22, Adamo-Cristo. C'è la successione corpo animale-corpo spirituale (cf 15,44 e 46), perché c'è la successione Adamo-Cristo. Ci fu il primo uomo, Adamo, che per l'influsso creatore di Dio divenne « anima vivente ». San Paolo riportando le parole stesse di Gn 2,7 vuoi dire che il primo uomo fu solo un individuo animale vivente che ha e può trasmettere solo la vita naturale, della stessa sfera terrestre cui appartiene. In antitesi con il primo Adamo, l'ultimo Adamo Cristo, in forza della sua risurrezione, è « spirito vivificante », essere spirituale e celeste appartenente alla sfera dello Spirito e perciò capace di trasmettere la vita dello spirito, di «vivificare » le anime e poi anche il corpo nella risurrezione (15,45).
Anche l'origine di ciascuno dei due capostipiti conferma l'antitesi e spiega il diverso influsso che hanno sui loro discendenti: il primo Adamo era dalla terra, era terrestre, fatto con la polvere del suolo, come appare dal racconto della Genesi 2,7; in qualsiasi modo esso debba interpretarsi, sempre rimane vero che quanto al corpo l'uomo è legato alla terra. Perciò i discendenti di Adamo sono anch'essi terreni, hanno un corpo mortale. Invece Cristo ha origine celeste: dal cielo, da Dio, dallo Spirito di Dio è stato introdotto nella vita, soprattutto risuscitato alla vita immortale gloriosa. Quelli che aderiscono a lui nella fede sono perciò celesti, appartengono al cielo, già ora mediante la fede e la vita soprannaturale, pienamente poi quando saranno anch'essi risuscitati alla vita immortale (15,47-48). Perciò conclude Paolo, come, per la discendenza da Adamo in quanto uomini, abbiamo portato l'immagine dell'uomo terrestre, ne abbiamo nella nostra vita corporea terrena tutte le conseguenze (siamo mortali, sottoposti a tutti i limiti e necessità della vita nel corpo), così in forza dell'adesione a Cristo, nella risurrezione,
porteremo l'immagine dell'uomo celeste, rassomiglieremo a Cristo, parteciperemo della sua vita celeste, di immortalità e di gloria (15,49; è meno probabile la lettura di un congiuntivo esortativo: portiamo, nella vita, l'immagine di Cristo celeste).
Avviandosi alla fine della sua argomentazione, san Paolo vuoi precisare ancora che è necessaria una trasformazione del nostro corpo terrestre in corpo celeste, ma che essa può avvenire in due modi, per risurrezione da morte e senza passare per la morte; in ogni caso sarà la vittoria di Cristo sulla morte, pensiero che deve animare la vita cristiana. È necessaria una trasformazione, perché la « carne e sangue », cioè l'uomo finché rimane nella condizione mortale di debolezza, non può entrare in possesso del regno di Dio nella sua fase finale celeste; né un essere corruttibile finché rimane tale può possedere la incorruttibilità. È necessaria la trasformazione.
Paolo l'annunzia con solennità come un mistero; il disegno di Dio per la salvezza che è nascosto all'umana ragione ha bisogno di essere rivelato. Paolo ne ha avuto illuminazione da parte di Dio. Non tutti, egli dice, passeremo per la morte: quando verrà il Signore quelli che saranno allora vivi non dovranno morire (addormentarsi è immagine comune per indicare la morte: cf 1 Ts 4,14). Sul fatto dell'ultima generazione che non passa per la morte san Paolo si era già espresso in 1 Ts 4,13-17. Il non passare per la morte non dispenserà però dalla trasformazione: tutti saremo trasformati sia i morti (questi risorgeranno) sia quelli trovati vivi. Il corpo corruttibile e mortale si rivestirà di incorruttibilità e immortalità. Tutto ciò avverrà in un momento, nel tempo in cui Dio con la sua onnipotente volontà lo comanderà: il comando è simboleggiato dal suono della tromba, come già in 1 Ts 4,16. Allora, in questa misteriosa trasformazione, vi sarà la sconfitta della morte. Con citazione di Is 25,8 e Os 13,14, san Paolo parla della morte che viene inghiottita nella vittoria e perde il suo pungiglione: non ci sarà più il peccato che è stato la causa per cui la morte è entrata nel mondo (cf Rm 5,12), il peccato che per stabilire il suo regno si è servito della Legge (cf Rm 5,20; 7,7-25). Di tutte le potenze avverse, peccato-Legge-morte, i cristiani sono e saranno vittoriosi, per dono di Dio in Cristo.
Perciò Paolo rende grazie a Dio e termina con l'esortazione a rimanere fermi e incrollabili nella fede, e a crescere nell'opera del Signore, cioè nella vita cristiana: dal momento che ci sarà la loro risurrezione, fondata nella risurrezione di Cristo, essi sanno che la loro fatica per progredire nella vita cristiana avrà la sua ricompensa (15,50-58).
Il pensiero centrale del passo analizzato è quello del valore soteriologico della risurrezione di Cristo. Paolo esprime questa teologia in testi più generici come quando dice che i cristiani non devono più vivere per se stessi ma per colui che è morto e risorto per essi (2 Cor 5,15), che Cristo è risorto per la nostra giustificazione (Rm 4,25), che egli è potente in mezzo ai cristiani, con l'efficacia e l'autorità data all'apostolato di Paolo; perché dopo essere stato crocifisso per la debolezza, ora vive per la potenza di Dio (2 Cor 13,3-4). In testi più espliciti san Paolo parla della potenza di Gesù risorto nell'effondere lo Spirito Santo (2 Cor 3,18-, Rm 1,3-4), nel riempire la Chiesa dei suoi doni (cf Ef 4,7-16), nel dare efficacia di vita alle sofferenze degli apostoli (2 Cor 4,7-12) e finalmente nel fare partecipare alla sua risurrezione, trasformando il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo glorioso (cf FU 3,10-11.20-21 e il nostro capitolo 1 Cor 15, specialmente vv. 20-22.45-49).
Nota bibliografica
Oltre i commentati alla 1 Corinzi (per es. P. rossano, Lettere ai Corinzi, Roma 1973) si può leggere la breve analisi del capitolo di A, dal-besio, in // Messaggio della salvezza, voi. 7, Lettere di san Paolo e lettera agli Ebrei, Elle Di Ci, Leumann (To) "1976, pp. 212-216 (con indicazioni bibliograf. sui punti discussi). Sul valore salvifico della risurrezione, F. X. dqrrwell, La résurrection de Jésus mystère du salut, Le PuYj Paris 71963; trad. italiana, ed. Paoline.
Da "PAROLE DI VITA" 2/1981, ed. ELLE DI CI