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Pubblicato in Dossier Multicultura
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Lunedì, 17 Aprile 2006 19:11

Speranza (Vecchioni - Pareti)

Speranza
(canzone di Vecchioni - Pareti)

Anche se nella vita voltandomi un mattino io non ti troverò
accanto a me basta soltanto la tua felicità
lo conosco il tuo dolore credevi che oltre il monte ci fosse
un giardino e invece hai trovato soltanto il fango di una città.

Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
e non posso aspettarmi che la ferita si chiuderà
ma mi basta darti speranza, ma mi basta darti speranza,
ma mi basta darti speranza, tu devi vivere.

Nessuno ti ricorda a nessuno tu manchi quel ragazzo non
può tornare e per questo soltanto vorresti finirla lì
ma guarda che la vita non è la prima porta aperta in fretta
senza bussare; è il balcone più grande che guarda sul mare.

Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
ma mi basta darti speranza.

Pubblicato in Dossier Speranza

Per la pace, “ecologia umana internazionale”
Card. Renato Martino





Il Magistero sociale della Chiesa nelle sue varie manifestazioni – ricordo per inciso il ricco patrimonio di idee contenute nella Pacem in terris del Beato Giovanni XXIII, nei tanti Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace proposti dai Sommi Pontefici da Paolo VI sino a quello di quest’anno del Santo Padre Benedetto XVI, nel capitolo decimo del Compendio della dottrina sociale della Chiesa - usa sostanzialmente la stessa chiave, miscelando, con sapienti dosaggi, le quattro dimensioni sopra richiamate e illuminandole con la grazia e la forza del Vangelo della pace di nostro Signore Gesù Cristo.

Lo stesso Consiglio per la Giustizia e per la Pace, già nella sua denominazione, è una dimostrazione di quanto sia importante utilizzare il registro di molteplici dimensioni interdisciplinari nell’approccio alle complesse tematiche della pace. Essendo il Presidente di questo Dicastero, recentemente ho voluto anch’io offrire una qualche riflessione che, utilizzando lo stesso paradigma, ho reso pubblica nel mio volume Pace e guerra. Sono certo che i valenti e qualificatissimi oratori convocati a questo nostro Colloquio sapranno darci contributi di grande spessore e profilo. Per quello che mi riguarda permettetemi una qualche riflessione previa che mi auguro possa essere utile a stimolare la nostra comune ricerca dei cammini della pace. Mi sembra che la prima cosa di cui abbiamo bisogno è una corretta comprensione di come si pone oggi il problema della guerra e della pace. Il conflitto in genere e la guerra in particolare, infatti, stanno cambiando la propria fisionomia. Sono più orizzontali che verticali, più diffusi che concentrati, più frammentati che unitari, più quotidiani che eccezionali, più vicini che lontani, più immateriali (e perfino virtuali) che materiali. L’11 settembre ha dimostrato che la morte di tremila persone è alla portata di tutti: basta un coltellino come quello adoperato da un dirottatore. A questo riguardo, un attento osservatore ha parlato di «guerre democratiche».

Questi rilevanti cambiamenti sono stati provocati soprattutto dal processo di globalizzazione. È doveroso tenere conto di questo contesto completamente nuovo in cui oggi si collocano le problematiche della pace e della guerra, sia per conoscere i nuovi condizionamenti negativi per il processo di pace, sia per discernere le nuove opportunità, su cui fare leva, con evangelica speranza, per creare migliori condizioni di pace. La violenza, i conflitti e le guerre si frammentano e quasi si nebulizzano, mentre un tempo erano situazioni circoscritte e unitarie. Aumentano i micro-conflitti ampiamente dislocati, mentre diminuiscono le guerre convenzionali attuate su grandi teatri. C’è una recrudescenza di guerre civili, etniche, tribali, locali. Nel mondo sviluppato c’è un incremento di insicurezza civile, di guerra per bande e tra gruppi di potere illegale, di micro-illegalità attuata, purtroppo, anche da minorenni. Dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, le guerre si sono disseminate nel mondo come espressione di tensioni particolaristiche difficilmente riconducibili a uno schema unitario.

Ho qui accennato ad alcuni cambiamenti in atto nel modo di considerare la guerra nell’epoca globalizzata. Medesime considerazioni andrebbero fatte per la pace. Poiché la globalizzazione è «quello che gli uomini ne faranno», dobbiamo mettere in evidenza le opportunità positive che essa pone nelle nostre mani. L’orizzontalità, per esempio, ha permesso e permetterà ancor più in futuro, di moltiplicare gli attori della pace sulla scena globale, di sviluppare la partecipazione della società civile e dei gruppi di advocacy. La trasparenza delle informazioni rende possibile all’opinione pubblica mondiale farsi un’idea, esprimersi e diventare un vero e proprio interlocutore dei poteri politici su temi di guerra e di pace. Il tragico fenomeno della «delocalizzazione» delle guerre può stimolare maggiormente gli uomini di buona volontà e la comunità internazionale ad affrontarne le cause sociali ed economiche e a favorire il dialogo tra le etnie e le religioni. Se la fine dei blocchi ha prodotto e tuttora tende a produrre una fase di instabilità internazionale, apre anche a nuove possibilità di intervento che in precedenza erano precluse. Ogni epoca porta con sé rischi ed opportunità. Appartiene al realismo cristiano considerare i primi e alla speranza cristiana valorizzare le seconde. Se la guerra si fa diffusa e decentrata, quotidiana e smaterializzata … ebbene, anche la pace lo può essere, e lo deve essere. Ciò che vale per il negativo vale anche e prima di tutto per il positivo.

Il contesto globalizzato cambia i connotati sociologici della pace, ma non ne altera la dimensione antropologica ed etica. Occorre quindi un supplemento di interpretazione del mondo di oggi nelle sue dinamiche principali e di coraggio profetico per poter annunciare e preparare la pace anche nel nuovo contesto globale. Parallelamente, serve anche la capacità di recuperare il senso pieno della pace. Possiamo allora chiederci quali siano le nuove esigenze della pace e, quindi, quali strade possiamo percorrere per costruirla e realizzarla meglio di quanto non siamo riusciti a fare fino ad ora.

a) Acquisire una mentalità preventiva. È plausibile ritenere, in primo luogo, che la pace richiederà sempre di più di essere ricercata con una mentalità attrezzata a prevenire i conflitti piuttosto che con interventi a posteriori. Le cause della guerra si moltiplicano e si intrecciano. Le cause legate ad interessi economici si aggiungono a conflitti etnici o religiosi; il retaggio di storici rancori si combina con situazioni politiche di incertezza o di dispotismo; sofferenze sociali alimentano rivendicazioni espresse in forme violente che spesso si combinano con la lotta per la sopravvivenza, oppure con le tensioni provocate dal possesso di risorse naturali. Il carattere dell’incertezza caratterizza così anche la guerra e, quindi, la pace, come altri importanti fenomeni sociali del nostro tempo. Che la guerra sia un’«avventura senza ritorno», come aveva detto Giovanni Paolo II, è purtroppo vero anche dal punto di vista delle novità sociologiche: una volta scoppiata diventa difficilissimo dipanare il groviglio delle sue cause per intervenire ex post e ristabilire la pace. Per tutti i motivi che ho qui brevemente richiamato, il futuro richiederà sempre di più una maggiore prevenzione dei conflitti piuttosto che una loro «riparazione» posteriore. Pertanto non si può non concordare con quanti affermano che la complessità del mondo globalizzato non richiede meno politica, ma una intensificazione del ruolo della politica, proprio per gestire la maggiore incertezza con un dialogo più aperto e una concertazione più responsabile. In questo contesto va collocata l’esigenza, più volte richiamata dalla Santa Sede, di potenziare e riorganizzare gli Organismi internazionali.

b) Coltivare una «ecologia umana» internazionale. La guerra è oggi un fenomeno globale e questo dato deve far emergere sempre di più, come risposta attiva, che anche la pace è un fenomeno globale. Credo che questa globalità vada intesa soprattutto in senso intensivo: il venir meno dell’ecologia politica e perfino dell’ecologia naturale, dipendono dal venir meno della «ecologia umana» (Cf. Centesimus annus n. 38) Cosa si intende con questa espressione? Significa che non solo l’ambiente naturale, ma anche l’ambiente umano – la famiglia, la società, l’economia e la politica – richiede il rispetto di una sua propria ecologia, di un suo funzionamento fisiologico ove la dignità della persona sia veramente posta al centro.

