Formazione Religiosa

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Le immagini violente di Dio:
la politica e il sacro

di Gabriele Mand’el khân *

«Nulla salus in bello. pacem teposcimus omnes»

(Nessun bene nella guerra; pace, noi tutti ti invochiamo).

(VIRGILIO Eneide, XI, 362).

Tema di questo intervento è: «Le immagini violente di Dio: la politica e il sacro». Inizio chiedendovi se vi siete mai accorti di questa semplice, abissale differenza: il sacro dà, il sacro dona, mentre la politica, qualsiasi politica, chiede, a principiare dal voto che ogni politico chiede che gli si dia. Poi domandiamoci: l’immagine di Dio nell’Islam è violenta? Leggendo correttamente il Corano, la risposta è: no! E' sempre e solo una immagine di pace. Tocchiamone allora, rapidamente, i punti salienti.

Il saluto usuale di un musulmano è: âlSalâm âleikum, «la pace sia con voi.» I cattolici hanno la bellissima frase: «Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis (Pace agli uomini di buona volontà), che è anche un concetto che si legge nel Corano, in cui la parola «pace» è citata trentacinque volte.

Ogni giorno il musulmano osservante compiendo le sue cinque preghiere quotidiane pronuncia la parola pace: venticinque volte nelle cinque preghiere canoniche (obbligatorie) e ventisei nelle eventuali preghiere supererogatorie. Poi dice il Corano (36a58): La parola di Dio è «Pace». E ancora (33a44): Il giorno dell’incontro il saluto [degli angeli ai fedeli] sarà: «Pace».

Il Corano dice ancora: (10a25) Dio chiama al soggiorno della Pace, e dirige chi Egli vuole sulla via diritta. (15a46) Entrate [in Paradiso] in pace e con sicurezza. E ancora (20a47): «Pace su chiunque segue una giusta Via».

Di Gesù il Corano dice (19a15): La pace su di lui il giorno in cui nacque, il giorno in cui morirà, e il giorno in cui verrà resuscitato vivo. E ancora nel Corano Gesù stesso ripete (19a33): La pace su di me il giorno in cui io nacqui, il giorno in cui morirò e il giorno in cui sarò risuscitato vivo.

Il termine «guerra» appare nel Corano nove volte, come pure il termine «lotta». «Combattimento», in modo esplicito ed implicito, in tutti i suoi significanti e tutte le sue accezioni, trenta volte. Guerra in arabo si dice harb. Anche qitâl, muqâtâl radicale che si legge nel versetto 2°190: Combattete [qâtilûâ] sulla Via di Dio quelli che vi combattono, ma non eccedete. Certo, Dio non ama quelli che eccedono. Guerra santa si dice âlharb âlquds (o anche âlharam âlqitâl), espressione che non appare mai nel Corano, per il quale in effetti nessuna guerra è santa.

Il termine jihâd viene tradotto a volte, in Occidente, con «Guerra santa», ma questa è una traduzione del tutto errata e capziosa. Jihâd significa «sforzo», ed è lo sforzo che ognuno deve compiere all’interno del sé per vincere le proprie passionalità terrene. Nel Corano appare cinque volte. Il termine «Guerra Santa» fu coniato invece in Europa, nel 1096, quando Pietro l’Eremita organizzò la Prima Crociata.

Si tenga presente, comunque, che il Corano, come la Bibbia, è anche un libro storico; quindi dà relazioni anche di battaglie del tempo del Profeta; per cui accenni specifici al combattimento armato sono spesso da riferirsi al tempo e alle circostanze, e non fanno parte dei precetti religiosi.

Per il Corano, comunque, la guerra è solo di difesa, ed è autorizzata in casi specifici. 22a39-40: E data autorizzazione a coloro che sono attaccati, dal momento che in verità sono lesi (e Dio è certo atto a soccorrerli); e a coloro che sono espulsi dalle loro dimore senza diritto (solo perché dicevano: «Dio è il nostro signore»). Se Dio non difendesse le genti deboli quando contro di esse muovono guerra le genti malvagie e violente, le abbazie verrebbero demolite, e così le chiese, le sinagoghe, le moschee, in cui il Nome di Dio è molto invocato. Dio sostiene coloro che Lo adorano. Dio certo è forte, è potente.

Riguardo a ciò, ecco un chiaro hadîth del Profeta: «Quando due musulmani si gettano l’uno contro l’altro con la spada in mano, entrambi, assassino e vittima, andranno all’inferno (Bukhârî, II,22)». E ancora in modo più specifico il Corano ingiunge, in 4a93: Chiunque uccide un credente, la sua ricompensa è l’Inferno, e vi rimarrà in eterno. E su di lui la collera di Dio e la Sua maledizione, e gli prepara un castigo enorme.

Inoltre, come proibizione generale per l’omicidio, in 17a33: Tranne che secondo Diritto (di legittima difesa), non uccidete anima alcuna: Dio l’ha proibito. E in 5a22: Abbiamo prescritto (ai figli di Israele) che chiunque uccide un essere umano non colpevole d’assassinio o di corruzione sulla terra è come se avesse ucciso tutta l’umanità; e chiunque gli concede salva la vita, è come se facesse dono della vita a tutta l’umanità.

Va considerato inoltre che per il Corano la religiosità non consiste soltanto nel seguire un ritualismo e basta. li Corano enuncia chiaramente: (2a177) La religiosità non consiste nel volgere il vostro volto verso oriente o verso occidente. La religiosità consiste (…) nel dare per amor Suo dei propri beni ai parenti, agli orfani, agli indigenti, ai viaggiatori, ai mendicanti, e per la liberazione degli schiavi; nell‘osservare la preghiera, nel versare la zakât. Sono veri credenti quelli che rimangono fedeli agli impegni assunti, che sono perseveranti nelle avversità, nel dolore e nel momento del pericolo. Ecco le genti sincere.

E ancora (2Sa63-76): Ecco come sono i servi del Misericordioso: camminano sulla terra con umiltà; quando gli ignari si rivolgono loro, dicono loro: «Pace» [...]. Quando dispensano, non sono ne’ prodighi né avari, poiché il giusto sta nel mezzo; e non invocano altra divinità accanto a Dio; e non uccidono anima alcuna se non secondo il diritto (di legittima difesa), perché Dio l’ha proibito; e non compiono atti osceni; chiunque lo fa incorre nel peccato, avrà un castigo doppio il giorno della risurrezione, e rimarrà oppresso dall’ignominia, a meno che non si penta, creda e compia opera buona; perché a quelli Dio muterà il male in bene - perché Dio è perdonatore, compassionevole. E non testimoniano falsamente, e passano nobilmente attraverso la vanità; e quando i versetti di Dio sono recitati non rimangono sordi e ciechi. E dicono: Signore, da’ a noi, alle nostre mogli, ai nostri discendenti, la serenità; e fa di noi un esempio ai fedeli». Del pari il Corano vieta vigorosamente e più volte il suicidio consapevole, e nessuna ragione, nessunissima ragione lo giustifica.

Poi chiaramente il Corano indica quale deve essere l’atteggiamento del musulmano nei confronti delle altre religioni rivelate: (2a 62) Sì, i musulmani, gli ebrei, i Cristiani, i Sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel Giorno ultimo e compiuto opera buona, per costoro la loro ricompensa presso il Signore. Su di loro nessun timore, e non verranno afflitti.

(2a136): Dì: noi crediamo in Dio, in quel che ci ha rivelato, e in quello che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle Tribù, in quel che è stato dato a Mosè e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti dal loro Signore: noi non facciamo differenza alcuna con nessuno di loro. E a Lui noi siamo sottomessi. (5a68-69) Dì: Genti del Libro, sarete sul nulla fintanto che non seguirete la Torà, il Vangelo e ciò che vi è stato rivelato dal vostro Signore(…). Sì, i musulmani, gli Ebrei, i Sabei, i Cristiani - chiunque crede in Dio e nel Giorno ultimo e compie opera buona - nessun timore per loro e non verranno afflitti.

(4a163-165): Sì, noi ti abbiamo fatto rivelazione, come Noi abbiamo fatto rivelazione a Noè e ai profeti dopo di lui. E noi abbiamo fatto rivelazione ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Tribù, a Gesù, a Giobbe, a Giona, ad Aronne, a Salomone, e abbiamo dato il Salterio a Davide. Per comunicare con Mosè Dio ha parlato. E vi sono dei messaggeri di cui ti abbiamo narrato in precedenza, e messaggeri di cui non ti abbiamo narrato, messaggeri annunciatori e messaggeri avvertitori, affinché dopo i messaggeri non ci fossero più per le genti argomenti contro Dio. E Dio è Potente e Saggio.

Ma continuiamo a leggere che cosa dice il Corano a proposito della tolleranza interreligiosa: (9a6) Se un idolatra ti chiede asilo, concedigli asilo. Ascolterà la Parola di Dio. Poi fallo giungere in un luogo per lui sicuro. Ciò perché in verità è gente ignara. (18a29) La verità emana dal Signore. Creda chi vuole, non creda chi non vuole. E inoltre il Corano raccomanda il rispetto per i culti di tutte le religioni: Dio dice (22a67): Ad ogni religione abbiamo dato i suoi riti che vanno osservati. Perciò non discutano con te: invitali al Signore, e allora sarai su una giusta Via.

Quindi, la guerra è un atto umano prevaricatorio per chiari appetiti terreni, ma nessuna guerra è santa. Non è possibile muovere guerra per imporre la religione. Lo dice il Corano (2a256): Nessuna costrizione in fatto di religione: la giusta direzione si distingua da sé dall’errore, e chiunque rinnega il Ribelle e crede in Dio ha afferrato l’ansa più solida, che non si spezza. Dio sente e sa. Ancora nel Corano (23a62) Dio dice: Io non costringo nessuno, se non secondo le sue capacità. E nessuno verrà leso, poiché il detentore del Libro che dice la verità sono Io. D’altronde il Corano vieta di considerare ebrei e cristiani come nemici dell’Islam a causa della loro religione, poiché dice (29a46): Con le genti del Libro parlate in modo cortese (salvo che con coloro che sono ingiusti). E dite loro: «Crediamo in ciò che è stato rivelato a voi e in ciò che è stato rivelato a noi; il nostro Dio è lo stesso vostro Dio. A Lui noi siamo sottomessi».

E infine, lo stesso Profeta disse: «Tre sono i nemici dell’Islam: gli estremisti, gli estremisti, gli estremisti». Nulla vieta di intendere come estremisti sia gli integralisti sia i terroristi.

Oggi tutti invocano la pace ma, secondo i concetti di SEYYD HOSSEIN NASR, grande filosofo iraniano contemporaneo:

«La Pace non è mai raggiunta proprio perché dal punto di vista metafisico è assurdo aspettarsi che una cultura consumistica ed egoistica, dimentica di Dio e dei valori dello spirito, possa darsi la pace. La pace fra gli esseri umani è il risultato della pace con se stessi, con Dio, con la natura, secondo una componente etica che abbia superato false morali, preconcetti, interessi unilaterali e presuntuose ignoranze. Essa è il risultato dell’equilibrio e dell’armonia che si possono realizzare soltanto aderendo agli ideali precipui delle correnti mistiche. In questo contesto è quindi di vitale importanza la pace fra le religioni.

In tema di pace va poi detto qualcosa a proposito della “pace interiore”, che oggi gli esseri umani cercano tanto disperatamente da aver favorito l’insediamento in Occidente di pseudo-yoghi e di falsi guaritori spirituali. In realtà si avverte per istinto l’importanza dell’ascesi mistica ed etica, ma ben pochi accettano di sottoporsi alla disciplina di una tradizione autentica, la sola che possa produrre effetti positivi».

Il senso della pace, insomma, non è ancora il senso cosciente di condizione umana, quale la fede in Dio e l’adesione sincera alla religione (qualsiasi essa sia) suscitano autenticamente in ogni essere umano.

Così i Sufi dicono che l’ebraismo è la religione della SPERANZA, il cristianesimo la religione dell’AMORE, l’Islam la religione della FEDE. Ed ecco, questo è il terzo polo, equilibrio delle vicende umane in tutta la loro estensione: la Fede, la Speranza e l’Amore, origini della mistica, della spiritualità, dei valori sublimati che ci conducono alla comprensione di Dio, nostro Signore unico ed assoluto, il Creatore di tutto. La comprensione dei «valori dell’altro», il giusto equilibrio fra rispetto e reciproca conoscenza, sono i valori eminenti che possono restituire al mondo, dopo due millenni di incomprensioni e di lotte fratricide, quando la pace cui ambiscono tutti gli «uomini di buona volontà».

