E’ capitato in America nel 1987. Il senatore Gary Hart si è ritirato dalla corsa alla Casa Bianca perché scoperto adultero e bugiardo. L'opinione pubblica gli aveva negato la fiducia. La decisione era stata commentata variamente. Dalla domanda: «Qual è il vero motivo che ha indotto gli americani a negargli la fiducia: l'adulterio o la menzogna?». Allo stupore: «Cosa c'entra la vita privata con la gestione della cosa pubblica». Alle battute salaci e divertite: «E possibile essere libertini e fare politica, a condizione che si abbia il fisico per reggere».
Anche oggi si pone il problema: «E possibile affidare il potere a chi non è virtuoso?». La domanda offre l'occasione per riflettere su un principio morale che in questo tempo di settorializzazione e di frantumazione è stato progressivamente dimenticato, e cioè la necessità della bontà integrale della persona o il principio della connessione di tutte le virtù: un principio che tradotto nel nostro tempo potrebbe essere espresso così: «Non è possibile essere politici affidabili (nel senso di persone che promuovono il bene comune in ogni circostanza) se non si posseggono tutte le virtù morali, compresa la castità, almeno allo stato iniziale o nella forma imperfetta della continenza».
L'affermazione può stupire e può sembrare bigotta e assurda. Ma se ben si riflette si giunge alla conclusione che è invece aderente alla realtà. Basta pensare al fatto che nello spionaggio circolano donne affascinanti col compito di corrompere chi ha potere. Cavour diceva che la contessa di Castiglione era stata più utile di ogni altro diplomatico per convincere Napoleone III a entrare in guerra a fianco del piccolo Stato del Piemonte.
Il privato si riversa nel pubblico
Alcuni anni fa circolava negli ambienti femministi lo slogan: «Il privato è pubblico». Voleva ricordare che i comportamenti della persona non possono essere chiusi nel privato, ma hanno una ripercussione nella formazione del costume e nella creazione di una eventuale nuova cultura. Il puro "privato" non esiste. Ogni" gesto della persona viene esportato nella vita di relazione con gli altri e ha ripercussioni nella loro vita. Il drogato non può trincerarsi dietro il "sono fatti miei", perché porta nella società una persona che non è responsabile dei suoi gesti, e il suo bisogno di droga alimenta un mercato illegale che diventa un cancro nel tessuto sociale, e lo stesso drogato è spinto dal suo bisogno di droga alla rapina, alla prostituzione, alla corruzione, accrescendo così il malessere, la paura, l'insicurezza nella società.
Di fatto il privato si allarga nel pubblico e lo condiziona, perché ognuno porta dovunque se stesso, e con sé porta i suoi pregi, le sue qualità, i suoi difetti, i suoi condizionamenti. Il ruolo non ha il potere di migliorare la persona. Un incompetente non diviene competente perché gli viene affidata una responsabilità. Questo avviene già nella vita privata: un egoista non diventa generoso perché si sposa, ma porta se stesso con il suo egoismo nel matrimonio, e con il suo difetto personale e privato inquina il rapporto coniugale. Il disonesto non diventa onesto quando viene eletto magistrato o gli viene affidato un compito nella pubblica amministrazione, ma porta la sua disonestà nel posto che gli viene affidato. Il suo difetto diventa dannoso per tutta la vita pubblica.
Il privato trova nel canale naturale della socialità il passaggio normale per entrare in circolazione nel pubblico. Un antico proverbio filosofico affermava concisamente che agere sequitur esse, cioè si agisce come si è. E in termini popolari si diceva che «la botte dà il vino che contiene». Se poi cerchiamo una parola di Gesù sull'argomento troviamo quella lapidaria espressione: «Si può forse raccogliere uva dai rovi o fichi dalle spine?» Una persona sintonizzata sulla disonestà si esprimerà su quell'onda, sia che agisca nel privato sia che si muova tra le responsabilità pubbliche ed entri nella stanza dei bottoni.