Ora, il fatto nuovo tipico della società globalizzata è che tendono a sparire i confini tra ecologia naturale (ossia il rispetto responsabile dell’ambiente), ecologia sociale (la giustizia e la promozione di persone e gruppi), ecologia politica (le relazioni tra gli Stati e gli organismi politici) ed ecologia umana (un ambiente morale in cui la dignità della persona sia rispettata). I confini tendono a sparire nel senso che le interrelazioni tra questi ambiti sono sempre più strette e complesse. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso della guerra. Per esempio: le lotte per sfuggire alla povertà ed accaparrarsi risorse naturali generano conflitti; a loro volta i conflitti comportano distruzione di risorse naturali e generano povertà. Le lotte per garantirsi i diritti di sfruttamento dell’ecosistema (si pensi alla bioingegneria vegetale ed animale che tenderebbe a mettere il proprio copyright sulla biodiversità) generano profitti e benessere per alcuni, ma anche possono indurre ceti e popoli alla povertà. Trovo che il concetto di ecologia umana possa fornire una chiave di lettura dei fenomeni del conflitto e della guerra e quindi, in positivo, della pace, in grado di aiutarci a fronteggiare le nuove sfide globali. Essa permette di intendere l’interconnessione nell’uomo dei diversi ambiti di ecologia e la necessità di un impegno coerente e orientato perché, come in un sistema di vasi comunicanti, tutto influisce su tutto. La costruzione della pace si fa oggi in primo luogo, impegnandosi per una ecologia umana plenaria, per un rispetto della dignità dell’uomo in tutti gli ambiti.

c) L’impegno delle religioni. Fino a qualche anno fa sembrava vincente l’idea di uno spazio pubblico internazionale «neutro» rispetto alle religioni, affidato quasi esclusivamente agli Stati e, in particolare, alle due superpotenze. Sembrava che nel mondo occidentale la valenza pubblica della religione fosse inibita dalla laicità della vita politica, quando non dal laicismo e dal processo di secolarizzazione che tendevano a relegare la religione nel privato. Inopinatamente, invece, dopo il crollo del Muro e la fine dei blocchi, anche le religioni sono state sdoganate. In Occidente si è così appreso che, sotto la patina di un secolarismo rampante, vivevano forti tensioni religiose e non solo nella forma consumistica della New Age. Gli Stati Uniti, per esempio, considerati l’avanguardia della secolarizzazione in Occidente, hanno riscoperto le proprie radici religiose al punto che qualche osservatore parla di una crescente differenziazione proprio su questo punto tra Stati Uniti ed Europa. In Oriente, dalla disgregazione dell’impero sovietico sono emerse molteplici appartenenze religiose, che in alcuni casi, purtroppo, sono addirittura esplose anche in forma di virulenti conflitti. Le migrazioni globali, d’altra parte, hanno posto le religioni l’una accanto all’altra e la scena politica mondiale, con le sue note vicende, ha condotto alla ribalta della cronaca e della politica la religione islamica. Tutto questo comporta non solo un rinnovato peso sociale e politico delle religioni, ma soprattutto una loro rivendicazione di «diritto» a un ruolo pubblico. Se talvolta ciò è stato ed è fonte di conflitto e di guerra, ritengo che possa e debba diventare oggi e domani elemento di pace. Su questo terreno si giocheranno sempre di più nel prossimo futuro le sorti della pace nel nostro mondo. Una condizione fondamentale per la pace è che le religioni sappiano evitare con sempre maggiore accortezza i due estremi del fondamentalismo laico e del fondamentalismo religioso. Il fondamentalismo laico non ammette la presenza della religione nello spazio pubblico, relegandola ad affare privato; il fondamentalismo religioso si risolve nell’occupazione diretta dello spazio pubblico, senza rispetto del principio cristiano di laicità: simili posizioni non possono avere altro esito se non quello di aumentare i conflitti religiosi. Come si vede, sarà sempre più importante garantire in futuro la libertà religiosa non solo nei testi costituzionali, ma soprattutto nella pratica politica concreta. La libertà religiosa non è causa di guerra, anzi essa è la condizione per evitare il fondamentalismo sia laico sia religioso, le due principali forme di intolleranza religiosa nel mondo di oggi.

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Pubblicato in Dossier Pace
Venerdì, 14 Aprile 2006 01:52

Per una strategia della pace (don Tonino Bello)

Per una strategia della pace

di don Tonino Bello




Gerusalemme, tema generatore


1. Se ricorriamo a uno schema biblico, non è solo per un bisogno di organicità espositiva, ma anche perché vorremo tonificare la saldezza delle nostre analisi, esemplare lo stile del nostro impegno, irrorare la genialità delta nostra prassi di pace, e non banalizzare le nostre utopie.

Lo schema biblico fa perno attorno a un fortissimo tema generatore che sì racchiude in una parola: Gerusalemme. Lo snoderemo in quattro icone.

Nessuno è ormai tanto digiuno di riferimenti scritturistici da non sapere che Gerusalemme è la città santa, che già nella sua etimologia ne rievoca tutta la galassia dello "Shalom" biblico.

E' la "beata pacis visio": il simbolo, l'immagine della pace. Anzi, la sede per eccellenza della pace:
"Glorifica il Signore, Gerusalemme; loda, Sion, il tuo Dio.. egli ha messo pace nei tuoi confini, e ti sazia con fior di frumento" (Salmo 147,12-14).

Verso Gerusalemme, casa del Dio della pace, si orientano i passi dei pellegrini ebrei. A Gerusalemme diroccata si volgono le nostalgie degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù, Principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia universale.

Sulla scorta, allora, di questo tema generatore, tracceremo quattro proiezioni:
- salire a Gerusalemme (linea ermeneutica della pace);
- sostare a Gerusalemme (linea dossologica della pace);
- scendere da Gerusalemme (linea politica della pace);
- verso la Gerusalemme del cielo (linea utopica della pace).

Salire a Gerusalemme


2.1 Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità emotiva il pellegrinaggio verso Gerusalemme, "città del sommo Dio".

Quando arrivavano certe date classiche, un fremito di commozione prendeva l'animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di Sion, cantavano i salmi detti appunto delle "ascensioni". Uno dei più belli è il salmo 122: "Quale gioia, quando mi dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ... Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano; sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: su di te sia pace":

L'icona degli ebrei che salgono verso Gerusalemme, città della pace, deve essere paradigmatica per noi, pellegrini che faticosamente saliamo le alture alla ricerca della pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione ermeneutica del nostro impegno: quella della ricerca.

Si potrebbe assumere come telaio di questa prima dimensione la frase di un monaco certosino del 1100, Guigo II, che, parlando della "lectio divina", cioè della metodologia da usare per leggere compitamente, in modo sapienziale, la Parola di Dio, scandisce quattro momenti: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. E dice così: "La lettura è un esercizio esteriore, la meditazione è una comprensione intellettuale, la preghiera è desiderio, la contemplazione è superamento di ogni senso.
Ora, ecco la prima proiezione.

I credenti dovrebbero essere testimoni di una "lectio divina" della pace. Scandendo, appunto, i quattro momenti che venivano proposti ai monaci per la "lectio divina" della Parola.

2.2 Anzitutto la lettura.

Di che cosa? Dei segni di guerra e dei segni di pace. Gli apparecchi ricetrasmittenti dell'opinione pubblica sono spesso grossolani. Registrano solo ingiustizie e guerre "scenografiche". E comunicano solo segnali di pace connotati dall'enfasi.
Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni di violenza emesse da tutte le direzioni.