Un’altra considerazione, di carattere generale, è questa. Sorgono dappertutto movimenti per la pace, ma il concetto è ancor oggi uno stereotipo privo di senso reale. È più facile suscitare l’interesse di un popolo per la guerra pur usando lo specchietto per allodole della parola pace. Basta giustificare la guerra con i soliti luoghi comuni: «autodifesa; lezione di civiltà a gente barbara; portare la giusta via agli sbandati; un sacrificio nel nome della patria; diritti imprescindibili d’autoderminazione e di sovranità territoriale; difesa dalla barbarie altrui». In linea di massima si tratta solo di proiezioni (in senso psicologico). Pare che sia in vigore ancor oggi, nonostante secoli e secoli di esperienze negative, l’antico motto latino di Vegezio: «Qui desiderat pacem, praeparet bellum» (Epitome rei militaris). In psicologia questo si chiama «proiezione».

I romani avevano una frase ben nota e precisa: Homo hominis lupus. Solo se l’ebreo segue la Bibbia, se il cristiano segue i Vangeli, se il musulmano segue il Corano, l’uomo potrà vincere la sua bestialità terrena e conquistare la pace universale. Purtroppo la maggior parte degli esseri umani si professa religiosa, ma non segue in nulla i dettami della sua religione, o, ancor peggio, opera negativamente in nome della religione. Ogni religione, in effetti, predica la pace; mentre gli egoismi personali cancellano ogni propensione alla bontà, alla fratellanza, alla pace. E questo, questo sì è un considerevole soggetto di meditazione per tutti gli uomini di buona volontà.

Viviamo in un momento difficilissimo, per altro non molto dissimile da tanti altri che lo hanno preceduto. La propaganda politica fomentatrice di divisioni e di odio semina in perfetta malafede lo sconcerto, addirittura l’angoscia, per propri scopi che mirano ad un potere economico egoisticamente dittatoriale. La conseguenza è una sorta di stato di guerra continuo, e le vittime innocenti sono migliaia. Poiché gli imbecilli sono la maggioranza in questo basso mondo, la gente più proterva e più caina plaude a questo stato di cose, segue ed osanna i nuovi Hitler, beandosi del male e delle prevaricazioni che, in ultima analisi, alla fine essi stessi subiscono. Solo la pace, e solo i seminatori di pace, potranno portare a questo mondo martoriato la serenità che dopotutto è ancora in grado di desiderare.

Tutto ciò, naturalmente, quando le religioni vengono intese come espressione della propria fede, e non usate e abusate per le proprie mire politiche. Quando vengono espresse genuinamente e non sono corrotte da ignoranza, presunzione, malafede, malvagità, egoismo; quando la parola di Dio, che si riflette luminosa in ogni testo sacro che in Suo nome, predica la pace, viene seguita con purezza d’animo e con la bontà che si accompagna ad ogni fede autentica.

Tutto ciò è comunque quanto dice autenticamente il Corano. Certo, leggerlo e non capirlo è ignoranza; leggerlo, capirlo, e non metterlo in pratica è ignavia; leggerlo, capirlo, e mettere in pratica il suo contrario è scelleratezza; ma leggerlo, capirlo, mettere in pratica il suo contrario e indurre gli altri a seguire il proprio esempio è l’empietà più peccaminosa che ci sia. Notate bene: sostituendo il termine Corano con Bibbia, Vangeli, Canone buddhista, Grahant Mahal Sahib, e gli altri testi sacri, i fattori non cambiano!

E per finire. Noi sufi prediligiamo un detto del profeta Muhammad: Înna Âllâh jamîll yuhibbu âlJamâl (Certo: Dio è bello e ama la bellezza). In questo detto vi è tutto ciò che occorre all’essere umano: Dio, amore, bellezza. Se fossimo consapevoli che ogni nostra azione la compiamo al cospetto di Dio e che dopo la morte a Dio dovremo renderne conto; se compissimo ogni nostra azione amando noi stessi e amando gli altri, e se compissimo azioni belle, con il ritmo e la simmetria che Dio ha posto nel creato, allora tutto il mondo sarebbe un mondo di equilibrio e di pace, perché ognuno di noi sarebbe uno strumento di equilibrio, di pace e di amore per quel Dio unico che è il creatore di tutti noi e di tutti i nostri modi per adorarlo.


* Vicario generale per l’Italia della Confraternita sufi Jerrahi-Halveti.
Testo dell’intervento tenuto al Seminario dell’Associazione Itinerari e incontri all’Eremo di Monte Giove nel luglio 2003.

(da Vita Monastica, Gennaio-marzo 2006 n. 233)
Pubblicato in Dossier Pace

Pace e Dialogo Interreligioso

Un appello per la pace, «nome di Dio»

di Gabriele Mandel khân



Riteniamo utile premettere al prezioso testo di Gabriele Mandel khân un appello formulato da credenti di ogni religione al termine dell’annuale incontro Uomini e religioni, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, nello spirito della preghiera di Assisi (1986). Centrale il passo che indica «la pace (come) il nome di Dio. Dio non vuole l’eliminazione dell’altro. Dio ha compassione per chi soffre sotto i colpi della violenza, del terrorismo, della guerra. Chi usa il nome di Dio per affermare un interesse di parte o legittimare la violenza, avvilisce la religione».

Uomini e donne di religione differente ci siamo ritrovati nell’antica città di Lione per pregare, per dialogare, per far crescere un umanesimo di pace. Rendiamo omaggio alla memoria di Giovanni Paolo II, che è stato un maestro di dialogo e un testimone tenace della santità della pace. Siamo convinti che, senza pace, questo mondo diviene disumano. Abbiamo ascoltato il grido di tanti che soffrono per la guerra o per il terrorismo. Ci siamo chinati, pensosi, sulle nostra tradizioni religiose e vi abbiamo letto un messaggio di pace. Abbiamo pregato per la pace nel mondo.

E in nome della pace che ci rivolgiamo ai nostri correligionari, agli uomini e donne di buona volontà, a chi ancora crede che la violenza migliori il mondo. E diciamo: è tempo che finisca l’uso della violenza! La vita umana è sacra. La violenza umilia gli uomini e la causa di chi la utilizza. Il mondo è stanco di vivere nella paura. Le religioni non vogliono la violenza, la guerra, il terrorismo. Lo diciamo con forza a tutti gli uomini!

Deploriamo la distruzione dei luoghi religiosi dell’una o dell’altra comunità: le moschee, le chiese, le sinagoghe, i templi. I simboli della fede altrui non siano calpestati, perché ricordano a tutti il nome santo di Dio che non appartiene agli uomini. Come domandiamo il rispetto per la vita umana, chiediamo pure quello per i luoghi santi della vita spirituale.

La pace è il nome di Dio. Dio non vuole l’eliminazione dell’altro. Dio ha compassione per chi soffre sotto i colpi della violenza, del terrorismo, della guerra. Chi usa il nome di Dio per affermare un interesse di parte o legittimare la violenza, avvilisce la religione. Nessuna guerra è mai santa. L’umanità non si migliora con la violenza e con il terrore.

Le religioni insegnano che la pace del cuore è decisiva. Dio la dona a chi crede in Lui. La nostra ferma speranza è che la pace, dono di Dio, si estenda a tutti gli uomini e le donne, abbracci tutti i popoli della terra, fermi le mani dei violenti e sconvolga i disegni di terrore. Per questo abbiamo pregato a Lione.

Abbiamo anche constatato che i dolori del mondo sono tanti: l’umanità è ancora ben lontana dal realizzare quegli obiettivi del millennio, che si era data per abbattere la povertà, per il diritto alle cure, all’istruzione, all’acqua, alla sicurezza di vita, alla libertà dalla fame. Questo è molto grave! Il nostro mondo resta segnato da disperanti povertà. E’ una constatazione dolorosa che manifestiamo, con grave preoccupazione, ai responsabili politici. Ci facciamo carico della disperazione e del bisogno di milioni di poveri della terra. Chiediamo una più forte concentrazione di energie e di risorse per rendere meno povero e più umano il mondo del XXI secolo.

La pace e la giustizia rendono più possibile un mondo migliore. La via della pace è il dialogo. Il dialogo non abbassa la difesa verso l’altro, ma protegge; trasforma l’estraneo in amico; rende possibile quel lavoro in comune per lottare contro la povertà e ogni male.

A Lione abbiamo vissuto un dialogo franco, illuminato dallo spirito religioso della preghiera. Abbiamo dialogato tra esponenti delle varie comunità religiose e con gli umanisti del nostro tempo. Sono emerse le profonde diversità tra religioni e culture. Il mondo, pur globalizzato, non è divenuto tutto uguale. Ma si è fatto chiaro che c’è un destino unico. E’ tempo di lavorare assieme con coraggio per un umanesimo capace di costruire la pace tra i popoli e gli individui. L’obiettivo non è l’affermazione dell’uno o dell’altro, ma realizzare una civiltà in cui si vive insieme. L’arte del dialogo è la strada paziente per costruire questa civiltà del vivere insieme.

Conceda Dio al mondo e a ogni uomo e a ogni donna il dono meraviglioso della pace!

Lione, 13 settembre 2005

(da Vita Monastica, 233, Gennaio-marzo 2006)

Pubblicato in Dossier Pace

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

Induismo

di Marilia Albanese


DOMANDA:

Come gli indù vedono gli altri e le loro religioni?

Nell’antichità come barbari. Ma è la storia del mondo: facevano tutti così. Oggi vedono lo stato di ciascuno, religione compresa, come frutto del suo cammino spirituale. L’acqua è sempre acqua, anche se ha nomi diversi, e tutte le religioni sono mezzi per elevarsi. Sul tetto si sale con la pertica, la scala o arrampicandosi... è il fine che conta. Concettualmente, l’indù ha grande rispetto e accettazione di quel che gli altri sono. Sottolineo concettualmente, perché in pratica, soprattutto negli ultimi tempi questo atteggiamento è stato dimenticato anche in India dove, proprio per il sistema indu che abbiamo detto inclusivo, la guerra di religione non ha alcun senso. Ahimé, non aveva senso: le cose purtroppo sono cambiate.

L’UOMO: ARBITRO DEL PROPRIO PENSIERO

L’induismo è un mondo complesso e affascinante che risale al III millennio a.C. e al cui centro è l’uomo: che siano volte al bene o al male, le sue azioni influiscono sulla sua esistenza presente o nelle sue vite successive. Una catena di reincarnazioni di cui l’uomo percepisce la costrizione e che cerca di interrompere purificando i suoi atti.

Può riuscirci percorrendo le vie spirituali del rito, della devozione e della conoscenza. Così ogni azione della giornata diventa una liturgia, un’offerta: ad agire non è più l’uomo ma la volontà divina che attraverso la purificazione ne abita l’anima.

È un cammino di progressiva spoliazione, che porta a scoprire che niente ci appartiene, quindi alla disperazione... Ma proprio a questo punto avviene il miracolo dell’illuminazione, per cui l’anima si apre al mistero dell’infinito e della felicità eterna.

Mentre anela a questa liberazione, l’uomo vive un’esistenza scandita da regole ben precise, come l’appartenenza a una determinata casta: di essa è responsabile, avendola acquisita per nascita come diretta conseguenza delle vite passate. Regole che la società indiana si è data e che l’hanno strutturata e consolidata: solo seguendole, interiorizzandole e rispettando il proprio ruolo l’uomo può venirne trasformato e salvarsi. Questo spiega perché in India le disuguaglianze sociali non abbiano portato rivoluzioni cruente.

Ma l’India è anche un universo composito, con almeno 16 lingue nazionali, centinaia di lingue locali, migliaia di dialetti, razze diverse; ha visto nascere e diffondersi le più grandi religioni della terra; è un’enorme democrazia che non ha conosciuto golpe o dittature militari. La sua storia è quella del difficile obiettivo di unire nella diversità. Il primo incontro con l’islam (XII-XIII sec.) fu tragico: le incomprensioni portarono a grandi massacri. Poi i musulmani concessero agli indù (come a ebrei e cristiani) di esercitare la propria fede pagando una tassa di capitazione.

