Formazione Religiosa

Lunedì, 01 Dicembre 2008 22:50

Ma cos’è allora la laicità

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Ma cos’è allora la "laicità?

di Giordano Frosini

Nata nel mondo cattolico, questa parola é stata declinata su versanti diversi, creando non pochi equivoci. Il suo significato analizzato a partire dalla "Gaudium et spes", dal documento della Congregazione per la dottrina della fede "Cattolici in politica" e dalla riflessione di Giuseppe Lazzati. Oggi i difensori della vera laicità sono i cattolici.

Ma cos'è allora la laicità? La domanda si impone ancora, visti i diversi significati con cui si continua a usare il termine. Il rischio è proprio quello di non intendersi. Secondo il buon uso degli antichi, bisogna tornare alla precisione dei concetti, cominciando da una buona definizione o almeno da una chiarificatrice descrizione. Non est lis de verbis, continuiamo a ripetere, cioè è perfettamente inutile e perdita di tempo continuare a litigare sulle parole. La prova più convincente è che, fedeli al concilio Vaticano II e, se vogliamo a una tradizione assai più remota della chiesa, i cattolici si professano a pieno titolo laici e tali vogliono essere considerati quando parlano delle realtà secolari o temporali, mentre dall’altra parte quella di coloro che si considerano laici per antonomasia, si continua a designarli semplicemente come cattolici.

Laici da una parte e cattolici dall'altra. E. nonostante i diversi richiami. il linguaggi non si sposta di un centimetro. Si pensi soltanto ai partiti di ispirazione cristiana. che si sono sempre considerati puntigliosamente laici e come tali hanno sempre chiesto di essere giudicati e valutati. La questione si complica ancora se si pensa che nel campo cattolico, come vedremo, si è soliti distinguere laicità da laicismo, riservando quest'ultimo termine a coloro che spingono la laicità oltre i limiti naturali, come, del resto, il suffisso "ismo" sta chiaramente a significare. Cominciamo questa breve riflessione ascoltando fonti autorevoli dell'una e dell'altra parte, non disdegnando affatto il contributo del mondo cattolico, dove (non dimentichiamolo) la discussa e fortunata parola ha conosciuto i suoi natali.



La voce «laica»

La prima la affidiamo a N. Bobbio, un laico indiscusso, un politologo stimato e uno scienziato da tutti apprezzato.

 Egli scrive nel suo Dizionario di politica alla voce «Laicismo», dopo un breve premessa di carattere storico: «I diversi significati del L. concernono insieme la storia delle idee e la storia delle istituzioni e si possono riassumere nelle due espressioni di "cultura laica" e di "stato laico"». Per gli scopi della nostra indagine, a noi interessa soprattutto la prima espressione, nella quale, secondo Bobbio, «confluiscono le correnti di pensiero che affermano l'emancipazione della filosofia e della morale dalla religione positiva. La cultura del Rinascimento, rivalutando le scienze naturali e le attività terrene in luogo della speculazione teologica, diede luogo a partire dal XVII secolo ad un graduale distacco del pensiero politico dai problemi religiosi e alla diffusione di una mentalità laica che si affermò nel secolo XVIII rivendicando il primato della ragione sul mistero. Il L. moderno affonda quindi le proprie radici nel processo di secolarizzazione culturale che intervenne a rafforzare le preesistenti teorie sulla natura secolare del governo. La cultura laica è tributaria delle filosofie razionalistiche e immanentistiche che rifiutano la verità rivelata, assoluta e definitiva; e, viceversa, afferma la libera ricerca delle verità relative, attraverso l’esame critico e la discussione».

La citazione può terminare qui. Alcuni passaggi meriterebbero di essere approfonditi, ma quanto interessa alla nostra ricerca è più che chiaramente affermato. Chiarissimo il riferimento alla ragione. Laicità e «emancipazione della religione positiva», «rivalutazione delle scienze naturali e delle attività terrene in luogo della speculazione teologica», «rivendicazione del primato della ragione sul mistero», «cultura tributaria delle filosofie razionalistiche sviluppatesi specialmente nel secolo XVIII». Ce n'è a sufficienza per concludere che laicità è affermazione della ragione in luogo delle religioni positive, in primis della religione cattolica, negli spazi della quale (particolare non certo trascurabile) essa ha preso vita. Laicità, dunque, come affermazione della ragione.