La violenza a onde corte che viene perpetrata, ad esempio, mediante l'aborto.
Dopo gli anni roventi degli steccati culturali e degli scontri etici, pare che il bisogno di una autentica difesa della vita non nata stia ricongiungendo le sue proiezioni con l'ansia di un mondo affrancato dall'incubo nucleare, verso un comune allargamento degli orizzonti di quelle evidenze etiche che tutti si affannano a proclamare in decadimento.
La violenza a onde medie che viene perpetrata in paesi pure vicini a noi, ma non sempre collocata nella focale dei "media". Così sui massacri che avvengono nel Libano, in Iran, in Irak, in Etiopia, in Mozambico, in Sudan..., nei paesi del Medio Oriente, o sulle violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate non solo in Sud Africa, o in Centro America, o nell'America Latina, ma anche nei paesi dell'Est europeo, cade la complicità della stampa e l'indifferenza delle coscienze.

La violenza a onde lunghe che viene subdolamente perpetrata, più che sul versante dell'avere, su quello dell'essere. Hanno ancora valore le parole che Solgenitzin scriveva nel 1972: "I tipi di coercizione più pericolosi per la pace sono quelli che agiscono senza missili nucleari, senza flotte e senza aviazione, e sono tanto larvati che si potrebbe quasi scambiarli per tradizioni e usanze abituali... Per ottenere pace autentica, è necessario che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono le forme clamorose.... L'impegno è quello di cancellare dagli uomini l'idea che qualcuno possa avere il diritto di usare violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro che usano la violenza: la pace è favorita da colui che integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati".

Ma dovremmo avere anche antenne più sensibili a captare le modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla gente.

Oggi assistiamo a un impressionante trapasso culturale sul tema della pace, che si esprime, come osserva E. Balducci, in una duplice forma: "quella di superficie, che diventa prorompente quando gli eventi politici e militari creano le giuste occasioni, e quella sommersa, che ha i suoi luoghi di incubazione e di creatività disseminati nelle città e nei villaggi, sotto le denominazioni più diverse e con i più diversi sostegni: dagli enti locali ai partiti, dagli istituti scolastici alle parrocchie. Il movimento per la pace è come una galassia che occupa la zona intermedia tra l'opinione pubblica e le strutture di partito, una zona nella quale avvengono, magari silenziosamente, le metamorfosi chimiche destinate, forse, a mutare in futuro anche gli apparati del potere. E' difficile ridurre a tratti unitari un fenomeno che è, come dicono i sociologi, allo "stato nascente". Vi si trova il massimalismo utopico che abbraccia in uno slancio generoso dell'immaginazione il futuro del mondo intero, e l'insistenza ossessiva su di una opzione particolare, come, tanto per fare un esempio, l'abolizione della caccia; la pro pensione a risolvere tutti i problemi sul piano etico, senza tener conto della complessità del nesso che stringe ed oppone etica e storia; la demonizzazione degli uomini politici in cui si incarna l'ideologia di sicurezza armata, e l'idealizzazione della guerriglia contro gli imperi atomici. E' un mondo fluido quello del movimento per la pace, in cui si alternano stati di incandescenza e improvvisi raffreddamenti. Ma, osservato nel suo insieme, esso esprime un vero e proprio processo di conversione culturale, che investe ormai anche gli ambienti più tradizionali e che, attraverso la pluralità eterogenea dei suoi approcci, va elaborando alcune linee che già prefigurano un disegno unitario destinato ad imporsi, nel futuro, a tutti i livelli della società".

2.3 Il secondo momento della "lectio divina" della pace è quello della meditazione.

Io vorrei dire: quello della sistematizzazione teologica. Purtroppo non c e ancora in Italia una apprezzabile teologia della pace. Non si va più avanti dei troppo frammentati sussulti di ordine biblico, e delle pur giuste analisi di linguaggio che indugiano intorno ai termini shalom, eirene, o intorno al termine opposto hamas (il contrario di shalom non è guerra, ma violenza), la violenza essenziale che scompagina il complesso delle relazioni tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e le cose, tra l'uomo e l'altro uomo.

Quello delta pace viene visto ancora solo come tema di ordine etico, che risiede cioè esclusivamente nelle nicchie operative della morale, non un tema di carattere cristologico e trinitario che cerca cittadinanza negli spazi speculativi della fede.
Non c'è ancora una "irenologia" sistematica. Si annaspa attorno a incerti riferimenti cristolo-gici, centrati sul famoso passo della lettera agli Efesini (2,14-18), in cui si afferma che "Egli (Cristo) è la nostra Pace".

Si intuisce che il Vangelo è annuncio di pace, ma poi per un verso ci si impantana nelle dissertazioni sulla spada da rimettere nel fodero o sull'altra guancia da porgere allo schiaffo; mentre, sul fronte opposto, si tenta addirittura la fondazione di una teologia della guerra o la legittimazione di una certa violenza sulla base del Vecchio Testamento e di alcune espressioni del Nuovo ("non sono venuto a portare la pace, ma la spada"...).
Manca ancora del tutto una riconduzione della pace sul terreno trinitario: anzi, definirla proprio su questo modulo trinitario come la convivialità delle differenze, o come icona della vita trinitaria, sembra poco più che una esercitazione retorica.

E' davvero malinconico osservare come il cristiano, definito da Tertulliano "uno che lavora per la vita", non trovi ancora chiari riferimenti in una "irenologia", che dovrebbe essere una "obiezione di coscienza totale" di fronte ai poteri della terra che minacciano di bruciare l'umanità in un olocausto senza precedenti.

Ecco il compito più duro della "ascesa" verso Gerusalemme. Emerge da più parti la necessità di affrontare il problema della fondazione teologica detta pace, mollando gli ormeggi dall'area moralistica, tecnica, funzionale, intramondana e diplomatica. Sarà proprio dalla "irenologia" che si scateneranno nel mondo quei venti freschi e salutari che rinnoveranno la storia.

2.4 Ed eccoci al terzo momento della "lectio divina": la preghiera.

E' qui che si deve innestare, in moduli più forti, l'impegno dei credenti sulla spiritualità della pace. Spiritualità che non significa confino nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo di gruppo con la panna montata delle canzonette religiose.

Mi sembra molto significativa una espressione di Nicolas Berdiaeff: "Il pane per me stesso è una questione materiale. Il pane per il mio vicino è una questione spirituale".
Spiritualità delta pace significa appunto cercare il pane per il proprio vicino. Ma significa anche approfondire la coscienza che il pane "sovrasostanziale" della pace è un dono che va chiesto a Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi. Lo shalom non nasce dal regolamento internazionale dei conflitti. Non viene fuori dai trattati e dalle pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono pure necessari, ma come predisposizione all'accoglimento del dono di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non ta pace. Produrranno la coesistenza pacifica, non l'esistenza della pace.

La pace è "oriens ex atto", come la Chiesa. E come ci stiamo abituando a pensare alta "Ecclesia de Trinitate", così dobbiamo abituarci a pensare alla "pax de Trinitate". E come la Chiesa non è una realtà atemporale ma storica, non celeste ma inserita nel mondo, non utopica ma profetica... così deve essere la pace. E come la Chiesa, icona detta Trinità, è epifania e primizia del mondo nuovo come Dio lo ha progettato dall'eternità, così la pace sulla terra, icona della vita trinitaria, deve essere epifania e primizia della pace del mondo rinnovato.

Questo parallelo tra Chiesa e pace, caratterizza la spiritualità delta pace come spiritualità ecclesiale.

Cercare il contesto della più cordiale ecclesialità non è tentare un'operazione di assestamento aziendale.

Significa, invece, intuire che l'unica trama che può veicolare l'acqua della pace "oriens ex alto" è la trama ecclesiale, non tanto per le sue strutture, quanto per il suo essere "realtà di comunione".

Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare, e che vanno dalla stimolazione nei confronti delle nostre comunità ecclesiali, al coinvolgimento "simpatico" dei nostri pastori, alta pressione rispettosa sui nostri vescovi perché siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore "parresia" delle nostre Chiese locali, alla riconduzione diuturna delle nostre realtà di base sul versante della implorazione, secondo la formula umile e coraggiosa del Card. Etchegherray: "Signore, dammi l'accortezza di spiegare bene che la pace non è così semplice come immagina il cuore, ma più semplice di quanto crede la ragione!".