Nei secoli successivi, sotto imperatori musulmani illuminati, ormai indiani di sangue, l’incontro tra le due culture, pur senza esiti di sincretismo religioso, diede vita a uno dei periodi più splendidi della storia dell’India dal punto di vista artistico-letterario e di fioritura della civiltà.

Pur in declino dalla metà del XVII secolo, la presenza musulmana ha però imposto all’India la grande e terribile scissione dalla quale sono nati Pakistan e Bangladesh. Ancora una volta un confronto forte tra le due religioni che ha lasciato solchi di incomprensione e dolori, ma che ben poco ha di religioso ed è stato fomentato e scatenato per ragioni politiche e interessi commerciali. Perché in effetti indù e musulmani vivono fianco a fianco e partecipano addirittura a cerimonie composite.

Diverso da quello musulmano, ma altrettanto determinante sulla realtà indiana, fu l’avvento degli inglesi nel XVII secolo. Il loro intento di costituire quadri locali utili nell’apparato governativo, produsse una categoria di indiani anglicizzati che, avendo studiato in Inghilterra, avevano conosciuto il pensiero occidentale e, tornati in India, l’avevano rielaborato in una versione assolutamente personale, dedicandosi al recupero della dignità indiana, dell’autonomia e dell’indipendenza.

Gandhi è l’esponente più famoso fra questi personaggi di grande rilievo; pensatori e mistici che, oltre le vicende politiche, hanno avuto la capacità di rileggersi, rivisitare e riproporre la propria cultura in termini estremamente interessanti. Questo probabilmente è il segreto della vitalità di una visione religiosa che ha ormai più di 4 mila anni di storia.

* Docente di lingua e cultura indiana, grande esperta dell’India e sue religioni, attualmente dirige l’Is.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) presso l’Università degli studi di Milano. Presidente della Yani (Yoga associazione nazionale insegnanti) è autrice di articoli, saggi e libri.


MIGLIORARE SE STESSI PER PORTARE LA PACE

di Sushama Swarup Sahai *

In passato l’India era il paese misterioso dei fachiri, giungla, fiumi sacri... Oggi è uno dei mercati più dinamici del mondo, in progressiva espansione, dove la globalizzazione convive con le antiche tradizioni. In questo contesto come possiamo ragionare sull’induismo in relazione alla pace?

Intanto, cosa intendiamo con religione? Penso che abitudini, idee e valori tramandati da una generazione all’altra, o meglio il «patrimonio sociale» di una cultura, possono essere definiti come «sua religione». Gli uomini inventano e trasmettono la propria religione, con folclore, miti, leggende...

Una volta, mi fu chiesto, essendo io indù, come vedevo il cristianesimo. Fino a quel momento sapevo d’essere indù, ma non sapevo cosa questo significasse. Pensandoci credo che l’essenza dell’induismo sia proprio il suo inglobare una somma di valori comuni e tradizioni, che costituiscono la cultura indù, che include anche l’aspetto religioso.

L’induismo costituisce una complessa e continua totalità che si esprime negli aspetti sociali, economici, letterari e artistici. Perciò la religione è solo una parte dell’essere indù.

La mia relazione con l’induismo è cominciata il giorno in cui sono nata; in una famiglia dove si praticavano i riti e si celebravano le feste indù: cerimonie che consacrano la mente e il corpo della persona e la preparano per la comunità.

Non sono stata costretta a niente in nome della religione. Ho potuto crescere libera e tollerante nei confronti di tutti. Ogni giorno incontro, frequento e mangio con persone di caste e religioni diverse. Soprattutto mi è stata data l’opportunità di cogliere gli insegnamenti migliori di tutte le religioni.

Tolleranza e non-violenza sono i principi che guidano le mie azioni.

Mi è stato insegnato ad agire senza pensare ai risultati. Ciò enfatizza l’introspezione personale per esaminare la propria condotta. Devo sempre fare del mio meglio. La competizione è una buona cosa, ma deve essere con me stessa, non con gli altri. Sto bene con me stessa se riesco a migliorarmi.

Nell’induismo quel che è importante è la persona, non la razza o la religione. Non posso provare l’esistenza e attribuire qualità al mio Dio come non posso screditare o criticare il Dio degli altri. La religione mi deve dare la capacità di pensare liberamente secondo la mia natura.

A mio parere, la colpa delle guerre e ingiustizie nel mondo non è della troppa, poca o mal compresa religione, ma della globalizzazione, che sta cambiando la società troppo in fretta. Nelle scuole ci sono bambini di diverse culture che cominciano a vivere insieme: fanno amicizie, conoscono altre tradizioni, mangiano cibi diversi e così si arricchiscono culturalmente. In futuro diventeranno tolleranti alle altre religioni senza accorgersene. Ma ci vuole un tempo di assestamento.

Credo che comprensione e cooperazione siano molto importanti per essere felici in qualsiasi società. Facciamo un modesto sforzo per migliorarla recitando una preghiera per l’umanità tratta dalle Upanishad (vi secolo a.C.): «Noi siamo uccelli dello stesso nido, possiamo avere una pelle diversa, possiamo parlare lingue diverse, possiamo credere in una religione diversa, possiamo appartenere a culture diverse, ma dividiamo la stessa casa, la nostra terra. Nati sullo stesso pianeta, sovrastati dallo stesso cielo, guardando le stesse stelle, respirando la stessa aria, dobbiamo imparare a progredire insieme con gioia, o periremo insieme con dolore, perché l’uomo può vivere da solo, ma sopravviverà come umanità, soltanto se unito agli altri».

* Psicologa indiana, in Italia dal 1970, ha collaborato con diverse istituzioni accademiche milanesi (Bocconi, Università degli studi). Indian cultural ambassador, collaboratrice di Microcosmo, insegna lingua hindi e collabora con l’Is.I.A.O ed è presidente dell’associazione Magnifica India.

(da Missioni Consolata, Gennaio 2007)

Pubblicato in Dossier Pace
Nello spirito di Assisi

di Giovanni Guzzi


Il legame fra pace e religioni è uno dei temi di maggiore attualità: troppo spesso strumentalizzato e fatto oggetto di polemiche feroci e pretestuose. Fra le diverse iniziative attivate su di esso, di cui siamo venuti a conoscenza, abbiamo trovato particolarmente interessante, per taglio e pacatezza di ragionamenti, quella organizzata dal Comune di Cusano Milanino, una cittadina alle porte di Milano. La presentiamo in questo dossier.

Per diverse ragioni il 2006 è stato un anno significativo per le religioni e la pace. In primo luogo perché lo scorso 27 ottobre ricorreva il ventesimo anniversario del primo storico incontro interreligioso per la pace convocato ad Assisi da Giovanni Paolo II nel 1986.

È stato anche il primo anno nel quale, dopo il suo lungo pontificato, non è stato Giovanni Paolo II a tenere il consueto messaggio del primo gennaio per la Giornata Mondiale della Pace (tradizione della chiesa cattolica cominciata dal papa Paolo vi nel 1968).

Nel raccogliere il testimone dal suo predecessore, papa Benedetto XVI, nel proprio messaggio del 1° gennaio 2006, ne citava un’affermazione di grande attualità: «Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine».Sensibile a queste problematiche, il comune di Cusano Milanino ha voluto celebrare la ricorrenza citata in apertura. Così, facendo propria la frase di papa Wojtyla, ha proposto alla cittadinanza una serie di incontri dedicati al tema della pace e alle sue implicazioni con le religioni attualmente più seguite nel mondo.

Se tutti concordiamo sul fatto che l’umanità soffre per guerra, terrorismo, sfruttamento, ingiustizia, schiavitù, degrado sociale e ambientale... non c’è invece convergenza di opinioni sulle cause di tutto ciò.

Per il nostro tempo, ma anche per i secoli passati, c’è chi individua nella religione la causa di questi problemi. Altri ritengono sia vero il contrario: è proprio l’assenza, o l’insufficiente comprensione della religione, a impedire che la pace si instauri definitivamente nel mondo.

Per confrontarsi con queste tesi e con il pubblico, una serie di esperti e testimoni della propria religione sono stati invitati ad animare sei affollate serate tenutesi nella sala del consiglio comunale.

Organizzata senza la pretesa di voler proporre considerazioni di valore assoluto, né di voler presentare la posizione ufficiale delle religioni protagoniste di ogni serata, l’iniziativa voleva semplicemente essere un primo approccio con l’argomento. Un tentativo di capire se, sulle vie della pace che l’umanità vorrebbe percorrere, le religioni possono essere un aiuto o se invece sono proprio loro la causa prima dei conflitti.

Gli esperti hanno introdotto ciascuna religione (in particolare le meno conosciute perché più lontane dalla nostra cultura occidentale) dai punti di vista teologico, storico, socio-politico ed anche geografico, esaminati in relazione al tema conduttore del ciclo.

Da parte loro i testimoni, personalità anche di rilievo nell’ambito delle rispettive comunità religiose, si sono proposti in veste di semplici credenti, disposti a condividere con il pubblico l’esperienza individuale di persone che si sforzano quotidianamente di vivere la pace secondo i principi dettati dalle proprie religioni; anche mettendosi in discussione sulle questioni più problematiche.

Un aspetto importante, questo del chiedere agli ospiti di far emergere la propria spiritualità, anche attraverso la lettura di brevi brani tratti dai testi sacri di ognuno. In occasioni analoghe viene spesso messo un po’ in secondo piano; col rischio di ridurre le religioni a semplici espressioni della cultura e della filosofia di alcuni gruppi umani. Cosa che effettivamente sono, ma che non le descrive compiutamente: gli aspetti spirituali e trascendenti di una religione ne sono infatti l’elemento più importante senza del quale perderebbero il loro specifico significato.

L’iniziativa, impostata col preciso intento di favorire un serrato dialogo fra relatori e pubblico, sembra di poter dire che sia riuscita nello scopo. I presenti, credenti e non credenti, accorsi sempre in buon numero, hanno approfittato con interesse dell’ampio spazio loro dedicato, riservando ai relatori una fitta serie di domande che, anche quando non strettamente inerenti con il tema della serata, erano sintomatiche del diffuso bisogno di spiritualità esistente nella nostra società.

Più in generale dimostravano il desiderio di capirsi, di trovare punti di incontro... di dialogare. Il fatto che tutto ciò sia avvenuto in un clima estremamente sereno e rispettoso del pensiero di ciascuno è il risultato dell’iniziativa di cui andare tutti più soddisfatti, pubblico e organizzatori.

Spesso incontri di questo genere, soprattutto sotto la spinta della drammatica attualità e dell’inopportuna politicizzazione, degenerano presto in poco fruttuose polemiche. Nel nostro piccolo, abbiamo dimostrato che la pace non è fatta solo dalle cancellerie, dalla politica, dalle autorità religiose..., ma può e deve cominciare anche dagli atteggiamenti più semplici e quotidiani di ciascuno; con un impegno forse maggiore per chi è credente: la pace si costruisce più sforzandosi di vivere con coerenza la propria fede (cosa per niente facile) che rivendicando la supremazia della propria religione.
Convinzioni queste espresse da tutti i relatori e principale filo conduttore del ciclo di incontri.

Con estrema soddisfazione abbiamo accolto l’invito di Missioni Consolata a raccogliere in un dossier un’ampia sintesi, non rivista dai relatori, di quanto emerso nel corso dell’iniziativa. Considerando la diffusione nazionale della rivista, fa piacere se quanto di buono siamo riusciti a fare a Cusano Milanino potrà contribuire alla crescita di una cultura di pace anche in altre parti d’Italia.