Anche il richiamo al razionalismo illuministico è in questo senso quanto mai significativo. Se c'è un pensatore a cui la qualifica di laico si attaglia in modo particolare, questi è certamente I. Kant, lo strenuo difensore della ragione nella nascita della modernità, nei cui limiti si sforzò di riportare perfino la religione. L'assertore ancora della legge naturale, di cui per natura è dotato ogni uomo. La ragione, ammoniva il pensatore di Koenisberg, ha i suoi limiti, ma rimane la grande luce destinata a illuminare nel tempo il cammino dell'uomo verso la verità.

Una conclusione limpida che, in qualche modo, era già stata anticipata, anche se Bobbio non lo sa, pure da uomini di chiesa come san Tommaso d'Aquino (si pensi alla distinzione fra filosofia e teologia) o (per quanto riguarda il rapporto stato-chiesa) da uomini di indubbia fede cattolica, fra i quali anche il grande Dante Alighieri.

La seconda voce, quella del Vaticano II e del post-concilio, non nasce così proprio dal nulla, ma si inserisce chiaramente in un filone di pensiero che domandava soltanto di essere esplicitato e attualizzato nel nostro tempo.



La voce cattolica

La costituzione della chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes), quando tratta del nostro problema, non usa la parola «laicità», ma «autonomia»; il linguaggio comune nella chiesa ha adottato anche il termine «secolarizzazione» (ricordato anche da N. Bobbio, nel testo prima citato), dando così in qualche modo la preferenza all'uso più comunemente usato nei paesi anglosassoni. La sostanza pero è la stessa.

È così che la lettura attenta del testo conciliare permette di giungere alle stesse conclusioni ritrovate prima. Alla laicità fa riscontro l'atteggiamento del laicismo, all’autonomia relativa l'autonomia assoluta, alla secolarizzazione il secolarismo. Le prime sono accettate e raccomandate dal concilio, le seconde, oltrepassando il segno, sono decisamente respinte.

Il discrimine consiste nell'esasperazione della verità che deriva dalla negazione di Dio: una questione che, nel nostro caso, interessa relativamente, perché siamo dell'opinione che la semplice negazione di Dio non sia sufficiente ad annullare le esigenze della natura e dell'etica razionale. Se rispetta l'uomo e le sue qualità, anche l'ateo può essere un nostro compagno di strada.

L'affermazione centrale del concilio è questa: «È dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza e arte» (GS 36). Un'affermazione che, come avverte il testo conciliare, ha il suo substrato naturale nella dottrina della creazione, la quale stacca le cose dal Creatore e le colloca nella loro relativa autonoma realtà.

Le realtà terrene, allora, le scienze umane, le tecniche e le arti, non dipendono dalla fede e dalla rivelazione, ma hanno un diretto riferimento alle capacità razionali della persona umana. L'intelligenza penetra nella loro intimità (intus-legit), le domina, le dispone e le sottomette alle proprie necessità. Più che di un imperativo morale, si tratta di una vera e propria esigenza teologica. Una scelta irreversibile. Un compito che spetta anzitutto ai cristiani che «non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera e propria conoscenza in quei campi» (GS 43).

Di nuovo, una chiara distinzione fra attività razionale e attività religiosa. pure se il cristiano rimane fermamente convinto che fra i due ordini esiste una sostanziale continuità, senza discrasie e opposizioni, dal momento che hanno la stessa origine nel Dio creatore e rivelatore. Anche se fornito di un’ulteriore certezza che proviene dalla rivelazione il cristiano quando tratta di tali questioni non si appella ad essa ma porta argomenti di ragione, dimostrazioni, prove su cui possono concordare anche i cosiddetti laici. I quali dovrebbero tenere nella giusta considerazione lo spirito e le convinzioni del proprio interlocutore.

Nel caso di conflitto si dovrà pensare a uno scontro fra due posizioni laiche e a tutti rimarrà l'obbligo di approfondire l'argomento per la ricerca dell'ultima verità. Non è però concepibile che il laico di professione, dimenticando tutto questo, si permetta di liquidare la comparte con epiteti fuorvianti e, a volte almeno, perfino offensivi. Al fondo, la stessa divisione in questo campo fra cattolici e laici va dimenticata e messa in disparte; quando parla delle realtà temporali, il cattolico chiede semplicemente di essere ascoltato e giudicato sulla base degli argomenti razionali che porta. Se si pensa che sbagli, si portino argomenti che possano dimostrare il contrario e le offese si lascino per altre occasioni.