E che la letizia della pace sia in fermento nella nostra comunità ecclesiale, è un segno dei tempi che con speranza dovremmo annunciare. Non è forse vero che per noi credenti d'occidente la pace è il nostro modo di costruire la liberazione?

2.5 Finalmente siamo arrivati all'ultimo momento della "lectio divina" della pace: la contemplazione. Che non e "stasi", ma "estasi" (ex-sta-sis), cioè movimento, esodo, sequela.

Sequela di Cristo, che significa camminare nella luce del Signore e nell'ascolto della sua Parola, con tutte le implicanze difficili del martirio. Ecco il discorso sulla mitezza, sulla nonviolenza attiva, sulla povertà come metodo, sul servizio, sulla partenza dagli ultimi, sul perdono come disarmo unilaterale (insegnatoci direttamente da Cristo, e così difficile da accogliere sia a livello personale, sia a livello internazionale).

Senza queste dimensioni, noi credenti diventeremmo solo banditori di pseudo-profezie, o di una pace "a basso prezzo", direbbe Bonhoeffer il quale parlava di "grazia a caro prezzo".

Sostare a Gerusalemme

3.1 Scegliamo anche qui un paradigma biblico tratto dal Vangelo di Luca: "I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per La festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava" (2,41-61).

L'icona di Gesù che rimane a Gerusalemme e che, nel tempio, ascolta e interroga, occupandosi delle cose del Padre suo, deve essere parabolica anche per noi, alla ricerca di uno stile che ci caratterizzi come operatori di pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione dossologica del nostro impegno. Come telaio di questa seconda dimensione, assumo i tre pilastri che hanno Sostenuto l'incontro di preghiera del 27 ottobre ad Assisi: silenzio, digiuno, pellegrinaggio.

3.2 Anzitutto, il silenzio.

Gesù ascolta, e se rompe il silenzio è solo per interrogare, non per dare risposte. Mi sembra che ci sia qui la freccia stradale che ci indica una proiezione molto significativa sul piano dette nostre metodologie. Chi si impegna per la pace non è chiamato a emettere un rumore tra i tanti rumori attuati che parlano di pace. Non ha la vocazione a dire cose eclatanti, atte a conciliare il fascino della prima donna o il "look" del protagonista nel concerto degli "strumenti delta pace". Non è smanioso di emergere, dicendo ogni volta la sua su ogni problema di fondo o su ogni vicenda occasionale. Non ha paura di perdere il treno della popolarità, né si affanna a prendere tutte le coincidenze sotto la pensilina della cronaca. Non ama declamare la verità, rivestendola di arroganza. Predilige l'ascolto e la riflessione.

Il suo, però, non è un "silenzio-stampa", dettato cioè dal calcolo. Tantomeno è un silenzio prudenziale, pavido, bilanciato, turgido di compromessi. E' un silenzio che esplode, anzi, con audacia profetica, nella direzione della Parola rivelata. Diventa allora incontenibile: non imbavaglia la verità per paura di dispiacere ai potenti; non decurta la Parola per farla entrare nel clichè delle cautele carnali; non sterilizza il linguaggio per tener buoni quelli del Palazzo; non attenua le asprezze "irrazionali" del messaggio per timore di apparire ingenuo, ma lo trasmette per intero fino alle sporgenze del paradosso.

Il silenzio diviene così l'utero entro cui la Parola diviene carne, come nel grembo di Maria.

3.3 Dopo il silenzio, il digiuno.

Siccome nell'antichità era vietato digiunare di domenica, il digiuno è il segno della ferialità. Colloca pertanto la pace sul terreno banale e difficile dei giorni normali. Ed è questo della "ferialità" il digiuno più significativo che potremmo esprimere nel deserto del mondo, così pieno di "aspiranti al ruolo dì Dio".
Forse coinciderà per noi anche col digiuno della gloria e della cronaca. Ma se ne avvantaggerà la dossologia verso il Principe della pace.

3.4 E, infine, il pellegrinaggio.

Verso dove? All'interno della comunità ecclesiale e all'esterno, nello stile della missione.
Più precisamente: verso il cuore della gente, verso il cuore delle comunità cristiane che stanno nel "tempio", verso gli ultimi.

E' splendido quell'inciso di Luca che dipinge Gesù "seduto in mezzo".

Stare in mezzo alla gente. Per interrogarla, ponendole domande di fondo sul senso della vita. Per coscientizzarla facendo fermentare i germi di verità depositati nelle più profonde stratificazioni popolari. Per smuoverla, operando quegli smottamenti di terreno sul quale il fatalismo e il senso dell'ineluttabilità hanno sopraelevato edifici di inerzia.
Stare in mezzo alle comunità cristiane. Per animarle al coraggio. Per esortarle alla denuncia profetica. Per coinvolgerle nei processi di liberazione planetaria.

Stare in mezzo agli ultimi. Perché, partendo da essi, va riformulata la strategia di ogni movimento che si impegna per la pace. E' mettendosi in corpo l'occhio del povero che potremo ridisenare la cartina geografica dei luoghi dove oggi Cristo è crocifisso.
Se sapremo compiere questo pellegrinaggio verso la gente (scegliendo la dimensione popolare del nostro impegno), verso le comunità ecclesiali (portando al loro interno il soffio della universalità e della speranza) e verso gli oscuri domicili degli ultimi (rendendoli protagonisti del loro riscatto), allora si sprigionerà davvero, dai sotterranei della storia più che dai palazzi dei potenti, una incontenibile dossologia trinitaria.

Scendere da Gerusalemme

4.1 L'icona biblica che ci richiama la dimensione politica della pace e che traduce la coscienza in progetto, è quella del buon samaritano in viaggio sulla Gerusalemme-Gerico.

E' su quest'asse che si giocano i sogni diurni delle nostre utopie. E' l'asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è la città del tempio; è il luogo dove si celebra l'ultima cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza la sua risurrezione; è l'epicentro della pentecoste...) e conduce verso Gerico (verso l'ecumene, la storia, anzi la cronaca: cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti dei briganti, i quali spogliarono, percossero, lasciarono mezzo morto un uomo, simbolo di tutti gli oppressi della terra).
E' l'asse su cui la fede interseca la storia, la speranza incrocia la disperazione della terra, la carità s'imbatte con i frutti della violenza.

Tra i verbi che traducono i comportamenti concreti del samaritano ("lo vide, n'ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò te ferite, gli versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò ad una locanda, si prese cura di lui"), quello che mi sembra più espressivo è questo: "gli si fece vicino".

Farsi vicino a chi? Al popolo.

Eccoci condotti allora a quella che, secondo me, dovrebbe essere l'opzione fondamentale degli operatori di pace: farci vicini al popolo.

Il samaritano non lasciò il malcapitato sulla strada, per andare in città a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine. Non si recò agli sportelli della polizia per sporgere querela contro ignoti. Non andò a protestare contro le omissioni del Ministero degli Interni. Non lasciò boccheggiante sul sentiero verso Gerico quell'uomo mezzo morto per convocare una conferenza-stampa sul degrado etico della città, o sulle violenze del sistema, o sull'inadempienza dei poteri costituiti.

Forse, dopo, avrà fatto pure questo. Anzi, visto il suo zelo, c'è da pensare che in seguito, "il giorno seguente", abbia assolto anche a questo compito. Diversamente, avrebbe peccato per omissione di atti di ufficio.

Ma intanto, il gesto fondamentale che ritenne di compiere fu quello "di farsi vicino", e passare dal piano della denuncia a quello della costruzione diretta. La pace parte dal popolo e non dalle cancellerie. Dalle cancellerie semmai vi passa: ma per trovare le ratifiche, per ricevere il marchio di origine controllata.

L'intelligenza diplomatica e la ragione fredda porteranno allora a compimento ciò che la profezia creativa, che fermenta nel popolo, ha già indicato.