(da Missioni Consolata, gennaio 2007)

Pubblicato in Dossier Pace
Venerdì, 15 Settembre 2006 00:57

Religioni: violenza o dialogo? (Michael Amaladoss)

Religioni: violenza o dialogo?
  di Michael Amaladoss *
 

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Il dialogo fra le religioni, da parte dei cristiani, normalmente si situa in un contesto missionario. Alcuni vedono il dialogo come una tappa nella direzione della proclamazione di Cristo e della Chiesa come unico mezzo di salvezza.
Il Cristianesimo è inteso come la compiutezza delle altre religioni. Si dialoga con gli altri credenti perché la proclamazione non è possibile nelle situazioni in cui il popolo e i governanti si oppongono ad essa.
Altri, tuttavia, vedono il dialogo come una dimensione integrale della missione. Si dialoga con gli altri perché si riconosce la presenza e l'azione dello Spirito di Dio in essi.
Oggi il dialogo tra le religioni ha acquisito una nuova dimensione e una nuova urgenza. Credenti di diverse religioni vivono insieme, ma in molti luoghi lottano fra loro in nome della religione. Le religioni ispirano e legittimano la violenza.
Pertanto, il dialogo fra le religioni sembra essere urgente per la sopravvivenza e la pace degli esseri umani su questa terra. Di conseguenza, dobbiamo stare attenti al dialogo tra le religioni, non soltanto in un contesto missionario e religioso, ma anche sociopolitico. I due contesti sono in relazione in termini di vita e di ideologia.

Violenza in nome della religione

La violenza fra i popoli che professano differenti religioni ha una lunga storia.
Ogni religione ha i propri martiri.
Le Crociate e le guerre europee di religione fanno parte della storia mondiale.
Se consideriamo solo la seconda parte del secolo XX, constatiamo che la violenza interreligiosa nel mondo si è diffusa molto. Violenza fra indù e musulmani in India, fra buddisti e indù nello Sri Lanka, fra cristiani e musulmani nelle Filippine, in Indonesia e nella ex Jugoslavia, violenza infra-cristiana in Irlanda, fra ebrei e musulmani in Medio Oriente, fra buddisti e cristiani in Birmania. La lista completa sarebbe troppo lunga. (...).
La violenza interreligiosa raramente ha cause puramente religiose. Esistono sempre cause socioeconomiche e politiche al fondo dei conflitti religiosi. La religione li giustifica e vi aggiunge sue proprie ragioni. Per questo, adotteremo qui un approccio ampio nello sforzo di capire la violenza religiosa.

In difesa dell'identità personale

Una delle radici della violenza religiosa è la ricerca di identità sociale. Le nostre identità sono socialmente costruite. Gli individui diventano coscienti della loro identità attraverso l'interazione con altri individui significativi, a cominciare dai genitori, dai fratelli, dai familiari, dai vicini. Allo stesso tempo costruiscono anche un'identità sociale mediante l'interiorizzazione delle strutture simboliche su comunicazione e relazione attraverso il linguaggio e il rituale. Il ciclo della vita e i riti delle stagioni contribuiscono, in particolare, alla costruzione del gruppo. I riti di iniziazione possono svolgere un ruolo significativo in un momento cruciale dello sviluppo personale. Questi sono costituitivi della cultura. L'individuo appartiene a un gruppo che si distingue in contrapposizione ad altri gruppi: "Noi" contro "Loro".
Gli psicologi sostengono che, quando ci sono due gruppi, questi si vedono non solo come diversi, ma come competitivi, nemici e inferiori. Tale atteggiamento si basa sul sentimento di "appartenere al gruppo" contro lo "stare fuori dal gruppo". Non c'è lo sforzo di conoscere l'altro, la qual cosa da origine a ignoranza e preconcetti.
Questi sentimenti possono rimanere sopiti in tempi di normalità, ma si aggravano in momenti di tensione per un qualunque motivo. Tali disgreganti sentimenti di gruppo sono ancora più rafforzati dalla religione. I simboli religiosi parlano delle prospettive ultime, e, come tali, toccano livelli più profondi di identità personale e di gruppo. I riti religiosi rafforzano questa appartenenza.
La religione è una poderosa forza di associazione. Un gruppo può sentirsi scelto da Dio e detentore di una rivelazione speciale o può attribuirsi un'esperienza particolare delle cose ultime. Gli altri, allora, possono essere visti come entità che mettono in questione o minacciano questa relazione speciale, particolarmente se rivendicano una differente esperienza del divino. In una situazione di conflitto, le persone tendono a proiettare nell'altro i propri mali e problemi. In un contesto religioso, tale proiezione può convenirsi in demonizzazione degli altri.

"Comunalismo" religioso

I conflitti fra i gruppi sorgono quando essi sono forzati a condividere lo stesso spazio geografico, economico e politico. Tale prossimità implica una questione di potere: chi controlla la situazione, chi domina. La necessità di dominare sembra essere un'esigenza basilare degli esseri umani, in quanto animali politici. Il controllo politico, tuttavia, diventa cruciale quando, nella sfera economica c'è competizione a causa di risorse limitate. Gli individui, allora, considerano indispensabile l'appoggio del gruppo. Il gruppo religioso, naturalmente, sarà il più forte perché ha Dio al proprio fianco.
Un gruppo religioso può essere unito ancor più strettamente di un gruppo di classe.
La religione, allora, diventa "comunalista". Il comunalismo consiste nell'uso politico dell'identità religiosa del gruppo. Le persone appartenenti ad una stessa religione sono portate a pensare di condividere gli stessi interessi economici e politici.
La vera guerra può cominciare nelle sfere economica e politica, giustificate dalla religione. Ma facilmente si riversano nella sfera religiosa e i simboli religiosi sono attaccati. In questi casi, le religioni sono coinvolte nei conflitti economici e politici. Possono esserci alcune persone davvero religiose in ogni gruppo, capaci di percepire tale abuso della religione, che criticano o prendono posizione contro di esso.
Ogni gruppo avrà i suoi profeti, che condannano gli abusi e tentano di incanalare la religione per promuovere la pace.

Fondamentalismo religioso

A volte, la stessa religione può diventare causa di divisione e di conflitto. Ogni religione ha gruppi fondamentalisti. Fondamentalisti sono i difensori di quegli elementi che essi definiscono i fondamenti della loro religione, quando sentono che sono attaccati.
Il fondamentalismo cristiano è sorto negli Stati Uniti, ai primi del secolo XX, quando alcuni cristiani sentivano le loro credenze minacciate dalle emergenti teorie scientifiche, come la teoria dell'evoluzione delle specie, proposta da Charles Darwin, considerata una pura visione naturalistica del mondo che non aveva bisogno di Dio. Pensavano che tale teoria attaccasse, direttamente, il racconto biblico della creazione. Difendevano la loro fede religiosa mediante un'interpretazione letterale della Bibbia. Tali gruppi, più tardi, posero la loro attenzione e la loro azione contro il comunismo, considerato come propagatore di ateismo. Questa opposizione al comunismo è al fondo della costruzione di quella grande macchina da guerra che sono oggi gli Stati Uniti. Anche prassi di morale liberale come la rivendicazione dell'aborto, hanno attirato l'opposizione di questi gruppi.
Esiste una corrente fondamentalista simile anche nell'Islam. Molti fra i moderni riformatori dell'Islam si opponevano tanto all'ateismo secolarista, promosso dalla cultura consumistica dell'Occidente rappresentato degli Stati Uniti, quanto all'ateismo marxista delle potenze comuniste. Alcuni di essi hanno promosso un'interpretazione letterale del Corano.
Purtroppo, tali conflitti fondamentalisti sono diventati comunalisti da quando le due correnti cultural-religiose sono state appoggiate l'una dal dominio politico-militare delle potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti, l'altra dal blocco comunista, guidato dall'ex Unione Sovietica.
Ecco che questi conflitti diventano sono diventati non solo religiosi, ma anche politici e militari. Guerriglie e attacchi terroristici sono le "armi del debole". La violenza sarà allora giustificata come autodifesa.
L'esclusivismo religioso può essere considerato una forma lieve di fondamentalismo. Gli esclusivisti pensano che la loro religione sia l'unico mezzo di salvezza.
Di conseguenza, sono anche universalisti o globali. Si sentono responsabili della salvezza di ogni persona. Questo sentimento di responsabilità li spinge a "salvare" gli altri, se necessario, attraverso la forza.
La forza può essere politica, sociale, economica e, oggi, anche dei media.
Nel passato, l'Islam e il Cristianesimo non hanno esitato ad usare perfino la forza militare con questo proposito, naturalmente per il bene ultimo del popolo.

Violenza religiosa

Fino a qui, la nostra analisi può farci pensare che i gruppi sociali siano realmente responsabili della violenza per motivi economici e politici. Il potere della religione è, spesso, cooptato per legittimare il conflitto. Anche il fondamentalismo religioso non sembra diventare violento, a meno che non sia mescolato con fattori politici e, forse, con interessi economici non tanto occulti.
Potremmo essere indotti a pensare che le religioni, in se stesse, sono promotrici di pace, personale (o interiore) e sociale. Purtroppo, le religioni sono molto ambigue su questo punto.
Un critico letterario francese, René Girard, giunge a suggerire che la violenza è alla fonte della religione. La sua tesi è semplice. C'è una tendenza umana di base a desiderare di avere quello che hanno le altre persone. Chiama, questo, mimesis o imitazione. Uno è pronto ad usare la violenza contro un altro allo scopo di appropriarsi di quello che l'altro possiede. In una comunità, questa tendenza alla violenza reciproca è proiettata su un capro espiatorio - una persona più debole o uno straniero - che a questo punto è morto.
Questo atto di violenza aiuta la comunità a purgarsi della sua propria aggressività.
Nel cristianesimo, Dio in Gesù, attraverso l'offerta di se stesso come capro espiatorio e la ritualizzazione di questa offerta nell'Eucaristia, ci libera dalla necessità di trovare altri capri espiatori e, pertanto, da ulteriore violenza e dalla colpa conseguente.
Non concordo con questa teoria. Penso che svilisce la religione, considerandola un prodotto della violenza umana. Ma il fatto che questa teoria oggi trovi ascolto dimostra quanto facilmente la violenza possa essere giustificata e cooptata dalla religione.
Tutte le religioni iniziano come ricerca di soluzione al problema del male, in quanto sofferenza immeritata. La sofferenza è vista come punizione del peccato. Il male del peccato può essere attribuito solo agli umani, non a Dio.
Ma il peccato sembra essere tanto grande che la maggioranza delle religioni sente la necessità di un potere maligno come Satana che tenta e provoca gli umani.
Satana può infine essere vinto da Dio. Ma abbiamo un conflitto continuo fra il bene e il male, il quale prende forma storica, umana e sociale. La lotta è diretta contro quelle persone e strutture che sono identificate come agenti di Satana in questo mondo. La violenza contro di esse non solo è accettata, ma pure incoraggiata.
È così che una "guerra giusta" scivola verso una "guerra santa": una jihad, una crociata.
Le Scritture di tutte le religioni sono piene di queste guerre. L'Antico Testamento è pieno di guerre del popolo di Dio contro i suoi nemici. Spesso sono umanamente ingiustificabili. L'elezione e il favore di Dio sembrano essere l'unica giustificazione. Il Nuovo Testamento parla di lotta fra Gesù e Satana. Tuttavia alla fine è Gesù che è morto. La morte di Gesù è interpretata come una punizione per i peccati dell'umanità. L'induismo ha le sue guerre epiche fra le forze del bene e del male, nel Ramayana e nel Mahabharata.
Nel Corano, Maometto è a capo di un esercito, anche se l'ultima battaglia in difesa della Mecca si è svolta in modo non violento.
Solo nel buddismo la lotta fra il bene e il male è vista come battaglia morale, interiore. Perciò Budda sceglie la via mediana fra l'ascetismo rigoroso e l'indulgenza. Sebbene i buddisti siano violenti quanto gli altri, non possono citare Budda o i suoi insegnamenti per sostenere la loro violenza.
Pertanto, tutte le religioni, eccetto il buddismo, tendono a demonizzare il nemico e a giustificare la violenza, e persine ad incoraggiarla. I difensori delle guerre giuste sono molto attivi, anche oggi.
Dunque non si può dire che le religioni non difendono o non giustificano la violenza. Purtroppo lo fanno. Non sto affermando che le religioni sono intrinsecamente violente. Ma giustificano la violenza in determinate circostanze.