Oggi il terreno di scontro più facile è quello della bioetica. I referendum su cui fra poco gli italiani saranno chiamati a votare non vanno combattuti in nome e sulla base della fede, ma della semplice ragione. Non si tratta di difendere un principio cattolico (peraltro già largamente decurtato e modificato da ripetute mediazioni), ma una legge che possono far propria, sulla base di veri e probanti ragionamenti, anche i non credenti. Tali la natura dell'embrione umano, la pratica dell'inseminazione eterologa, la cancellazione dei diritti del concepito. (Non entriamo qui, di proposito, nella questione della opportunità di una legge del genere né del modo di reagire praticamente alla provocazione del referendum: il nostro ragionamento si colloca su un altro piano, che costituisce il punto fondamentale della discussione in questo momento).

Recentemente del problema si è interessata anche la Congregazione per la dottrina della fede in un documento intitolato Cattolici in politica (21 novembre 2002), ribadendo e chiarendo gli stessi concetti. La laicità, vi si dice, va intesa «come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica, ma non da quella morale» (n. 6), dal momento che «le esigenze etiche sono radicate nell'essere umano e appartengono alla legge morale naturale»; per questo «non esigono in chi le difende la professione di fede cristiana, anche se la dottrina della chiesa le conferma e le tutela sempre e dovunque come servizio disinteressato alla verità sull'uomo e al bene comune delle società civili» (n. 5). Nell'ambito delle realtà temporali, rimane di fondamentale importanza la distinzione fra «questioni contingenti» e questioni che coinvolgono la «promozione integrale della persona e del bene comune» (n. 6), le questioni cioè che coinvolgono problemi morali.

Il contributo di Giuseppe Lazzati

Se c’è un autore che ha illustrato e difeso ai nostri tempi il pensiero del concilio, questi è certamente Giuseppe Lazzati, un vero e proprio paladino della laicità all’interno della chiesa e nei rapporti di questa col mondo. Un impegno di tutta la vita che ha forse trovato la definitiva chiarezza nella parte finale della sua esistenza.

Affermava nel 1984: «L’impegno politico ha come principio fondamentale l’autonomia delle realtà temporali, della loro scoperta attraverso la forza della ragione… Noi cristiani dobbiamo capire che la fede vissuta, cioè la fede che diventa vita, fa da supplemento all’anima, perché la ragione e la volontà non si lascino sedurre e strumentalizzare dall’istintività e raggiungano invece tutta la loro forza umana». Per questo la competenza scientifico-tecnica è tassativa per tutti, cristiani compresi, anzi cominciando proprio da loro. Un esercizio che richiede pazienza, riflessione, studio, dialogo, confronto. Aggiungeva Lazzati: «Cito come esempio di dialogo quello fatto alla Costituente, Giorgio La Pira. Era di tutt’altre idee dei liberali, dei comunisti, partiva da punti diversi, nei suoi discorsi non tirava mai fuori Cristo, la chiesa, ma riusciva " sempre a ragionare"» (Chiesa, cittadinanza e laicità, In dialogo, Milano 2004, pp. 34-39, passim).

Interessante la messa a confronto fra ragione e istintività; altre volte si parlerà di capriccio (ivi, p. 44): notazioni assai interessanti per i nostri scopi. Il richiamo alla ragione è sempre centrale nei riguardi della concezione lazzatiana della laicità.

Ne La città dell’uomo, Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo (Ave, Roma 1984), l’opera più matura della sua vasta produzione teologico-politica, l'accento dalla ragione si sposta sul soggetto, cioè sull'uomo, l'uomo senza aggiunte, l'uomo lasciato alle sue facoltà e capacità naturali. La città che anche i cristiani sono chiamati a costruire non è la città cristiana, ma la città dell'uomo (la civitas humana, aveva detto in un primo tempo), la città complessa e pluralista che siamo chiamati ad abitare ai nostri giorni. La città di tutti, di tutte le culture, di tutte le confessioni: il raccordo è semplicemente sulla ragione. È ancora il rispetto della laicità, della consistenza, della verità, dell'autonomia delle realtà terrene, dell'etica naturale, in ultima analisi della creazione.