Laddove si scopre questa verità, è la democrazia tutta che avanza, sussulta, si migliora. Sicché la testimonianza, la solidarietà, la partecipazione, il coinvolgimento del popolo si pongono al servizio di un unico grande progetto storico da realizzare. Divengono i nuovi strumenti della politica. Gli impegni concreti da assumere con forza dovrebbero essere il riflesso di questa opzione di fondo. E quali sono?

Ne individuiamo cinque, o meglio proponiamo cinque aree:

4.2 L'area della educazione alla pace.

Forse potrà sembrare una forzatura, ma io considero che il discorso sulla educazione alla pace è il crinale, o se si vuole, la peripezia decisiva su cui ogni movimento si gioca la sopravvivenza.

Oggi stanno esplodendo numerose iniziative che hanno come scopo la promozione di una cultura della pace. Soprattutto nel mondo della scuola assistiamo a una fecondità di pubblicazioni e programmi, non gestiti più in termini di semplice trasmissione della cultura tradizionale. Un nuovo ecumenismo culturale si sta organizzando proprio attorno al tema della pace.

4.3 L'area della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta.

Si inserisce qui non solo un maggiore approfondimento concettuale della nonviolenza come valore di popolo, ma anche la comprensione delle metodologie nonviolente, in relazione con la fede.

L'irrobustimento che si compie nella nonviolenza tra la fede e la storia. Il ricongiungimento tra morale individuale e quella collettiva.

Si inserisce qui il lavoro di coscientizzazione popolare contro il commercio delle armi e la militarizzazione del territorio.

Si inserisce qui tutta l'azione educativa della base perché si accorga degli effetti disastrosi della violenza tecnologica. L'ecologia è un grosso capitolo del grande libro della pace.

4.4 L'area dei diritti umani e del rapporto Nord-Sud.

Lo spostamento dell'asse che spaccava l'Est dall'Ovest sulla demarcazione che divide il Nord dal Sud ci ha fatto prendere coscienza che mancanza di pace non è solo la guerra, ma la violazione dei più elementari diritti umani.

Entrano qui tutte le riflessioni sulla qualità della vita. Sullo sviluppo tecnologico. Sull'allargamento dello sguardo agli orizzonti della mondialità.

Sul permanere della logica del profitto che tende a riproporre, nei paesi poveri, fasti e nefasti dei paesi industrializzati. Sulla solidarietà con i paesi del Terzo Mondo che esige lo smascheramento del mercato delle armi. Sul Nuovo Ordine Economico Internazionale. Come anche sulla tragica situazione degli immigrati in casa nostra. Dobbiamo assecondare gli sforzi che vanno compiendo anche tante riviste missionarie divenute tribune implacabili contro le ingiustizie, e divulgare in mezzo al popolo le planimetrie di tutte le violenze, a partire da quelle che si consumano nel nostro territorio.

4.5 L'area della obiezione di coscienza.

Non tanto per ciò che immediatamente produce scombinando i calcoli del potere costituito, quanto per il contenuto di crescita popolare che essa racchiude.
Starei per dire che non è tanto l'obiezione di coscienza che ci interessa, quanto la coscienza dell'obiezione. Perché dietro le quinte di ogni obiezione c'è sempre una coscienza collettiva che matura.

4.6 L'area delle cesure difficili da ricomporre.

Tra testimonianza personale (ineludibile specialmente sulle scelte di sobrietà e di coerenza) e progetti sociali.

Tra impegno locale (con tutte le sue logiche di incarnazione e quindi, di vissuto spicciolo) e mutamenti globali.

Tra tensioni di solidarietà concreta (fatta di gesti di condivisione, di assistenza, di "olio e vino" sulle ferite) e politica.

Tra diritti dell'uomo (volti verso una nuova qualità della vita) e sviluppo appropriato.

E' qui, su queste cesure e su queste lacerazioni che dobbiamo chinarci per operare la ricomposizione o, se volete, per "fasciare le ferite".

Verso la Gerusalemme del cielo
5. "Non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (Eb. 13,14). La città futura è la Gerusalemme nuova, descritta nei capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della pace.

C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che comincia così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis visio". Città della Gerusalemme del cielo, tu sei uno stupendo spettacolo di pace!

Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più bella. Perché è l'icona della speranza.
Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che l'ambiguità del nostro "martirio" ci fa tentennare di fronte alle "exousie" (onnipotenze) del mondo. Di qui trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante la povertà delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri disegni, e l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il "già" impallidisce sempre dinanzi al "non ancora".

Ma non dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza di tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati a far spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far maturare nei segni: la pace, la fraternità, la giustizia, la libertà.
E' dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo 1' "ottavo giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo, il perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità, la tenerezza...

Ci accorgeremo finalmente che la pace non è un'aspirazione, ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio con noi.

"Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. E dominerà da mare a mare, dal fiume fino ai confini della terra." (Salmo 71).

La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il cui grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già" sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche l'icona del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso "cieli nuovi e terra nuova".

(Testo base del discorso pronunciato al Congresso nazionale di Pax Christi, a Rocca di Papa)
Pubblicato in Dossier Pace
Martedì, 28 Marzo 2006 02:23

Il sogno di Dio (Alex Zanotelli)

Il sogno di Dio
(cfr Ap, 12-13)
di Alex Zanotelli *

Dio sogna un mondo diverso da quello che abbiamo tra le mani. E chiama tutti a realizzarlo qui e ora, smascherando l'impero del denaro, cambiando la politica, rinnovando la Chiesa, facendo comunità e vivendo sobriamente. Può Dio accettare situazioni assurde come quella di Korogocho, dove migliaia di persone vivono accatastate, prive di tutto, minacciate dall'aids, mentre a meno di tre km ci sono ville da nababbi? Uno dei migliori biblisti americani, Walter Brueggemann, nel suo libro The Prophetic imagination, riassume in tre proposizioni il senso del sogno di Dio sull’umanità:

- Dio sogna per il suo popolo un'economia di eguaglianza: significa che i beni di questo mondo devono servire a buona parte delle persone e non a una minoranza. L'economia è al primo posto (e qui bisogna dar atto a Marx di aver visto giusto), perché il primato dell'economia [purtroppo] è chiarissimo.

- Per ottenere questo, però, c’è bisogno di una politica di giustizia, cioè di un tipo di politica che batta la tendenza delle società umane a strutturarsi nella disuguaglianza. E qui Marx si è sbagliato: l'uomo non è cattivo perché la società lo fa cattivo: la cattiveria è dentro l'uomo, fa parte dell'uomo.

- Ma per avere una politica di giustizia c'è bisogno di un popolo che faccia un’esperienza religiosa dove Dio è libero … Un Dio che essendo libero (Jhwh è il rifiuto di darsi un nome) non è il Dio del sistema, ma il Dio delle vittime di ogni sistema, il Dio degli oppressi, delle vedove, degli orfani, di chi non conta.

Ecco il cuore del sogno di Dio. Questo sogno viene affidato a Mosè, che è chiamato a tornare in Egitto ad affrontare l’Impero che, come ogni impero - faraonico, babilonese, romano, come l'odierno impero del danaro -, è l'opposto del sogno di Dio. Ogni impero è basato su un'economia di opulenza, dove poche persone hanno tutto.

«Che cos'è il regno di Dio? » ho domandato un giorno, durante la celebrazione, a una vecchietta che vive sulla discarica di Korogocho. «Caro Alex », mi ha risposto, «Il Regno di Dio è saziarsi». Ed è vero. La prima cosa che Dio vuole è che ognuno di noi abbia di che vivere con dignità. In Egitto c'era il 10% della popolazione che viveva nell’abbondanza a spese di molti morti di fame. A Roma la stessa proporzione: questa la realtà imperiale. Un'economia di opulenza richiede una politica di oppressione. Ecco perché le armi sono parte integrante di ogni Impero. Ogni anno si spendono 900 miliardi di dollari in armamenti. Ogni Impero esige, poi, una religione in cui Dio è prigioniero del Sistema. […] È questa l’analisi che ci aiuta a fare la letteratura apocalittica (la nuova forma che la profezia assume in contesto imperiale) da Daniele all'Apocalisse.