Violenza sacrificale

C'è ancora un altro principio religioso che sembra giustificare la violenza.
Tutte le religioni parlano di sacrificio. Nella storia delle religioni si trova uno spettro che si estende dal sacrificio umano al sacrificio "spirituale". Si parla di sacrifici nel contesto del peccato, della colpa e della propiziazione. Strettamente parlando, il sacrificio è l'offerta di se stesso, è l'offerta della propria vita. Ma si da simbolicamente, mediante l'offerta di altre vite, cioè di animali. La vita è simbolizzata dal sangue.
Pertanto il sacrificio implica assassinio e violenza. Il giainismo, in India, il buddismo e alcune forme di induismo hanno abolito i sacrifici cruenti. Ma lo hanno fatto ponendo l'enfasi sull'auto-realizzazione, attraverso la meditazione in cerca della liberazione definitiva. Queste religioni non parlano più di un Dio che ci si deve propiziare o che si deve soddisfare con l'offerta di sacrifici. Noi cristiani non abbiamo abbandonato il linguaggio sacrificale nella comprensione della redenzione realizzata da Gesù. L'offerta di se stesso come un segnale d'amore e di servizio ha un senso profondo, ma noi dobbiamo liberare questa auto-offerta da qualunque senso di riparazione o soddisfazione che implichi la sofferenza come punizione. Dobbiamo anche distinguere fra auto-offerta e sofferenza. La sofferenza può essere accidentale. Si può anche assumere la sofferenza come mezzo per mostrare amore in una circostanza particolare, ma non è un elemento essenziale dell'amore o dell'offerta. Si può deplorarla anche accettandola.

Le religioni per la pace

Sebbene le religioni possano, in molti modi, provocare la violenza, possono anche ispirare la pace. Tutte parlano di pace: Shalom!, Salam!, Shanti!
Esattamente in quanto religioni, nel processo di radicamento in un determinato luogo, tendono a inculturarsi e a giustificare strutture socioeconomiche e politiche già esistenti; le religioni, o per lo meno alcuni dei loro praticanti seri, sfidano l'ingiustizia e la violenza in nome dell'Ultimo. Le strutture economiche e politiche saranno sempre guidate dal profitto e dal potere.
La ricerca della giustizia e della pace può venire solo dalla/e religione/i.
Anche quelle che giustificano la violenza propongono sempre la pace come loro scopo. Come possono le religioni nella pratica promuovere la pace? Penso che ogni religione, per se stessa, deve rispondere a questa domanda.
Ma le religioni difficilmente possono promuovere la pace, se non sono in pace tra di loro. (...).

Un atteggiamento positivo nei confronti delle altre religioni

Prima del Concilio Vaticano II, il Cristianesimo si considerava l'unico mezzo di salvezza e l'unica vera religione. Le altre religioni erano semplicemente false. La falsità non può rivendicare nessun diritto. Pertanto, laddove i cristiani erano maggioranza, i membri di altre religioni erano, nella migliore delle ipotesi, tollerati, senza pieni diritti. Nella peggiore, erano perseguitati, come gli ebrei. Dove era possibile, le loro terre venivano loro sottratte e loro fatti cristiani a forza, come, per \esempio, in America Latina. Solo le culture ricche e le religioni evolute dell'Asia riuscirono a resistere a questa aggressione. Non c'è bisogno di ricordare questa sgradevole storia. Ma non dobbiamo farisaicamente dimenticarla.
Nel Concilio si sono fatti due passi avanti. C'è stata un'affermazione della libertà religiosa. Le persone hanno diritto di seguire la religione secondo la loro coscienza. Questa libertà non è basata sulla "bontà" delle religioni, ma sulla dignità di cui ogni persona umana gode essendo creata a immagine di Dio. In secondo luogo, c'è stato un approccio più positivo verso le altre religioni. Dio è visto come origine e destino comune di tutti i popoli: si riconoscono nelle altre religioni, viste come sforzi umani per giungere a Dio, elementi di bontà e di santità, i semi della Parola. I cristiani sono incoraggiati a dialogare con loro. Insieme a questa apertura verso le altre religioni c'è stata anche una vigorosa affermazione della volontà salvifica universale di Dio. Ogni essere umano ha la possibilità di partecipare del mistero pasquale di Cristo, mediante l'azione dello Spirito, pur attraverso cammini a noi sconosciuti.
Dopo il Concilio, il progresso teologico ha incoraggiato una valutazione più positiva delle altre religioni.
Adottando un approccio a priori, teologi come Karl Rahner affermavano che, se Dio viene alle altre persone con la grazia salvifica in ragione della loro natura umana (corporale), sociale e storica, questo può essere dato solo attraverso le religioni mediante le quali le persone tentano di raggiungere Dio. Le persone pertanto sono salve nelle e attraverso le loro religioni e non malgrado esse. Adottando un approccio a posteriori, i vescovi asiatici hanno affermato che, a giudicare dai frutti di santità, dobbiamo riconoscere l'azione di Dio nelle altre religioni.
Questo atteggiamento positivo nei confronti delle altre religioni ha ricevuto sigillo "ufficiale" quando Giovanni Paolo
Il ha invitato i leader di tutte le religioni a riunirsi ad Assisi per pregare per la pace nel mondo nell'ottobre 1986 (...).
Basandosi su questi nuovi avanzamenti, i teologi oggi affermano che le altre religioni agevolano l'incontro salvifico divino-umano. Molti teologi sarebbero anche d'accordo sul fatto che la salvezza è in relazione con il mistero pasquale di Cristo, ma non sembra necessario riconoscere questa relazione coscientemente. La dinamica di questa relazione è spiegata diversamente dai differenti teologi.
Ci sono tuttavia due opinioni sul modo in cui le altre religioni si relazionano alla Chiesa. Alcuni pensano che le altre religioni devono trovare la loro pienezza nella Chiesa, identificata con il Regno di Dio. La salvezza è sempre in relazione alla Chiesa, in un modo alquanto misterioso. Il dialogo perciò sarebbe un mezzo attraverso il quale tale pienezza potrebbe essere promossa. Questo equivale a dire che il mondo intero è destinato a diventare Chiesa. Altri pensano che la Chiesa non è il Regno di Dio, ma solo il suo simbolo e la sua serva. L'obiettivo verso il quale la Chiesa e le altre religioni si incamminano è il Regno. Questa traguardo deve essere escatologico. Intanto le religioni sono chiamate a dialogare, a correggersi mutuamente e ad arricchirsi nella loro vita verso il Regno. La Chiesa è cosciente della speciale missione di promuovere l'unità di tutte le cose nel Regno, come suo simbolo e sua serva.
Ma tutti concordano sul fatto che c'è bisogno, oggi, di dialogo fra i credenti delle differenti religioni, non di conflitto.
Questo dialogo deve verificarsi non semplicemente a livello religioso, ma anche a livello sociale e politico, dove siamo chiamati a collaborare nella promozione della giustizia, della solidarietà e della pace nel mondo.
Possiamo ancora continuare a testimoniare la chiamata di Gesù a diventare suoi discepoli e ad essere simboli e servitori del Regno nel mondo.
Possiamo ricevere persone desiderose di diventare discepoli di Gesù e partecipare della sua missione. Ma non presentiamo più questo come l'unico cammino attraverso il quale possiamo essere "salvi".
Nella situazione di conflitto nella quale ci troviamo, anche una forma sottile di fondamentalismo, rappresentato da una posizione esclusivista, deve essere evitata.

Avere un appropriato atteggiamento di dialogo

Non possiamo, di fatto, dialogare con gli altri se non siamo realmente impegnati in questo. Altrimenti non godremo di credibilità. Stiamo comunicando un messaggio doppio. All'interno della Chiesa c'è diversità di opinioni. La Chiesa, diversamente da altre religioni come l'induismo o il buddismo o lo stesso Islam, è una istituzione molto ben organizzata. In questo senso, quello che i suoi leader dicono è preso sul serio. I leader che parlano in nome della Chiesa sembrano parlare un doppio linguaggio. Da un lato, il papa invita i leader delle altre religioni a riunirsi in preghiera per la pace. Dall'altro, il Vaticano taccia le altre religioni di essere obiettivamente deficienti (il riferimento è alla Dominus lesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, v. Adista n. 64/00, ndf).
Non so chi ci ha dato il diritto di giudicare gli altri in questioni di religione. Una cosa è testimoniare le proprie convinzioni, altro è giudicare gli altri, specialmente dopo aver riconosciuto la libertà di Dio e degli altri. I leader della Chiesa suggeriscono, in modo più o meno sottile, che stanno incoraggiando il dialogo solo perché non possono proclamare il Vangelo. Per questo, i membri delle altre religioni guardano con sospetto all'entusiasmo che alcuni cristiani dimostrano a proposito di dialogo. Una cosa è dire che è necessario non negare o nascondere le proprie convinzioni quando si dialoga con gli altri. Suppongo che ogni credente pensi che la sua religione sia la migliore. Altra questione è, nella pratica missionaria, continuare con un atteggiamento e un linguaggio aggressivi, come echi di una crociata religiosa. Anche se voglio proclamare ad altri uomini dotati di libertà che hanno una loro propria esperienza di Dio, la buona novella che Dio ha comunicato a me, posso farlo solo in forma di dialogo, tenendo conto della loro esperienza di Dio. A volte, ci si domanda perché chi si mostra severo nell'imporre la propria versione del Cristianesimo in Oriente o nel Sud non dimostra lo stesso tipo di zelo nel tentativo di convertire le popolazioni scristianizzate del Nord e dell'Occidente, le quali progressivamente sembrano non credere più in nulla.
Le persone serie, rispetto al dialogo interreligioso, non dicono che tutte le religioni sono la stessa cosa o sono tutte uguali. Stiamo dialogando non con le religioni, ma con le persone. Stiamo dicendo che la grazia salvifica di Dio raggiunge le persone, ovunque siano. Stiamo suggerendo che le varie religioni facilitano l'incontro salvifico divino-umano. Tutti i sistemi e le istituzioni religiose, compresa la Chiesa, hanno i loro limiti e un loro stato di peccato. Hanno bisogno di essere sfidate, profeticamente, per convertirsi. Non aiuta guardare il bene che è in noi, in teoria, e il male negli altri, in pratica. Se crediamo che lo Spirito di Dio è presente in ogni parte, dobbiamo discernere allora la sua presenza attentamente e non dare giudizi a priori sul piano di Dio per gli esseri umani, basandoci sulla nostra esperienza di Dio. Neanche stiamo cercando un denominatore comune intorno al quale potremmo unificare tutte le religioni. Le religioni sono differenti. Dio è libero di dire parole differenti a popoli differenti. Per questo il dialogo fra le religioni può essere arricchente per tutti (...).

Dialogo come soluzione del conflitto

In una situazione di conflitto interreligioso, la prima tappa del dialogo è il superamento del conflitto. Questo può esser fatto a due livelli. Dove c'è o c'è stato conflitto, bisogna lavorare per costruire la pace. A un secondo livello, dobbiamo esplorare vie attraverso le quali le persone coinvolte nel conflitto e nella violenza reciproci possano riconciliarsi. Il primo elemento nella soluzione del conflitto è la restaurazione della giustizia. Le autorità sudafricane, al ritorno della democrazia dopo anni di apartheid, costituirono la Commissione di Verità e Riconciliazione (Cvr), un'esperienza che ha propiziato un clima favorevole a certe proposte.
I conflitti interreligiosi sono spesso provocati da fattori economici e politici. Le proprietà di alcuni vengono distrutte e altri ne beneficiano, ci sono assassinii. Anche l'ordine politico è violato. In tale situazione, non si può parlare di soluzione di conflitti senza restaurazione della giustizia. Giustizia non significa vendetta: occhio per occhio, vita per vita. Non si tratta di giustizia del vincitore, come è successo con il processo di No-rimberga dopo la Seconda Guerra mondiale. Non possiamo rimettere indietro l'orologio della storia. Non possiamo riportare in vita i morti. Per questo la Cvr parlava di giustizia restau-ratrice in opposizione alla giustizia retributiva. La riparazione può essere fatta a vantaggio di chi ha perso le proprietà, sia da parte di chi li ha destituiti dei loro beni, nel caso possa essere identificato, sia da parte della comunità/Stato. La giustizia re-stauratrice non aspira a tornare al vecchio ordine, ma aspira a costruire una nuova comunità. Questo suppone il perdono e la riconciliazione, basati sulla verità. Deve essere stabilita la verità di quello che è realmente accaduto. Si può superarlo; non è necessario dimenticarlo. Il processo del perdono parte dalle vittime: sono loro che devono essere pronte a perdonare, seppure non disposte a dimenticare. Perché possano perdonare, la verità di quello che hanno sofferto deve essere riconosciuta. Il perdono suppone e richiede il pentimento di coloro che hanno agito male. Il perdono non può essere dato se non è richiesto e accettato. Le persone al potere, concedendo a se stessi o ai loro predecessori una amnistia generale, non fanno un atto di riconciliazione. Dare la colpa al sistema non è perdonare. Le persone che hanno coperto cariche di responsabilità - per 10 meno i leader - devono presentarsi per assumersi la responsabilità e manifestare pentimento.
Solo questa specie di interazione fra oppressori e vittime può condurre alla cura delle memorie.
Non è necessario abolire le memorie, ma le si può curare. I resoconti del riconoscimento, davanti alla Cvr, delle violenze perpetrate e delle pene e delle provocazioni sofferte hanno costituito una catarsi per tutti. (...).