Un punto di partenza comune, specifica il concilio, che non solo corrisponde al desiderio degli uomini. «ma è anche conforme al volere del Creatore» (GS 36). E vero che i cristiani devono agire sempre «da cristiani» (secondo la tipica espressione di J. Maritain). ma l'ispirazione cristiana rimane sullo sfondo senza entrare minimamente nelle proprie scelte operative. Non si governa a base di Vangelo, ma di ragione.

Su questa esigenza della laicità di chi opera in politica Lazzati rimarrà irremovibile per tutta la vita. Non si fa il sindaco soltanto perché si è buoni cristiani: i buoni cristiani incompetenti possono procurare danni incalcolabili alle realtà che sono chiamati a dirigere e presiedere. L'ispirazione cristiana è un orientamento e una direzione, le scelte concrete vanno ricercate sulla base di competenze vere e proprie.

Afferma Lazzati: «Il cristiano ha il grande privilegio e la pesante responsabilità di recare in tale ricerca - e non ha bisogno di dirlo se no richiesto - il "supplemento d’anima". Di luce, per l’intelligenza e la forza di volontà, che gli deriva dal vivere il mistero della vita che lo investe in Cristo, mentre mostra che quel valore risponde a esigenze profonde dell’uomo in quanto uomo e di cui non può fare a meno la "città a misura d’uomo"» (p. 61).

Tanto l’azione del politico riveste una natura laica che essa dovrà essere commisurata sulla effettiva realtà in cui viene posta. È la dottrina della mediazione, cioè dell’incontro, del congiungimento, del tenere insieme il principio e le possibilità concrete della situazione attuale. Un pensiero che ha avuto tante critiche da parte dei cosiddetti cristiani della presenza, che interpretavano il pensiero lazzatiano come una menomazione, una dimidiazione, una rinuncia e una perdita, anziché come un’attenzione necessaria alla situazione di tempo e di luogo per rimanere coi piedi per terra e non correre invano.

Come del resto vuole il concilio, il cristiano cammina in questa sua opera fianco a fianco anche con coloro che partono da presupposti diversi e che intendono solo procedere al lume della ragione.

Questo discorso si presta ad una approfondimento teologico relativo al rapporto fra ragione e fede, al quale abbiamo già fatto riferimento o anche, nella stessa misura, fra valori umani e valori cristiani. Ciò che è cristiano è anche autenticamente umano e viceversa. La scelta dell'umano non è una rinuncia alla fede, ma un annuncio e un'anticipazione; come la scelta del cristiano non è una rinuncia alla ragione, ma una prosecuzione e un approfondimento. Umano e cristiano, non umano o cristiano.

Se tutto questo è vero, non è giusto dividere il mondo in cattolici e laici quando si parla di realtà temporali. Non laici e cattolici in contrasto fra loro. ma piuttosto due laicità a confronto. L'incontro dovrebbe essere di diritto sempre possibile.



Incontriamoci sulla ragione

Ma la domanda cruciale è questa: è proprio un confronto sulla ragione o attualmente, dall'altra parte, sono chiamate in causa altre risorse dello spirito umano, come, per esempio (l'abbiamo già sentito) il sentimento, l'istinto, il desiderio, il capriccio, la libertà spinta al suo eccesso senza norma e senza punto di riferimento di carattere razionale. il libertinismo e l'individualismo, come si esprime il citato documento della Congregazione per la dottrina della fede? Perché, se così fosse. la laicità vera sarebbe soltanto da una parte, esattamente da quella parte che normalmente i laicisti considerano fuori della laicità. Ora l'impressione è proprio questa.

In realtà, non è la ragione che trionfa, ma il libertarismo, che non è affatto la difesa della libertà umana, come da sempre essa è stata intesa, ma l’ideologia dominante nelle nostre società, che esalta il piacere come norma ultima dell’agire umano, la libertà sciolta da ogni vincolo sia di fede che di ragione, il proprio capriccio e il proprio comodo come richieste da assecondare e accontentare a ogni costo, il diritto nella dimenticanza più totale dei doveri corrispondenti. La laicità intesa come liberazione non solo dall’egida della religione, ma anche della ragione.