L'Apocalisse ha aiutato le piccole comunità cristiane dell’Asia minore a leggere l’Impero di Roma, la grande Bestia che sale dal mare, espressione suprema di tutti gli imperi della storia. La Bestia cavalca nella storia i vari imperi. Nell'Apocalisse la Bestia cavalca la grande prostituta che è Roma. È importante notare che mentre la prostituta è uccisa, la Bestia fugge per cavalcare «altro» nella storia. Il profeta vuole dire che questa Bestia che cavalca Roma non può essere identificata con l'Impero. Roma è la grande prostituta, ma la Bestia una realtà più grande dell'Imperium. L'Apocalisse ha tolto la facciata di virtù della Roma imperiale, rivelandola per quello che era: violenta, oppressiva ...

Questo ci può aiutare a rileggere oggi l'Impero del Denaro […] Ma non esiste una posizione neutra per leggere la realtà. Il contesto è altrettanto importante del testo. È chiaro che il profeta dell'Apocalisse non ha analizzato Roma da Roma. Questo profeta legge l'Impero dalla parte degli oppressi, dei crocifissi del potere imperiale. Il profeta dell'Apocalisse parte da qui: in primo luogo dal Crocifisso, da quel Gesù crocifisso fuori le mura, fatto fuori dal potere politico romano insieme con l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, vittima dell'Impero. È poi da tutti gli altri crocifissi. E noi cristiani non abbiamo altra scelta, se non quella di leggere la realtà a partire dal Crocifisso, dai crocifissi, dalle vittime, dagli ultimi. Ecco perché siamo sempre «dall’altra parte» . Se noi, come il profeta dell'Apocalisse, riusciamo a leggere la realtà dalla parte di chi paga per questo Sistema, dalla parte del Crocifisso e delle vittime dell'Impero, è chiaro che l'Impero economico è oggi la grande Bestia. E quella Bestia che aveva cavalcato Roma, la grande prostituta, ora cavalca l'Impero del Denaro. È ancora lei che cavalca nella storia.

Questo potere economico oggi ha stravinto, come è detto in questo testo: «Aveva potere su ogni tribù, popoli, nazioni e tutti l’adoravano». Oggi sembra che tutti si inchinino davanti a questo strapotere, davanti ai grandi dell'economia. E così noi diventiamo parte integrante del Sistema. Nelle lettere che il profeta scrive. a nome del Signore, alle sette comunità, alle sette chiese (e quindi a tutta la Chiesa) egli manifesta il suo timore che le comunità cristiane stiano lentamente adattandosi alla cultura dominante. È lì il vero, grande pericolo. Non ha paura della persecuzione, che invece rafforza la comunità. Il nostro grande pericolo è che anche noi diventiamo parte integrante dell’idolatria dominante, dell’economia imperante, per cui finiamo col non dire più nulla a nessuno.

Ma la resistenza si paga sempre. Essa implica il martirio, che non è soltanto il martirio fisico ma anche e soprattutto quello psicologico. È eroico oggi, nel cuore dell'Impero, fare resistenza, vivere in maniera alternativa. Questo richiede una conversione personale ma anche strutturale (la dimensione economico- politica della conversione).

Dobbiamo imporre all’economia di attenersi a decisioni prese democraticamente. Altrimenti la democrazia è una vuota parola. Dobbiamo ridimensionare il nostro stile di vita, dobbiamo imparare a vivere più semplicemente... È chiaro che compiti tanto gravosi non possono essere affrontati individualmente. Ci si deve aggregare in comunità di resistenza. È attraverso le nuove tecnologie informatiche è possibile rimanere in connessione con le lotte del Sud del mondo, fare un'informazione fuori dal coro, che denunci le ingiustizie e organizzi la speranza. Inoltre, dobbiamo aiutare la Chiesa a cambiare... la Chiesa deve trovare il coraggio di dire la verità sul Sistema: deve coniugare fede ed economia; deve mettere in evidenza la nonviolenza attiva, che è stata inventata non da Gandhi ma da Gesù.

È importante che dietro a ogni piccola iniziativa ci sia una comunità dove ritrovarsi, per aiutarsi nell'analisi sociale (per i credenti è importante la Parola!). Non potete resistere a tutto, impegnarvi su tutti i fronti, sul nucleare come sugli immigrati, sulla pace come sul commercio o sull’informazione..., è impossibile! Ogni comunità dovrebbe assumersi un impegno preciso, per poi connettersi con le altre comunità. Perché è dal basso che nascere qualche cosa di nuovo e tocca a noi farlo nascere. È la grande lotta contro il Drago dell'Apocalisse, non per ucciderlo ma per cambiarlo. L’Agnello può trasformare il Drago, finché Babilonia diventi la città di Dio, la sposa dell'Agnello. Non ci sono Imperi da abbattere, non ci sono nemici da uccidere, ma solo da trasformare. È l'immenso compito di cambiare un mondo che ci sta inesorabilmente portando alla monte […].


* Prefazione,
in G. MARTIRANI, Il drago e l’agnello, Ed. Paoline, Milano, 2001, 15-17

Pubblicato in Dossier Pace
Mercoledì, 22 Marzo 2006 21:42

Globalizzazione- glocalizzazione-frammentazione

I Convegni di Dimensione Speranza
Firenze, dicembre 2004

Globalizzazione- glocalizzazione-frammentazione


-    Introduzione: dott. Claudio Caffarena sociologo

In una cornice particolarmente accogliente (Villa 'I Cancelli' di Careggi-Firenze) si è svolto l' incontro fra un gruppo  di partecipanti provenienti   da Roma, da  Torino e da Brescia.
Da ottiche diverse e certamente complementari (teologica, giornalistica, politica, sociologica ed economica), i vari relatori hanno fornito una lettura, sintetica ma efficace, di alcuni temi e problemi che nascono dal fenomeno 'globalizzazione' e che hanno una ricaduta su tutti noi e su tutti i contesti in cui viviamo. Alcuni elementi emersi, sia dalle relazioni che dal dibattito che ne è seguito, evidenziano l'importanza di mantenere una attenzione continua affinchè si possa, pur con le difficoltà e le resistenze che quotidianamente si incontrano, tentare una rilettura attenta e costante degli avvenimenti che ci circondano. La realtà complessa ed in costante cambiamento nella quale siamo immersi, ci obbliga a non fermarci al qui ed ora, ma ad aggiornare le nostre chiavi di lettura, creando collegamenti, superando stereotipi, schemi rigidi e barriere ideologiche.
Al termine dell'incontro si è registrata la volontà di proseguire il confronto avviato, attraverso strumenti e modalità differenti.




-    1° Intervento: dott. Gianluca Carmosino  giornalista


La bolla di sapone. Viaggio tra Globalizzazione e informazione.

Prima di inserire la globalizzazione in un rapporto con l’informazione, è necessario definire questo nuovo concetto che, con grande velocità, è entrato a far parte della nostra vita quotidiana. L’origine del processo è da cercare principalmente nel vorticoso e generale sviluppo tecnologico avvenuto negli ultimi 20 anni, che oggi ci permette uno scambio di informazioni in tempo reale con ogni parte del globo.
A livello storico, la globalizzazione nasce con la fine della guerra fredda, quando il modello economico neoliberista non ha più avversari e diventa preponderante in numerosi paesi.

Le conseguenza principali di questo processo di globalizzazione sono due: prima di tutto, aumenta la forbice tra ricchi e poveri del mondo. Secondo l’Onu, oggi il 20% della popolazione gode dell’83% delle ricchezze. Ma questo non basta: con il liberismo aumenta anche la povertà all’interno degli stessi paesi ricchi, concentrando il denaro nelle mani di pochi.
Accanto al modello economico liberista si afferma l’ideologia consumista, seconda conseguenza della globalizzazione, secondo cui tutto è merce.
Tutto questo ha reso il lavoro flessibile e precario, non è più un’arte in cui esercitare la propria fantasia e affezionarsi né un’àncora sicura nella progettazione del futuro.
Questa precarietà lavorativa porta ad una caduta o inclinazione delle reti familiari e di vicinato, che ha come estrema conseguenza la mixofobia, cioè la paura dell’estraneo.