Il dialogo dell'azione

Quando si tratta di identificare le cause della violenza, dobbiamo distinguere tra i leader e la massa. I leader, naturalmente, devono essere identificati e giudicati secondo le leggi del Paese.
Ma la massa, frequentemente, si comporta in modo disumano e irrazionale. Coloro che costituiscono la massa sono travolti dall'emotività.
Vi sono casi di persone che partecipano ad atti di violenza, in quanto parte della massa, ma si vergognano di quanto fatto quando, più tardi, riflettono con calma. Ci devono essere mezzi per promuovere questa autoriflessione, coscientizzazione e conversione. Allo stesso tempo, le persone colpite devono anche essere condotte a riacquistare fiducia. Lo Stato non è l'autorità appropriata per portare avanti questo processo di riconciliazione. Gli manca l'autorità morale e la credibilità per farlo. Qui i gruppi interreligiosi, costituiti da leader comunitari, devono prendere l'iniziativa di promuovere la riconciliazione e la pace. Questo è, di fatto, il dialogo dell'azione. Per essere effettivo, tale dialogo dell'azione richiede un contesto democratico, dove ci sia libertà e possibilità di partecipazione per tutti. In un clima di autoritarismo, questo dialogo dell'azione probabilmente si limiterebbe a gesti profetici di protesta.

Il dialogo della vita

L'esperienza del conflitto ci deve portare ad assumere azioni preventive, al fine scongiurare tali conflitti nel futuro. Abbiamo visto sopra che una delle ragioni del conflitto è l'emergere dell'identità di gruppo che oppone un gruppo a un altro.
Come può essere superata questa identità conflittuale e come può essere promosso un senso di comunità? Do per certo che differenze di identità, specialmente a livello religioso, non possono essere abolite. Pertanto, dobbiamo creare una coscienza del fatto che, nella società contemporanea, stiamo realmente vivendo molteplici identità. Apparteniamo a differenti gruppi in differenti momenti delle nostre vite: gruppi di convivenza, professionali, ricreativi, culturali.
Alcuni di questi gruppi possono essere scelti volontariamente. Uno dei gruppi che, in certo modo, coinvolge tutti gli altri, ci riunisce come cittadini di un Paese. Come cittadini condividiamo alcuni interessi economici e politici comuni. Lo Stato dovrebbe essere una struttura neutra, che non favorisce nessun gruppo in particolare. A un altro livello, ogni gruppo possiede anche e ricerca identità e interessi propri, senza nuocere i legittimi interessi degli altri. Ma, tra questi due livelli, esiste una società civile dove tutte le diverse religioni e gruppi ideologici si impegnano in una discussione attiva al fine di convergere su obiettivi comuni, per quanto ogni gruppo si basi sulle sue proprie prospettive religiose e culturali. Tale dialogo è condotto in gruppi di discussione, sui media, nelle università ecc. Questo è dialogo interreligioso, in un contesto socio-politico.
Il fatto di incontrare gli altri in un contesto sociale, culturale e politico ci rende capaci di scoprire gli altri in quanto esseri umani, non identificati esclusivamente nei termini della religione che praticano. Il contatto ci aiuta a conoscerli e a coltivare relazioni di amicizia. Questo ci aiuta a scoprire e a sperimentare una fratellanza ad un livello umano più profondo che trascende le divisioni religiose.
Vivere insieme in una stessa area geografica, frequentare la stessa scuola o club, lavorare nello stesso ufficio può aiutare a raggiungere questo scopo.
Ma questo non avverrà automaticamente. Le circostanze possono riunirci, ma noi dovremo fare sforzi positivi per conoscerci mutuamente, per relazionarci.
Questa amicizia può, infine, portarci anche a conoscere alcuni elementi della credenze e della pratica religiose degli altri, in modo che i nostri pregiudizi nei loro confronti possano essere ridotti, se non eliminati. Potremmo allora, a un livello sociale, partecipare a feste e celebrazioni gli uni degli altri. Questo sarà il dialogo della vita.
Questo dialogo della vita può essere iniziato e preparato, a livello scolare, se agli studenti vengono presentate le varie religioni, i loro fondatori, le storie e le dottrine, le loro feste e le loro specifiche pratiche, le loro opzioni politiche e morali. Questa presentazione potrebbe includere i testi e la letteratura, le opere d'arte e i luoghi di culto, i simboli e i rituali.
Il dialogo della vita potrebbe essere appoggiato dallo scambio e dalla discussione a un livello più specializzato e intellettuale. L'approccio qui non sarebbe quello della religione comparata, che rivendica una certa qualità neutrale e scientifica. Ci incontriamo come credenti e riferiamo quello che crediamo in maniera sistematica e razionale. Affermiamo le somiglianze, così come le differenze.
Questo approccio intellettuale può aiutarci a superare l'attaccamento fondamentalista alle nostre tradizioni. Un approccio interpretativo per rendere rilevante la nostra esposizione per il presente può condurre, in un contesto di dialogo, a una fusione di orizzonti e all'arricchimento reciproco. Si spera che le conclusioni convergano sull'azione. Tale interazione interreligiosa è sempre esistita nella storia, pur essendo polemica. Il confronto intellettuale porta sempre alla chiarificazione e alla crescita.
L'incontro interreligioso può condurre alla riforma interna e al cambiamento.
Nel XIX secolo vi sono stati molti movimenti di riforma nell'induismo, grazie all'incontro con il cristianesimo. L'atteggiamento cristiano rispetto alle altre religioni sta subendo una radicale trasformazione a causa del suo incontro con le religioni sviluppatesi dall'Asia, come l'induismo e il buddismo. L'Islam ha generato il sufismo devozionale quando ha incontrato la religiosità popolare e il misticismo devozionale attraverso l'India e l'Asia.

Pregando insieme

Considerando che tutte le religioni (eccetto il buddismo) credono in Dio e nessuna religione è realmente politeista, il più profondo incontro tra le religioni può avvenire nella presenza di Dio.
Nell'ottobre del 1986 e nel gennaio del 2001, le varie religioni si sono riunite ad Assisi per pregare per la pace. Per quanto non abbiano pregato insieme, hanno riconosciuto e rispettato la preghiera le une delle altre. Decenni prima, in India, il Mahatma Gandhi promuoveva la preghiera interreligiosa come mezzo di promozione della pace e dell'amicizia interreligiosa.
Gruppi religiosi diversi leggevano le proprie scritture, cantavano i propri inni e pregavano. L'atteggiamento degli altri fedeli presenti poteva variare dalla presenza rispettosa alla partecipazione attiva, secondo i tipi di simbolo usati.
Se riconoscessimo che tutti stiamo pregando l'unico Dio, allora dovremmo essere capaci di relativizzare ed entrare nelle strutture simboliche di altre religioni, purché non insistano nello specifico dei propri miti, fede e storia. In questo processo, ogni religione scopre la differenza con i propri simboli e significati, accettando la convergenza di senso mediante un pluralismo di simboli.
Questa preghiera interreligiosa sta diventando comune, attualmente, in Asia.
Per quanto riguarda la teologia cristiana, se crediamo che 10 Spirito di Dio sia presente in altre religioni, possiamo accettare la possibilità che Dio abbia loro parlato nelle loro scritture ufficiali.
Per quanto Dio non abbia rivolto queste parole a noi, 11 fatto che siano state indirizzate ad altri esseri umani significa che non sono totalmente irrilevanti per noi, specialmente in un contesto interreligioso. Individui di livello più popolare sembrano più aperti alle esperienze interreligiose. Il loro riconoscimento del sacro come qualità di persone e luoghi sembra dipendere più dalla loro esperienza che da frontiere ufficiali.
Troviamo un'apertura simile ai livelli più alti. Da alcuni decenni, i cristiani si sono interessati ai metodi di meditazione dell'induismo e del buddismo.
Molti cristiani praticano Yoga e Zen. Alcuni non vanno oltre l'uso delle loro tecniche per raggiungere la pace interiore. Ma altri tentano di toccare le profondità dell'esperienza alle quali questi metodi conducono. Una volta che la prospettiva del cristianesimo come pienezza delle altre religioni viene abbandonata e queste sono riconosciute e accettate come diverse, sorge la domanda se un cristiano possa aspirare a un'esperienza hindu di Dio o dell'Ultimo.
Si può essere hindu-cristiani? Questa non è una questione astratta, poiché esistono persone che hanno tentato di oltrepassare le frontiere.
Questa non è una questione accademica, ma esperienziale.
Gli esperimenti e le esperienze di alcuni pochi mostrano come le frontiere che separano le religioni non sono tanto impermeabili come i loro devoti immaginano.
Qui arriviamo al dialogo al suo livello più profondo.

Conclusione

Gesù disse che il sabato è per l'uomo e non l'uomo per il sabato.
In modo simile, possiamo dire che le religioni sono per le persone e per la loro vita nel mondo; le persone non vivono per la loro religione. Il comandamento fondamentale è amarci gli uni gli altri e amare Dio nell'altro, e non lottare riguardo a quale simbolo di Dio è autentico.
L'ultimo giorno, Gesù non domanderà a quale Dio le persone hanno reso culto, ma se hanno servito il povero e il bisognoso (Mt 25).
Dio non è esclusivista; le persone e le loro religioni sì.
Una volta che siamo certi che l'amore salvifico di Dio in Cristo e nello Spirito raggiunge tutte le altre persone per cammini a noi sconosciuti, possiamo testimoniare, senza ansia e aggressività, l'amore di autosvuotamento di Cristo.
Il cammino di Gesù è il servizio kenótico, non la dominazione.
Possiamo lasciare che Dio, in quanto Dio, riunisca tutte le cose, perché Dio sia tutto in tutto (cfr. 1Cor 15, 28).
Possiamo rispettare la libertà di Dio e la libertà delle persone.
Riconoscere e accettare la libertà dell'altro è essere disposti al dialogo. Allora la violenza in nome della religione non esisterà più.

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* Direttore dell'Istituto per il Dialogo fra le Culture e le religioni di Chennay, nel Madras.

(Tratto da Adista 14 ottobre 2002)

Pubblicato in Dossier Pace
Martedì, 06 Settembre 2005 22:53

Guerra e pace nell' Ebraismo (Rav Roberto Della Rocca)

Guerra e pace nell'Ebraismo
di Roberto Della Rocca
rabbino capo di Venezia

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.

Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.

Lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.

In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.

Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.

Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.

Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".

Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.

Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).

Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.

Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"

Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.

Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.

Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.

La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.

In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.

Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…".

Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.

Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogni sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.

Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).

Tratto dal sito www.morasha.it


Pubblicato in Dossier Pace

Quando la violenza
comincia dalla teologia
di Carlo Molari




C'è un modo di insegnare religione che rende difficile o impedisce l'educazione alla pace. Non mi riferisco tanto agli insegnamenti morali, relativi ad es. alla guerra giusta o all'uccisione del tiranno (dottrine che devono essere certamente riviste), ma alle concezioni più generali che riguardano la funzione del cristianesimo nella storia, la missione della chiesa e la stessa concezione di Dio.
Tutta la teologia cattolica e quindi anche l'insegnamento della religione può ancora essere percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. Spesso perciò con l'insegnamento della religione noi contribuiamo all'educazione di uomini violenti pur difendendo ideali di pace e proclamando il vangelo della fratellanza universale. È necessario rendersi conto di queste dinamiche per evitare ogni contraddizione che risulterebbe deleteria.
La pace è prima di tutto un processo culturale che richiede la revisione radicale dei modelli interpretativi e degli atteggiamenti spirituali che nel passato, spesso inconsapevolmente, hanno suscitato movimenti violenti. Vorrei portare alcuni esempi di insegnamenti correnti della teologia che contrastano con una educazione alla pace.