La ragione debole ha bisogno di un aiuto e di un supplemento per no perdersi nelle nebbie fitte dell’irrazionalismo e del nichilismo. La laicità staccata dalla ragione non merita più questo nome. Certo, tanto il singolo come la società, possiedono la possibilità fisica di fare le scelte che vogliono, ma si abbia allora la bontà e l’onestà di cambiare qualifica e nome. La categoria che viene in mente è anzitutto quella del nichilismo. Comunque, certe scelte, certe prospettive non hanno più diritto di fregiarsi del termine glorioso e ricco di storia della laicità. Bisogna rivolgersi altrove.

Una conclusione forse insospettata e sorprendente, ma, pare, ineccepibile: il termine laico va tolto dalle insegne di coloro che stanno usurpando l’uso illecito di una parola e trasportato invece di pari passo su quelle di coloro che da questa categoria erano stati sdegnosamente esclusi. La difesa della ragione è uno dei compiti della comunità cristiana attuale. Scesa in campo un giorno non lontano contro le teorie del razionalismo e dell’illuminismo, oggi la stessa deve riprendere la lotta, però sul versante opposto.

Non vogliamo affatto rinnegare la parte di verità e le opportunità pastorali che porta con sé il pensiero debole della post-modernità, ma non possiamo negare che esso ha certamente bisogno di un buon supplemento di ragione. Un opportuno richiamo a quella che, nonostante tutto, può essere ancora considerata la facoltà-regina della persona umana.



Legge naturale e Decalogo

Come abbiamo più volte accennato, ragione significa anche legge naturale. Ripensiamo ancora a Kant e al suo famoso principio: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». Legge morale, cioè ragione umana. etica naturale, rispetto della coscienza e della propria essenza. In altre parole, rispetto del Decalogo, il quale nient'altro è se non l'esplicitazione della legge morale che ogni uomo riconosce in se stesso per il semplice fatto di essere uomo. Tornare al Decalogo, si voglia o no, è tornare alle stesse origini della laicità classica. E questo anche a prescindere dall'esistenza di Dio.

Se non ci intendiamo più con i moderni fautori della laicità, il motivo sta al fondo di queste considerazioni. Non si parla più della stessa cosa. Certo, nella discussione non si potrà prescindere dalla distinzione prima rievocata delle questioni contingenti e dei valori morali. In questo secondo caso, la presenza della comunità cristiana è più che naturale. Si vuole forse negare alla chiesa la possibilità di intervenire in campi dove sono in gioco i fondamenti stessi della vita e della società? Può la chiesa rinunciare a se stessa? In questo modo non si farà mai un passo in avanti. Una concezione chiara della laicità non le permette di imporre ai cattolici e tanto meno allo stato scelte di carattere tecnico e contingente. Ci sono campi di politica concreta che le sono preclusi e che essa demanda ai fedeli laici, i quali agiranno sotto la loro responsabilità; ma altrettanto non si può dire quando sono in questione problemi morali, come la vita e la morte, la persona umana, la famiglia, la bioetica, la giustizia, la pace, l’ordine economico.

Si pensi però in contemporanea anche allo stato, pure esso vincolato da limiti ben precisi, pena altrimenti a evolvere da stato laico a stato etico, stato etico è lo stato che diventa soggetto produttivo di diritto e di valori morali. Esperienze anche recenti ci mettono bene in guardia da ritornare a simili concezioni. Di stato etico si muore.

La parola passa così alla società, senza poter dire però che una legge è buona soltanto perché è stata approvata dalla maggioranza, come si tende non di rado a pensare. Se non c’è una legge morale che sovrasta tutto e tutti, veramente ogni avventura è possibile. C’è da aggiungere che le Costituzioni dei singoli paesi hanno lo scopo e il potere di limitare i diritti delle maggioranze: un dettato che il legislatore deve scrupolosamente rispettare.

Come allora si deve comportare quando questi limiti vengono superati? Una questione su cui è urgente riflettere più di quanto non si faccia ai nostri giorni.


(da Settimana, n. 21, 29 maggio 2005, pp.8-9)

Letto 7274 volte Ultima modifica il Martedì, 24 Aprile 2012 14:18
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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