Ma una conseguenza sociale e culturale da analizzare con maggiore cura è l’omogeneizzazione culturale, cioè l’adozione di uno stile di vita uguale in tutto il nord del mondo.
Questo modo di vivere è arrivato ben presto a coincidere con “l’idea di sviluppo”, che altro non è che una “occidentalizzazione del pianeta”, cioè l’adozione di un unico modello economico, sociale e culturale. Questo modello si basa su tre elementi: l’industrializzazione, cioè l’industria come settore dominante delle economie, l’urbanizzazione, che ha visto nascere le grandi città, con più di un milione di abitanti, che oggi sono oltre 300, e la nazionalizzazione.
Quest’idea di sviluppo e le multinazionali si sono affermate anche grazie all’invenzione della proprietà intellettuale, cioè la mercificazione delle idee.

Ma l’omogeneizzazione culturale odierna è alimentata soprattutto dal monopolio dell’informazione, che oggi è in mano solo a 4 grandi agenzie; Associated Press e United Press International, americane, Reuter, inglese, Agence France Presse, francese. Questo significa che il 65% delle informazioni mondiali viene dagli USA.
Il modello liberista favorisce inoltre la concentrazione dei media  e delle agenzie culturali, creando colossi come la Time Warner e la Disney e schiacciando le piccole produzioni indipendenti. Questo ha portato alla scomparsa dell’editoria pura e alla nascita di grandi gruppi industriali nelle cui mani è concentrata informazione ma anche divertimento ed intrattenimento. L’informazione stessa si è andata ad ibridare con l’intrattenimento, portando alla nascita dell’infotainment, cioè informazione/spettacolo, segnale ulteriore di una globalizzazione in realtà per pochi.




-    2° Intervento: Don  Enrico Chiavacci  teologo, docente emerito di Morale  presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. Firenze

Cosa può fare la Chiesa nel mondo globalizzato.


Globalizzazione e famiglia umana.


Nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo redatta nel 1948 possiamo osservare due consistenti novità:
-    non c’è solo il diritto di libertà ma esiste anche il DIRITTO DI SOLIDARIETA’, cioè il diritto ad essere aiutati.
-    Questi diritti valgono per ogni uomo, sempre e ovunque.

Oltre ai diritti fondamentali citati dalla dichiarazione, nel Novecento emerge un altro pilastro fondamentale per la società: la famiglia umana. Durante il Concilio Vaticano II, la famiglia viene posta al centro della società, al posto dello Stato, costituendo il bene comune di oggi.


La situazione del mondo oggi.

Sicuramente oggi esistono tutti i presupposti tecnologici per favorire e tutelare la costruzione e la convivenza della famiglia umana. Ma la gestione di queste risorse è nelle mani di pochi, che detengono oltre al potere tecnologico anche il potere economico e finanziario, pilotando, così, anche i movimenti di massa. Tutto gira intorno al denaro e alla massimizzazione del profitto privato.
Difficile è quindi non imporre la cultura occidentale in tutto il mondo e in tutti gli ambiti: sociale, economico, culturale.


Cosa può fare la Chiesa.

La Chiesa deve saper stimolare una pluralità di visioni, di esperienze, di culture; ma la sua struttura odierna, il suo forte accentramento, ma soprattutto il timore del relativismo culturale ed etico la ostacolano in questa missione.
Bisogna riumanizzare il mondo cogliendo la ricchezza della sua pluralità. Per l’uomo la parola d’ordine deve essere ETERODOCUMENTARSI, per conoscere il diverso e arricchirsi insieme ad esso. La Chiesa può favorire la pluralità di informazione e l’incontro di persone diverse ma unite nel nome di Dio.
Lo strumento per fare questo è ancora una volta il VANGELO. Deve essere annunciato in tutto il mondo, con il rispetto delle altre culture e religioni, valorizzando, attraverso questo, le diversità.
La Chiesa deve quindi essere aperta, propositiva e accogliente, per il mondo di oggi ma con un occhio a quello che verrà.




-    3° Intervento: Dott.  Luìs Gerardo Guzman-Valencia  diplomatico presso l’ONU a Ginevra

Globalizzazione, frammentazione, diplomazia.


La globalizzazione rischia di amplificare la frattura nel livello di sottosviluppo fra popoli. Ma il pericolo maggiore è la scomparsa di molte identità culturali, di intere popolazioni, tenute fuori da questi processi di scala mondiale.
La causa di tutto questo è l’instaurazione di un nuovo ordine culturale imposto dalla modernizzazione e dalla globalizzazione; questa cultura omogenea appiattisce le diversità fra popolazioni e fra persone, relegate ad un ruolo passivo nella costruzione della propria identità. Anche a livello linguistico si assiste alla predominanza di una sola lingua nella comunicazione mondiale, destinando alla scomparsa di molte lingue particolari. Ma lingua corrisponde ad identità.

La comunicazione e l’informazione potrebbero aiutare le popolazioni a creare interazioni umane e sociali fra persone, ma la mancanza di tecnologie e infrastrutture crea delle frontiere simboliche invalicabili. Le tecnologie della comunicazione potrebbero inoltre essere un valido strumento di appoggio agli sforzi per uscire dalla povertà.
Lo sforzo di tutti, dalle istituzioni nazionali e internazionali agli organi di informazione alla società civile, è quello di RICONOSCERE E RISPETTARE LE IDENTITA’, PROMUOVENDO IL DIALOGO FRA CULTURE.
La promozione, il riconoscimento e la preservazione delle diverse lingue e identità culturali contribuirà ad arricchire la Società dell’Informazione, impedendo la frammentazione culturale.
La diversità deve promuovere il rispetto dell’identità culturale, per creare una società basata sul dialogo fra culture nell’ambito della cooperazione nazionale e internazionale.





-    4° Intervento: Dott. Claudio Caffarena  sociologo

Identità, educazione, lavoro: un intreccio a più dimensioni


Quello della globalizzazione è un tema su cui oggi si discute tanto, in molti contesti e con mille sfaccettature. Sociologia, politica, economia, media trattano di globalizzazione, arrivando a definire con questa una categoria esplicativa generalissima, un’idea-chiave che caratterizza il terzo millennio.
Ma le migliaia di parole spese su questo argo,mento hanno un’origine comune: descrivono due posizioni autentiche e radicali che non trovano un punto d’incontro.
C’è chi vede la globalizzazione come uno sviluppo coerente della rivoluzione industriale e della modernizzazione; dall’altra parte c’è chi ne enfatizza gli aspetti negativi, come la polarizzazione della distribuzione delle ricchezze e l’occidentalizzazione degli stili di vita.
La velocità e i risultati di questo processo creano in tutti noi un senso di smarrimento, di incertezza e di estrema precarietà; tuttavia queste emozioni negative possono aiutarci a trovare la spinta per affrontare quello che abbiamo intorno, oltre che a trovare comunque degli aspetti positivi nei cambiamenti in cui siamo coinvolti.
La globalizzazione deve essere osservata ed analizzata secondo due livelli: il micro, cioè la singola persona e il suo ambiente e il macro, quello dei grandi processi, trovando collegamenti tra questi due piani.

IDENTITA’     (definizione) senso del proprio essere continuo, attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre.
Ma oggi, con i cambiamenti così rapidi e globali cui siamo sottoposti, come cambia il processo di costruzione d’identità personale? Il rischio che corriamo è la perdita delle radici di riferimento.
Infatti, le relazioni tra individui e l’appartenenza ad una comunità non hanno più il vincolo territoriale e spaziale, dando vita a nuovi tipi di comunità (virtuali). Questo porta l’individuo ad appartenere a comunità differenti, e quindi a costruirsi identità diverse. Il problema da affrontare è l’integrazione e la connessione di queste identità, spaziale e non.
Oggi l’individuo pone la propria identità come una barriera e non come una membrana che permetta lo scambio e l’interazione con gli altri.

EDUCAZIONE
    Le istituzioni educative, scuola e università, sono in crisi davanti al loro compito di creare cittadini con un’identità ben definita, visto che oggi l’individuo è multiidentitario.
L’educazione oggi è una parte di una azione congiunta di una comunità educante, di una rete, che aiuti il ragazzo ad essere consapevole della sua multiidentità.