1. Concezione di Dio.

C'è molto infantilismo e antropomorfismo in formule relative a Dio usate abitualmente, ma soprattutto esse spesso rendono difficile una vera educazione alla pace.
Il Dio onnipotente, il Dio degli eserciti, il Dio che sconfigge i nemici, che ci può far prevalere su gli altri è un Dio violento e guerriero. Questa immagine di Dio riflette esperienze e culture di altri secoli, ma ha lasciato traccia in molte espressioni popolari.
Il Dio salvatore che il vangelo ci presenta non è colui che ci fa vincere, che è più forte dei nemici, ma colui che ci concede di vivere tutte le situazioni, anche la morte, in modo salvifico. È il Dio che anche quando siamo sconfitti ci offre di poter amare e perdonare.
Il Dio rivelato da Cristo è il Dio della pace e della fraternità, il Dio della resurrezione non della vittoria.

2. Teologia della forza fisica.

La forza fisica nella fase infantile e adolescenziale costituisce un ideale assoluto. È la reazione alla condizione di debolezza in cui l'uomo nasce. Per questo nella fase infantile dell'umanità la forza fisica venne sacralizzata: fu spesso considerata come espressione della benevolenza divina, comunicazione della energia della Natura, partecipazione della forza cosmica.
Una teologia della potenza o della forza fisica si esprimeva nella esaltazione degli eroi come incarnazione di Dio, nei miti della vittoria in guerra come decisione degli Dei ed espressione dei loro favori nel cosiddetto giudizio di Dio, secondo il quale chi superava una prova era dalla parte della giustizia.
La debolezza fisica, la malattia o la sconfitta in guerra venivano considerate come conseguenze dei peccati che avevano irritato Dio.
Questo modo di interpretare l'esistenza e la storia non è più corrente ma rimangono residui notevoli di questa fase culturale in espressioni, preghiere, formule di fede tradizionali.

3. Stato originale.

Anche nei racconto delle origini esistono elementi che possono favorire la violenza e la discriminazione. In primo luogo occorre superare la convinzione che la violenza del mondo sia esclusivamente la conseguenza del peccato. C'è una violenza legata alla stessa condizione imperfetta di creatura e alla necessità di crescita personale.
La concezione idilliaca della natura primitiva o dell'uomo uscito perfetto dalle mani di Dio è un mito da intendersi come simbolo della chiamata divina ad un futuro diverso, non come descrizione di una condizione del passato.
La pace non è mai esistita: è una vocazione per il futuro dell'uomo. Il progetto di pace che avvertiamo urgente non è un ritorno a forme primordiali di esistenza umana, ma è una novità assoluta che ci è affidata come sfida dalla storia.

4. Azione di Dio nella storia.


Molte di queste formule inadeguate dipendono da un errato concetto dell'azione di Dio. Ci sono diversi modelli con cui viene abitualmente interpretata l'azione di Dio nella creazione e nella storia.
C'è chi pensa a Dio secondo categorie magiche, come se la sua energia sia concentrata in parole, cose o persone particolari. C'è chi pensa a Dio come una creatura potentissima che può intervenire nella creazione e modificare le cose sostituirsi ad esse, introdurre energie nuove. Egli agirebbe come un buon artigiano che modifica gli oggetti sbagliati o come una madre che sorregge il figlio quando sta per cadere. Questi modi di pensare all'azione di Dio sono molto imperfetti e peccano di antropomorfismo: proiettano cioè in Dio atteggiamenti umani.
La teologia in questi ultimi decenni ha purificato i modelli per esprimere l'azione di Dio. Lo stimolo le è venuto dal confronto con le scienze della natura e in particolare con le ipotesi evoluzioniste.
Già il domenicano A. D. Sertillanges (1863-1948) lungo tutta la sua vita aveva messo a punto un concetto di creazione purificato da tutte le sovrastrutture predicamentali (1). Egli giustificava coerentemente l'affermazione di S. Tommaso: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio» (2).
Anche Teilhard de Chardin (1881-1955) dagli anni successivi alla prima guerra mondiale fino alla sua morte ha riflettuto spesso sulle categorie scolastiche dell'azione di Dio nel mondo, per pervenire a formule che potessero esprimere in modo adeguato le conquiste della scienza o le diverse teorie scientifiche. A proposito della creazione scriveva: «La creazione così compresa non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell'universo» (3). «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di non cogliere se non l'opera della natura... La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d'insieme. Dio propriamente parlando non fa: egli fa che le cose si facciano» (4).
La stessa affermazione viene fatta più tardi da K. Rahner (1904-1984) in un medesimo contesto culturale: «Sembra che dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare, appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... (altrimenti) ... l'agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l'agire delle creature» (5). Dio, perciò «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire» (6).
Utilizzando questo concetto di azione Dio appaiono in una luce diversa la preghiera dell'uomo, il valore della sua azione per la pace e l'influsso negativo della sua aggressività.
Pregare per la pace non serve per far intervenire Dio al nostro posto, ma per farci assumere atteggiamenti che ci consentano di realizzare la sua volontà. La preghiera non serve per far cambiare l'opinione di Dio nei nostri confronti o per farlo agire diversamente ma per modificare il cuore degli uomini.
Il futuro dell'uomo non cade dal cielo, non è un'irruzione improvvisa per un intervento di Dio, ma è la costruzione donata all'uomo dalla sua misericordia lungo tutta la storia.
D'altra parte il futuro, per il credente, non è semplice sviluppo del già dato ma è l'avvento di un presente non ancora accolto, di un Bene non amato, di una Verità non ancora conosciuta, di un Vita non ancora tradotta in umanità. Per questo è assolutamente necessario un atteggiamento di accoglienza che la preghiera rende possibile e sviluppa.
Non si richiede che l'uomo pregando ottenga una azione di Dio, ma che diventi capace di una fedeltà alla vita che conduce alla pace. La pace di Dio non può entrare nella storia degli uomini se questi non compiono scelte di pace.

5. Natura e soprannatura.

Anche la dottrina relativa all'ordine soprannaturale si è spesso prestata a concezioni discriminatorie. Si pensava che solo i cristiani, anzi solo coloro che erano in grazia potevano operare il bene e costruire il regno di Dio. Le altre azioni, anche se buone, erano prive di quelle carica vitale che veniva solamente dall'inserimento nell'ordine della grazia. Ciò conduceva al disprezzo di tutte le altre forme di religione, che spesso venivano anzi considerate frutto dell'azione demoniaca nella storia.
Il problema che alla teologia medioevale e alla teologia scolastica veniva posto dall'uso della categoria aristotelica di «natura», ora è praticamente scomparso. Non vi è alcuna necessità di parlare di due chiamate e di due fini proposti all'uomo: uno naturale ed uno soprannaturale. Non vi è alcun bisogno di ricorrere ad un ordine «superiore» per spiegare le azioni che consentono all'uomo di pervenire alla pienezza di vita.
Utilizzando la prospettiva dinamica (l'uomo diventa), storica (attraverso gli eventi) e sociale (nell'intreccio dei rapporti) non è difficile liberarsi da queste contrapposizioni.
L'azione di Dio fin dall'inizio ha una intenzionalità eterna ed una carica vitale trascendente. La creatura, tuttavia, non è in grado di cogliere tale offerta se non progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi.
Per questo la storia di ogni persona come la storia umana registra una progressione di offerte divine fino ad una pienezza alla quale ogni uomo è chiamato.
Ciò non significa che la storia svolgendosi possa pervenire alla sua pienezza. Il passato infatti, non contiene i principi sufficienti per il futuro. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio diventa più ricca perché può essere accolta in modo sempre più perfetto. La stessa capacità di accoglienza è dono, frutto cioè dell'azione gratuita di Dio che sollecita la libertà e offre capacità di risposta.
Ma in questa avventura storica tutti gli uomini sì ritrovano fratelli e tutti i popoli contribuiscono con l'apporto della loro storia alla realizzazione di un'unica comunità umana.
Le differenze che esistono tra i vari popoli caratterizzano i diversi doni che essi devono offrire alla realizzazione dell'unità umana.

6. Rivelazione e segni dei tempi.

Anche la dottrina della rivelazione non deve essere presentata in modo esclusivo e discriminante. La rivelazione storica è unica e riguarda l'umanità intera. Certo, i profeti nelle diverse culture hanno avuto funzioni non identiche ed i loro apporti hanno segnato in modo differenziato la storia umana. Ma non si deve limitare l'ambito della rivelazione a un popolo solo, se essa è cominciata con la creazione ed ha avuto come spazio la storia umana (ricorda Gen 1-11).
Se la rivelazione, come chiarisce la Dei Verbum (n. 2), è una serie di eventi accompagnati da parole, non vi possono essere esclusioni di sorta nel possesso della rivelazione e nella sua interpretazione. La storia umana, infatti, è fatta da tutti, è aperta a tutti e la sua interpretazione dipende dagli sviluppi che la storia avrà nel futuro.
Per questo il concilio ha insistito sulla necessità di leggere i segni dei tempi (Gaudium et Spes 4), di ascoltare il linguaggio di tutti gli uomini e di ricorrere agli esperti del mondo «siano essi credenti che non credenti» per capire la verità rivelata ed approfondirla (cf GS 44). Non si tratta di attendere eventi speciali, che esprimano un'azione straordinaria di Dio o una sua nuova rivelazione. Tutti gli eventi storici, vissuti in fedeltà alle leggi della vita, contengono elementi che possono chiarire la rivelazione perché sono il tentativo che la vita fa per manifestarsi e quindi per tradurre in espressioni concrete le sue virtualità profonde.
Avvertire i segni dei tempi significa appunto cogliere «i segni della presenza è del disegno di Dio» (GS 11) negli eventi della storia. Ma siccome l'azione di Dio è trascendente e non «predicamentale», gli eventi debbono essere letti secondo le loro leggi intrinseche, secondo quindi i dati della scienza. Solo a questa condizione è possibile scorgere alla luce dell'esperienza di fede, le tensioni salvifiche che essi contengono. Se si scavalca la realtà per imporre un'interpretazione che si presume essere di fede, di fatto non si farà altro che imporre agli eventi la lettura che la comunità cristiana ha dato nel passato.
Leggere quindi i segni dei tempi significa cogliere il messaggio che tutti gli eventi della storia, interpretati secondo le loro dinamiche interne, contengono e manifestano a coloro che hanno gli occhi aperti dalla fede.

7. Storia e regno.


Allo stesso modo deve essere chiarito il rapporto tra impegno storico e realizzazione del regno di Dio. La costruzione del regno non è esclusiva di un popolo, ma richiede il contributo di tutti. Dio non può manifestare la sua misericordia e il suo amore nella storia se non quando essi diventano gesti di creatura. Costruire il regno perciò non significa sostituirsi a Dio o avere capacità autonome di vita eterna. Ma significa aprirsi completamente all'azione dello Spirito così da consentirgli di tradurre in forme umane l'amore misericordioso del Padre secondo le indicazioni che Cristo ci ha lasciato.
Le dimensioni eterne dell'esistenza umana non possono essere costruite dall'uomo. Ma neppure possono essere accolte improvvisamente alla fine della vita. L'uomo può solo accoglierle progressivamente attraverso i numerosi eventi storici che la misericordia di Dio gli consente di vivere e nell'intreccio dei rapporti che gli è possibile realizzare.
Nessun popolo perciò può presumere di potere costruire il regno, ma neppure può abbandonarsi a forme di passiva attesa, dato che la vita eterna gli è offerta ogni giorno attraverso la molteplicità dei rapporti che egli vive, e gli avvenimenti piccoli o grandi del suo percorso nella storia. Chi trascura queste offerte quotidiane, non potrà mai accogliere il dono definitivo del Padre, o il compimento della sua perfezione. Non si dà infatti compimento che di un'opera progressivamente maturata fino alla pienezza.
Se si è convinti che la pace si costruisce nella storia con esigenze sempre nuove, è urgente un ampio processo di conversione. Occorre cominciare dai bambini piccoli, e dagli adolescenti. Occorre presentare le guerre come gli errori umani più gravi. Occorre demitizzare gli eroi violenti (Cesare, Napoleone, Garibaldi), occorre allargare l'orizzonte delle conoscenze a tutti gli ambiti della storia umana, come l'unico tentativo dell'umanità di pervenire tra errori e barbarie ad una forma unitaria di esistenza.
La fraternità umana oggi passa attraverso l'abbattimento dei muri divisori che la presunzione dei popoli ha creato fra gli uni e gli altri. Anche la chiesa deve essere testimone di questa conversione che l'intera umanità sente l'urgenza di operare.