È vero che la dinamica con cui la disonestà si esprime nel pubblico è diversa dal modo con cui si esprime nel privato. La persona cambia tattica: diventa più cauta, sa temporeggiare e attendere il momento propizio, cerca di non bruciarsi in cose di poco conto. Ma arrivata l'occasione scatta la sua vera natura di persona disonesta. E allora la parte inquinata della persona prevale sul dovere, e la trascina nella direzione del vizio. Non è la gamba che zoppica: è tutto l'uomo. Il difetto della parte si ripercuote nel tutto.
L'insegnamento di san Tommaso
La riflessione di san Tommaso su questo argomento può aiutarci a capire meglio perché l'uomo non può essere buono a metà, e perché è necessario che sia buono in tutti gli aspetti della sua vita se non vuole esporsi al pericolo di non essere buono in nulla. Il ragionamento è semplice. L'uomo saggio non agisce sconsideratamente o sotto la pressione dell'istinto o la violenza della passione, ma prima di agire valuta e sceglie ciò che deve fare. Ma è proprio nel momento in cui la persona riflette per fare una scelta che entrano in gioco le inclinazioni viziose, che rendono difficile o impediscono di ben ragionare e la trascinano nella direzione dell'oggetto vizioso.
Per esempio. Quante volte l'etilista ha detto a se stesso in astratto che non è bene ubriacarsi; ma cambia parere man mano che dalla chiarezza dei principi discende alla decisione concreta. Accetta il principio che ubriacarsi è un male, ma di fronte alla bottiglia cerca di giustificare la scelta contraria: «In questo caso», «per me che ho bisogno di tiranni su», «è l'ultima volta», «poi si vedrà», eccetera. Siamo molto abili nel convincerci che i nostri vizi non sono così dannosi, anzi talora sono quello che ci vuole. Per pensare e agire bene bisogna essere buoni, cioè bisogna essere liberi da tutti quei condizionamenti (pregiudizi, passioni, vizi, abitudini corrotte...) che possono interferire negativamente nel momento in cui ci mettiamo a ragionare per decidere cosa fare.
Per questo la presenza anche di una sola inclinazione ,viziosa può diventare il punto debole di tutto l'edificio morale. La visione di Daniele del gigante costruito con metalli preziosi e solidi, ma, che va in pezzi quando un piccolo sasso colpisce i suoi piedi di argilla, esprime bene questa situazione morale. L'amore per il potere, per le ricchezze, per il sesso possono far franare in ogni momento la persona apparentemente solida e possono piegarla nella direzione del vizio. Ed è ingenuo controbattere che si tratta di ambiti diversi, altro è l'ambito della giustizia, altro è l'ambito della sessualità, perché l'uomo non è fatto a compartimenti stagni: è una realtà unica in cui tutto è sempre presente in tutto.
Una tendenza viziosa può sempre sconfinare in ambiti morali diversi, e può alimentare altri vizi. Ogni vizio può diventare il cavallo di Troia che mette in pericolo tutto l'edificio morale della persona. In modo particolare il vizio della lussuria che non è mai solo se stesso, ma essendo un vizio capitale genera altri vizi, che vengono chiamati i figli della lussuria. San Tommaso ne elenca sette, l'accecamento dello spirito, la precipitazione, l'inconsiderazione, l'incostanza, l'amore disordinato di sé, l'odio contro Dio, l'attaccamento a questa vita e il timore della vita futura.
Conclusione
È vero che i vizi privati non sono sempre così radicati e forti da prevalere sulla ragione e da impedirle di ben ragionare; per cui è possibile, per esempio, che l'amore per la giustizia e per il bene comune coesistano con una sessualità non completamente controllata. Ma è anche vero che ogni inclinazione viziosa della persona è sempre un pericolo in agguato, una mina vagante. Il gigante dalle membra di metalli preziosi e solidi è sempre in pericolo se ha i piedi di argilla.
L'interrogativo di fronte a casi come quello di Gary Hart: «Che garanzie può dare di essere fedele al bene comune chi non è capace di essere fedele a una promessa di amore», è molto più realista di quanto possa sembrare a prima vista. Ed è l'interrogativo che noi ci poniamo a proposito di certi nostri uomini politici che dichiarano di saper gestire bene il bene comune quando non sanno gestire bene il proprio bene personale.
Giordano Muraro
(da Vita Pastorale, n. 1 gennaio 2011)