LAVORO    Flessibilità, che mette in crisi la costruzione dell’identità ma stimola creatività e inventività. Purtroppo la sicurezza economica e le prospettive a lungo termine non sono permesse in una situazione di mutamento continuo.

Si può affrontare questa situazione con l’idea che il progresso non è un evento garantito da leggi ma una possibilità che dobbiamo sfruttare con la forza della ragione. Siamo in una fase di transizione, in cui bisogna essere consapevoli dei cambiamenti,dei rischi e dei limiti
del proprio essere,cercando un continuo confronto con gli altri e superando l’individualismo e la separatezza.





-5° Intervento. dott. Fabrizio  Galimberti  economista, corrispondente de Il  Sole 24 ore
(per una serie di contrattempi abbiamo del relatore che vive e lavora in Australia soltanto una breve sintesi del suo intervento)


L’economia della globalizzazione

A livello economico, la globalizzazione è caratterizzata da due fenomeni:
-    la prima è la FUSIONE ECONOMICA, cioè il legame che si crea tra i paesi favoriti dall’enorme quantità di scambi economici, al basso costo e alla facilità dei trasporti.
-    La seconda caratteristica è la FISSIONE POLITICA, cioè la frammentazione e la rottura dei legami tra Paesi e popolazioni. Questi due fenomeni sono legati perché politica ed economia non danno più importanza al mercato interno, ma favoriscono le specializzazioni lavorative, e l’outsourcing (cioè la formazione permanente e il passaggio di risorse umane tra i diversi settori dell’economia). Ma questo processo non è accompagnato da una rete di sicurezza sociale, che evidenzia di eccessi di povertà e delle popolazioni delle campagne e delle periferie delle città.
Le leggi economiche ci insegnano che la distribuzione della ricchezza non è mai uniforme ma si concentra in poche persone per poi diffondersi tra le altre. Dobbiamo chiedere perciò alle istituzioni economiche di aiutare questo processo di distribuzione economica, per evitare che la globalizzazione crei nuovi poveri.




CONCLUSIONI E SPUNTI DI RIFLESSIONE


-l’essere umano non deve essere trascinato dal processo di globalizzazione ma deve essere PROTAGONISTA e ATTORE  principale.questa si può fare usando la tecnologia come uno STRUMENTO e non come padrona del nostro destino.

-il concetto di globalizzazione si deve allargare a tutti gli ambiti produttivi, a partire dall’agricoltura. Inoltre, l’ETICA deve poter entrare nei processi economici, anche se le leggi che regolano questo mondo sono difficili da cambiare, possono tuttavia concorrere ad aumentare il bene comune.

-la globalizzazione positiva avverrà solo quando OGNUNO CAPIRA’ DI ESSERE PARTE DELL’ALTRO

-la globalizzazione deve essere accompagnata dall’INTERCULTURA,che valorizza le parti in comune tra popoli,più che dalla multicultura, cioè dalla pura convivenza.

-lo spirito critico va sempre stimolato, perché la globalizzazione dà l’ opportunità di conoscere altre culture. Non bisogna avere paura della diversità. Pur mantenendo la propria identità si può tendere la mano all’altro. ILMONDO DEVE ESSERE UNA MACEDONIA;IN CUI TUTTI I FRUTTI SONO INSIEME CONSERVANDO OGNUNO IL PROPRIO SAPORE,non un frullato!

-non c’è un modello, un esempio da seguire per creare una buona globalizzazione, si può  solo imparare facendo.
-la globalizzazione non è solo economica ma tocca tutti gli ambiti della vita, anche le religioni, che devono trovare un punto d’incontro.


-la debolezza è un punto di forza. La precarietà permette di staccarsi ed abbandonare ciò che sembra essenziale ma che invece non lo è.

-servono degli organismi internazionali che regolino il processo della globalizzazione, che risulta essere positivo solo se non è intaccato dagli interessi privati.


NOI COSA POSSIAMO FARE?

-capire l’efficacia dell’UNIONE e dell’AZIONE di molte persone.
-agire con azioni di disturbo e boicottaggio
-usare al meglio gli strumenti e le fonti d’INFORMAZIONE, cercando trasparenza ed obiettività.
-appoggiare la FINANZA ETICA,basata sulla trasparenza e sulla scelta degli investimenti
-favorire il COMMERCIO EQUO ed il CONSUMO CRITICO
-educare a fare delle scelte e agire secondo il trapasso delle nozioni e dei valori ai giovani
-rispettare le 4 R,cioè RIVALUTARE e dare il giusto valore alle cose; RIUTILIZZARE invece di gettare; RICICLARE; RISPETTARE l’ambiente e quello che ci circonda.

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Martedì, 21 Marzo 2006 01:03

Una questione di onore (Coop. Interculturando)

All'interno della relazione d'aiuto, è spes­so difficile evitare totalmente l'investi­mento personale. Si dovrebbe ammettere, in determinate circostanze, che esistono forme di riconoscenza da parte dell'utente che realmente infrangono l'etica dell'o­peratore, come accettare denaro o altri ti­pi di favore.

Pubblicato in Dossier Multicultura
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La contraddizione
tra guerra e Cristianesimo
di Primo Mazzolari

Il cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non si è mai guardato in Colui che — essendo “segno di contraddizione” — svela i pensieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso. La misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi.

Non è forse una contraddizione

che dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti degli anni di pace?

che sia tuttora valida la regola pagana: “ si vis pacem, para bellum”?

che l'omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?

che nel figlio dell'uomo, riscattato a caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di razza, di religione, di classe?

che l'orrore cristiano del sangue fraterno si fermi davanti a una legittima dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità?

che una guerra possa portare il nome di “ giusta ” o di “ santa ”, e che tale nome convenga alla stessa guerra combattuta dall'un campo o dall'altro per opposte ragioni?

che si invochi il nome di Dio per conseguire una vittoria pagata con la vita di milioni di figli di Dio?

che venga bollato come disertore e punito come traditore chi, ripugnandogli in coscienza il mestiere delle armi, che è mestiere dell'uccidere, si rifiuta al “ dovere ” ?

che sia fatto tacere colui, che per sé soltanto, senza la pretesa di coniare una regola per gli altri, dichiara di sentire come peccato anche l'uccidere in guerra?

che si dica di volere la pace, e poi non ci si accordi sul modo, appena sopraggiunge il dubbio che ne scapiti la potenza, l'orgoglio, l'onore, gli interessi della nazione?

che si predichi di porre la vita eterna al disopra di ogni cosa, e poi ci si dimentichi che il cristiano è l'uomo che non ha bisogno di riuscire quaggiù?

Crediamo che questi pochi accenni bastino per dar rilievo alla nostra sostanziale contraddizione, per metterci in vergogna davanti a noi stessi, e per sentirci meno sicuri in un argomento ove la nostra troppa sicurezza potrebbe degenerare in temerarietà o in un delittuoso conformismo alle opinioni dominanti.

(tratto da Primo Mazzolari, Tu non uccidere, Vicenza, 1955)

Pubblicato in Dossier Pace
Domenica, 26 Febbraio 2006 16:48

Epilogo aperto (Pedro Casaldáliga)

Epilogo aperto
di Pedro Casaldáliga




Io non attengo al detto:
la Giustizia,
nonostante la Legge e la Consuetudine,
nonostante il Denaro e l'Elemosina.
L'Umiltà
per essere io, vero.
La Libertà
per essere uomo.
E la Povertà
per essere libero.
La fede cristiana,
per camminare di notte,
e soprattutto per camminare di giorno.
E, in ogni caso, fratelli,
io mi attengo al detto:
la Speranza!

Pubblicato in Dossier Speranza

Alla luce del nuovo orizzonte tracciato diventa comprensibile che la prospettiva dell'interculturalità abilita il cristianesimo alla pluralità delle culture e delle religioni, che lo abilita all'esercizio plurale della propria memoria e alla rinascita, a partire dalla rinuncia a ogni centro di controllo, con la forza di tutti i luoghi della pluralità.

Pubblicato in Dossier Multicultura
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