8. Qualità della pace.

La pace non deve essere perciò richiesta come urgenza per i disastri che potrebbe provocare una guerra atomica, ma come salto qualitativo dell'esistenza umana, come la dimensione spirituale delle attuali strutture di comunicazione, di industria, di commercio.
La sconfitta della violenza passa attraverso cambiamenti molto più radicali che la semplice distruzione delle armi. È un atteggiamento nuovo dello spirito: l'incontro fraterno con gli altri, l'uso maturo della sessualità, la considerazione sincera degli anziani, la vicinanza premurosa agli ammalati, la solidarietà con gli emarginati, la condivisione con i più poveri.

9. Conclusione.

Per il cammino futuro della pace è necessaria una presentazione della religione e dei contenuti della fede in Dio, purificata da tutti gli elementi di violenza e di assolutismo che spesso le sono collegati.
In particolare è necessario evitare ogni dualismo e contrapposizione: azione di Dio-azione dell'uomo, grazia-natura, storia-regno.
Così è necessario evitare l'assolutismo della religione e le rivendicazioni di superiorità nei confronti degli altri.
Dio è uno solo, e la forza della vita è consegnata a tutti. Ogni religione deve liberarsi dalla presunzione di essere la risposta unica e definitiva di Dio agli uomini.
Ciò richiede da parte degli insegnanti una particolare sensibilità nella presentazione della dottrina relativa:
- alla rivelazione
- alla salvezza
- alla grazia
- all'azione di Dio nella storia.
L'insegnamento religioso del passato non è sufficiente alla attuale richiesta di pace. Esso riflette una teologia percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. L'educazione alla pace non può essere costruita senza il rinnovamento dell'intero insegnamento della religione.


1. A. D. Sertillange, L'idée de création et ses retentissements en philosophie, Aubier, Paris 1945.
2. Il Contra Gentiles, c. 18
3. P. Teilhard de Chardin, La transformation créatrice, in Comment je crois, Seuil, Paris 1969, p 31.
4. Id., Note sur les modes de l'action divine dans l'univers, in ib. p. 38. Cf un'affermazione analoga in Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, in «Etudes», 5-12 juin 1921, ora in La vision du passé, Seuil, Paris 1957, p. 39.
5. K. Rahner, Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p. 96.
6. Id., ib., p. 99.


(da Religione e scuola, XIII (1984), n. 6, pp. 271-275).
Pubblicato in Dossier Pace

Vincere il male con il bene
(Il Papa per la giornata mondiale della pace)





Il tradizionale messaggio del papa per la giornata mondiale della pace ci offre una lucida analisi della situazione della pace nel mondo e qualche cammino realistico per raggiungerla.
Giovanni Paolo II illustra il compito che incombe a tutti di lavorare per la pace non preoccupandosi delle critiche che vengono rivolte a coloro che sono sprezzantemente chiamati “pacifisti”. Mentre alcuni se la prendono con i “pacifisti” il messaggio del papa ci propone con pacatezza, ma con fermezza, il tema della pace offrendoci una nuova “grammatica di morale universale”, un insieme di valori e principi che si impongono ai costruttori di pace.

SOLO IL BENE VINCE IL MALE

Il titolo del messaggio: Non lasciatevi vincere dal male, ma vinciamo  con il bene il male, è una citazione da Rom. 12,21. La pace è il bene sommo e deve essere promossa con il bene perché è il miglior frutto dell’amore. Infatti la pace è «il risultato di una lunga e impegnativa battaglia, vinta quando il male è sconfitto con il bene» (n. 1). La pace non è il risultato di una vittoria ottenuta con le armi, non lo è mai stato. Il vero male è la guerra, l’ingiustizia, la situazione di violenza che caratterizza il nostro tempo. La pace esclude ogni guerra, preventiva o oltro che sia.

Il papa insiste su una verità che spesso dimentichiamo: «il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali…». È il prodotto dell’uomo che «passa attraverso la libertà umana…». Alla sua origine ci sono uomini e donne che liberamente scelgono il male. Siamo noi uomini i responsabili della pace e della guerra.  Il male è voluto da chi non segue la logica della fraternità e della comunione e si sottrae alle esigenze dell’amore. Anzi noi cristiani siano spinti sino all’amore dei nemici (n. 2).

Davanti alle molteplici manifestazioni del male il papa richiama l’urgenza di fare riferimento al «comune patrimonio di valori morali» (n. 3) che sono stati dati da Dio a tutti. Giovanni Paolo II chiama questo «la grammatica della legge morale universale» di cui tutti sentiamo il bisogno. Ecco i cinque grandi principi di questa grammatica:
a) il rispetto e la promozione della vita delle persone e dei popoli;
b) il rifiuto della violenza come mezzo per risolvere il contenzioso tra i popoli;
c) la promozione del bene comune ricercato con urgenza e determinazione;
d) un’equa distribuzione dei beni pubblici;
e) l’impegno per assicurare a tutti i popoli, soprattutto ai più deboli, le possibilità finanziarie per promuovere il proprio sviluppo.

L’«AMATO POPOLO AFRICANO»

Il papa non si sottrae alla denuncia di situazioni che mostrano l’urgenza di prendere finalmente di petto certi problemi del mondo. Tra questi il rispetto delle persone e della vita di tutti. E qui cita l’«amato popolo africano», che è alla deriva, ove perdurano conflitti che mietono numerose vite umane. Parla della «pericolosa situazione della Palestina», ove manca la comprensione. Ancora il «tragico fenomeno della violenza terroristica», e infine il «dramma iracheno».
Nella situazione dell’Africa denuncia qualcosa di intollerabile sul quale ritornernerà alla fine del messaggio (n. 10) per sollecitare «un cammino radicalmente nuovo» Per il papa la rinascita dell’Africa «rappresenta una condizione indispensabile per il raggiungimento del bene comune universale». È significativo che il papa colleghi il bene comune universale alla risoluzione di questi problemi particolari.

CITTADINANZA MONDIALE PRESUPPOSTO DI PACE

Il pontefice sottolinea un punto fondamentale della dottrina sociale della chiesa, quella della «destinazione universale dei beni della terra» (n. 7) che viene integrato dalla cosiddetta «ipoteca sociale» che grava su ogni proprietà privata per elaborare il principio di una cittadinanza mondiale, fondato sulla comune origine e destinazione dell’umanità. Ogni uomo al momento della sua nascita diventa «titolare di diritti e doveri» (n. 6) insieme a tutti gli uomini e donne del mondo. La fraternità universale precede ogni altra distinzione storica, o geografica, o razziale.
La pace non spunterà all’orizzonte del mondo finché questo principio non sarà messo in pratica, e le necessità di ogni uomo non saranno soddisfatte. Questo è ciò che si legge tra le righe del messaggio. Per il papa e per la dottrina sociale della chiesa la proprietà privata esiste per garantire «che la necessità di base di ogni uomo e di ogni donna vengano soddisfatti e sostenuti».
Insieme ai beni della terra devono essere offerti a tutti anche quei «nuovi beni» (n. 7) che provengono dal progresso scientifico e tecnologico e che sono oggi necessari per partecipare allo sviluppo. Il papa sottolinea la necessità di abbattere le barriere doganali e i monopòli che, nel caso dei medicinali, stanno condannando a morte molti poveri del mondo in via di sviluppo.
Ai beni della terra e della tecnologia egli associa anche tutti i beni pubblici, come il sistema giudiziario, di difesa, le infrastrutture stradali e di comunicazione, la sicurezza, la salvaguardia dell’ambiente e la prevenzione delle malattie (n. 7).

VINCERE LA SFIDA DELLA POVERTÀ

Per il conseguimento ed il rafforzamento della pace il papa ribadisce l’urgenza di affrontare la sfida della povertà che affligge ancora un miliardo di persone mentre all’orizzonte sta pendendo sulla sorte dell’umanità una nuova guerra: quella dell’acqua. Occupazione, cibo e acqua potrebbero essere il detonatore di una nuova guerra. Il messaggio del papa richiama il dovere di negoziare il debito estero dei paesi poveri in modo da permettere l’inizio dello sviluppo. Inoltre è «auspicabile e necessario inprimere un nuovo slancio all’aiuto pubblico allo sviluppo» (n. 9).
Il papa conclude il messaggio riaffermando la certezza «che è possibile a tutti vincere il male con il bene» (n. 11). Questa certezza si basa sulla potenza della risurrezione che ci assicura che il male non prevarrà. L’eucaristia ci offre il modello di una società di fratelli.


FERRARI G., Vincere il male con il bene. Il papa per la giornata mondiale della pace, in Testimoni 1 (2005), pp. 1-4. Riduzione di CESARE FILIPPINI.
Pubblicato in Dossier Pace
Lunedì, 28 Marzo 2005 18:18

La regola d'oro nelle religioni del mondo

La regola d’oro nelle religioni del mondo

Pubblicato in Dossier Pace
Mercoledì, 23 Marzo 2005 20:35

Religioni: strumenti di pace

Religioni:
strumento di pace
di A. La.





In un'epoca di profonda oscurità, di guerre e di ingiustizie globalmente diffuse e perpetrate dai potenti della terra a detrimento delle popolazioni, dei singoli e di chiunque rappresenti, in qualche modo, un «obiettivo sensibile» (perché ha la sfortuna di possedere importanti risorse naturali o di essere strategicamente interessante), la pace sembra una meta sempre più lontana e irraggiungibile.

Dittatori, imperatori vecchi e nuovi, terroristi, capi di stato neoliberisti, semplici fedeli, aggressori e aggrediti, ognuno si arroga il sacro diritto di parlare a nome del proprio Dio. Bush, con i vangeli in mano, massacra iracheni e afghani con i suoi aerei da guerra; Bin Laden addestra il suo esercito di terroristi salmodiando il corano; Sharon, in nome del Jahwé biblico,fa pulizia etnica tra i palestinesi...

Ma Dio che c'entra con tutto ciò? E i sacri testi?

Religioni e violenze, religioni e pace: da sempre le fedi religiose sono state strumentalizzate a fini politici, economici, militari.

Ma esse sono, nella loro essenza più assoluta, uno strumento di pace e di giustizia. Un mezzo di autoriforma e di miglioramento personale, sociale e politico. Un mezzo... e non un fine.

Come trasformare l'odio in compassione e tolleranza, il veleno in elisir? «Senza sottovalutare le reali distinzioni tra ciascuna tradizione, penso si possa comunque affermare che tutte le religioni hanno avuto origine da impulsi caratteristici dell'individuo - il desiderio di comprendere qual é il posto dell'essere umano nell'universo, affrontare i misteri della vita e della morte, il desiderio di sperimentare gioia e dare significato all'inevitabilità della sofferenza e della perdita. (...) Si creerà valore assoluto quando ognuna di queste (religioni) si cimenterà in una "corsa alla pace", impegnandosi ad alleviare la sofferenza e a essere portatrice di gioia. Oltre a rafforzare la pace, loro imperativo spirituale, le religioni possono contribuire al benessere umano in altri modi - attraverso la cultura, la ricerca della verità e le tradizioni di studio ed educazione di cui sono portatrici. Sono profondamente convinto che la religione esista per servire l'umanità; l'umanità non esiste per servire la religione» (1).

Con questo contributo inizieremo un viaggio alla scoperta della pace e della nonviolenza nelle più grandi religioni del mondo (...).


(1) Daisaku Ikeda, fondatore del Centro di Ricerche di Boston per il XXI secolo. Brano tratto da «Duemilauno», sett. Ottobre 2000.

(da Missioni Consolata, dicembre 2003)
Pubblicato in Dossier Pace
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